Blokada: come le piazze in Serbia stanno riscrivendo la politica dal basso
Le elezioni presidenziali e parlamentari del 2023 si erano aperte con un clima di forte aspettativa. Una parte consistente della popolazione nutriva speranze di cambiamento, spinta dal crescente malcontento per la situazione del Paese. Tuttavia, quell’ottimismo si incrina presto: il regime avrebbe trasferito elettori da Bosnia e Montenegro, modificando residenze e indirizzi per influenzare il voto locale a Belgrado e scongiurare una sconfitta per Aleksandar Vučić. Di fronte a tali irregolarità, molti iniziano a chiedersi se esistesse davvero una possibilità di svolta.
Nel novembre 2024 avviene però qualcosa che spezza l’apparente immobilità: a Novi Sad, un incidente provoca la morte di sedici persone. Per la popolazione diventa subito il simbolo di un sistema marcio, dell’incompetenza e della corruzione della classe dirigente serba. Nasce così una protesta spontanea, disorganizzata ma animata da un sentire comune, da un’emozione collettiva che esplode nelle strade. Davanti al municipio di Novi Sad i manifestanti si radunano, lanciano oggetti e uova contro l’edificio; in alcuni momenti si trovano a meno di venti metri dal presidente Vučić. La tensione cresce, alimentata dalla sensazione che l’incidente rappresenti un punto di rottura definitivo.
Nei mesi successivi il Paese entra in ebollizione. Le proteste si moltiplicano e, nel febbraio 2025, un nuovo episodio sorprende tutti: un gruppo di artisti indipendenti, Kultura u Blokadi, occupa il KCB (Centro di Cultura di Belgrado). Un corteo improvvisato parte dal Ministero della Cultura e raggiunge la Hall Theatre, la principale sala dedicata al cinema d’essai. Quattrocento persone irrompono durante una proiezione, trasformando la sala nel cuore pulsante della protesta. Assemblee plenarie, dibattiti, cineforum, laboratori politici: per tutto febbraio il KCB diventa il centro di una democrazia diretta sperimentale. Un unicum nei Balcani contemporanei, coordinato con l’ondata di occupazioni universitarie che attraversa il Paese. Ma la crescita del movimento porta con sé tensioni interne: le differenze ideologiche — dagli anarco-sindacalisti ai nazionalisti di sinistra — sfociano in conflitti organizzativi. L’occupazione termina nell’estate 2025 con lo sgombero della Hall Theatre, ma il terreno culturale e politico che ha generato resta vivo.
Parallelamente, il movimento trasversale nato dopo il crollo della struttura ferroviaria di Novi Sad continua a crescere. Il 15 marzo si svolge quella che verrà ricordata come la più grande manifestazione della storia serba. Dopo il corteo, gli studenti lanciano un appello alla popolazione: creare assemblee pubbliche cittadine, le Svora, strutturate secondo un modello di partecipazione orizzontale e leadership collettiva. Spazi in cui chi non ha voce possa finalmente parlare. I principi sono chiari: proattività, disciplina, fiducia, solidarietà, impegno e ricerca condivisa di soluzioni. Nasce anche un giornale di controinformazione dal basso e si aprono canali su Discord per coordinare le assemblee e estendere il coinvolgimento della popolazione.
Ma mentre tutto questo accade, l’apparato politico-mediatico italiano (e non solo) continua a leggere il movimento con le sue lenti abituali. Lo descrive come europeista, liberal, pro-Occidente. È una semplificazione comoda, ma falsa. Perché le proteste nascono contro Vučić, sostenuto dalla triade UE–Cina–Russia. Perché uno dei nodi centrali è l’opposizione alla miniera di litio di Rio Tinto, un progetto promosso da governi e dalle elite occidentali e dalla retorica della “transizione verde”, ma devastante per l’ambiente e la vita delle comunità rurali. E perché il movimento propone una forma di organizzazione collettiva che, se proprio va collocata politicamente, appartiene alla sinistra radicale, non al centrismo europeo.
Le blokada sono, nella loro essenza, pro-Serbia: non contro l’Europa, ma contro l’idea che interessi esterni — economici o geopolitici — possano valere più dei diritti delle persone e dell’ecosistema. È diffusa la convinzione che nessuna potenza straniera voglia davvero il bene del Paese. Da qui la scelta dell’auto-organizzazione: se nessuno aiuta, allora tocca ai cittadini. Il movimento non attacca l’Europa, ma ciò che ritiene un “pupazzo” dell’Unione Europea: il governo Vučić e il suo sistema di potere. Non a caso le proteste minacciano progetti cruciali come l’estrazione di litio — fondamentale per l’automotive tedesca — entrando così in rotta di collisione con gli interessi economici dell’Occidente. Allo stesso tempo, mantengono una distanza critica anche dalla Russia. È una rottura completa con l’allineamento geopolitico tradizionale: il movimento mette al centro le persone, non le potenze.
In conclusione, in Serbia è stato piantato un seme capace di mettere in discussione un ordine politico logoro. Le assemblee, le blokada, l’autorganizzazione dal basso hanno aperto la strada a un nuovo immaginario: cittadini che decidono sulle politiche pubbliche non ogni quattro anni, ma ogni volta che qualcosa riguarda la loro vita. Un modello che abbatte il ricatto del “non c’è alternativa”, che antepone l’interesse collettivo ai profitti delle multinazionali del litio, alle élite corrotte e ai protettori stranieri — da Bruxelles a Mosca, fino a Pechino.
Le manifestazioni di Novi Sad del 1° novembre non sono state una commemorazione, ma un avvertimento. Un anno dopo, il movimento esiste ancora, mentre l’Occidente continua a non capirlo: un movimento senza leader, senza sponsor, senza padroni non entra nelle categorie politiche tradizionali. Ed è proprio questo il suo punto di forza. Ciò che è nato in Serbia non è un episodio passeggero: è una prova — fragile, imperfetta, ma potentissima — che un’altra forma di politica è possibile. E che, se nessuno vuole davvero il bene della società, allora i cittadini hanno deciso di prenderselo da soli.
Giulio Torello
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