Unico-Brera é la Milano di oggi
Il modello Milano è diventato elemento di dibattito, chiacchiera da bar, meme e molto altro. L’occhio cade su quanto sta facendo la magistratura, sui sequestri e sulle indagini. Se la verticalizzazione di Milano sia stata fatta in maniera illegale sarà un tassello, non secondario ma non centrale: il problema è l’idea di città che è stata imposta. Una città pensata per essere attraversata e vissuta per brevi periodi o abitabile da chi è ricco. Per le altre persone si aprono le porte della corona periferica: entrare e uscire dalla città per fruire di spettacoli, settimane del qualcosa, food (non cibo, perché l’idea di food è assai diversa) e dei mille bar copia-incolla che riempiono la città. In questo il sequestro del palazzo Unico-Brera non è una novità, ma una conferma, che si porta dietro tutta la violenza di un grattacielo con monolocali a partire da 700mila euro. Ma se l’occhio cade lì, è ben più grave ricordarsi che attorno alle Olimpiadi Milano–Cortina 2026 si è dato ampio spazio di costruzione al privato e che il villaggio olimpico sarà trasformato in studentato privato di lusso: il pubblico ha dato nuovo spazio alla speculazione e, davanti al dramma abitativo che si vede in città, non interviene e usa il grande evento per legittimare, una volta di più, l’idea di città esclusiva che negli ultimi 12 anni, a gradienti diversi, è stata imposta.

Il sequestro di via Anfiteatro non è un incidente né una stortura del sistema: è il sistema. È la fotografia nitida di come Milano abbia scelto chi far vivere e chi espellere. Quelle mura, abbattute e ricostruite come se nulla fosse, raccontano una storia lunga decenni: un’area acquisita dal Comune a prezzo di esproprio, destinata a case popolari, trasformata in un feticcio immobiliare che, in mano a fondi, costruttori e architetti compiacenti, si moltiplica in valore mentre si svuota di qualsiasi funzione sociale. Da 9 case popolari a 27 appartamenti di lusso, da ruderi storici a un totem di rendita con il marchio “Unico”: il nome perfetto per un progetto che chiarisce senza vergogna chi è considerato degno di abitare il centro di Milano.
La Procura parla di gruppi di pressione che controllano le operazioni immobiliari più lucrative, di un sistema “discrezionale in deroga” costruito per favorire i privati, di funzionari comunali che operavano contemporaneamente da garanti della legalità e da consulenti informali degli immobiliaristi ai tavoli paralleli di “C’è Milano da Fare”. È una definizione involontariamente poetica: c’è Milano da fare, sì, ma evidentemente non per chi ci vive. C’è Milano da rifare, da vendere, da monetizzare. Una città cucita a misura di chi ha capitali da investire, non di chi ha bisogno di una casa.

La storia del cantiere sequestrato ci restituisce così la parabola di una città che, in nome della modernità, ha legittimato tutto: demolizioni trasformate in “ristrutturazioni”, volumi esplosi senza piano attuativo, standard urbanistici ridotti a ostacoli da aggirare, vincoli storici trattati come formalità da piegare quando necessario. E mentre si autorizzavano torri chiamate “riqualificazioni”, mentre ogni lotto diventava terreno di caccia per il private equity dell’urbanistica, Milano si andava svuotando della sua popolazione reale, sostituita da una popolazione ideale fatta di investitori, studenti ricchi, professionisti itineranti, residenti a tempo.
Perché Milano oggi non è pensata per essere abitata: è pensata per essere venduta. A pezzi, a piani, a rendita garantita.
Milano non soffre di mancanza di case: soffre di eccesso di profitto.
Non soffre di limiti urbanistici: soffre di assenza di politica.
Non soffre di disordine: soffre di un ordine feroce, cucito addosso ai ricchi.
Lo dimostra la vicenda del villaggio olimpico che si trasformerà nell’essimo studentato, privato, di lusso, lo mostrano i prezzi fuori scala degli alloggi, lo testimoniano gli sfratti e la crescente impossibilità per chiunque non appartenga ai piani alti del reddito di vivere dentro i confini della città. A Milano puoi venire a consumare, ma non a vivere. A Milano puoi attraversare, ma non radicarti.
Il sequestro di Unico-Brera toglie un altro velo a una verità che le lotte per la casa, i comitati, le occupazioni e chi resiste nei quartieri conosce da anni: la città che ci raccontano come modello è in realtà un dispositivo permanente di espulsione. E non basteranno indagini e sequestri a invertire questa traiettoria se non si mette in discussione l’impianto politico che l’ha resa possibile: la trasformazione sistematica del patrimonio pubblico in rendita privata; la continua erosione del diritto all’abitare; la retorica tossica della città-azienda che produce solo disuguaglianze; i garage trasformati in grattacieli; la folle logica per cui l’economia si regola da sola; il terzo settore usato come volano di privatizzazione e di limitazione delle responsabilità politiche su sport, welfare e tanto altro.

A questo punto si apre la domanda decisiva: che Milano vogliamo?
La Milano che vogliamo non è verticale ma orizzontale; non è finanziaria ma sociale; non è recintata ma aperta. Una città in cui il pubblico torna a essere bene comune, e in cui il territorio non è più preda della rendita ma spazio di vita. Come si costruisce questa Milano? Non possiamo non cercare di dare una risposta.
Milano non è “fuori controllo”: è perfettamente controllata dagli interessi che l’hanno plasmata. Il punto è capire se chi la vive tutti i giorni vuole continuare a subirla o iniziare a cambiarla. Perché nessun grattacielo di lusso, nessuna settimana del design, nessuna narrazione di successo può cancellare l’urgenza che emerge da ogni sfratto, da ogni quartiere gentrificato, da ogni cantiere che promette rigenerazione e consegna esclusione. Se il modello Milano è arrivato al suo limite, il sequestro di Unico-Brera ci indica una strada: non un ritorno nostalgico a ciò che era, ma la necessità di costruire ciò che non è mai stato permesso — una città che mette al centro chi la abita, non chi la compra. Una città che smette di essere Unico e ricomincia a essere comune.
“Giù le mani dalla città” e “contro i padroni della città” erano i due slogan che hanno mosso oltre 50mila persone per dire no allo sgombero del Leoncavallo. Il vuoto di via Watteau 7 è parte del problema, ma il ritorno del Leoncavallo in quelle mura — per quanto idea allettante — non basterebbe a rimettere in fila le cose. Non è solo una questione di muri: è una questione di volontà. Via Watteau 7 può tornare a essere un luogo di vita comune oppure diventare l’ennesimo investimento immobiliare travestito da riqualificazione. Sta a L’Orologio scegliere se dialogare o speculare, ma sta alla città pretendere che la scelta non ricada sempre sui profitti.
Le Olimpiadi servono a chi governa Milano per blindare un modello già scritto: più privato, più studentati di lusso, più rendita, più esclusione. Per questo il 7 febbraio non sarà solo una mobilitazione: sarà l’apertura di una contro-narrazione pubblica che contesta il cuore politico dell’evento.
Il 6 settembre e la presa di piazza Duomo, con quegli slogan, non possono essere solo un episodio lasciato all’emozione dello sgombero e alla risoluzione della vicenda “Leoncavallo”. La piazza che si darà il 7 febbraio, in concomitanza con l’inizio delle Olimpiadi invernali, sarà fondamentale: fondamentale per gridare a una città diversa, portare idee alternative e costituenti, e non solo di opposizione e di denuncia. Fondamentale per ripartire di slancio, non come 10 anni fa, quando si è usciti dal Primo maggio, dal corteo contro l’Expo, più deboli e frazionati, lasciando spazio alla devastazione di Milano.

di Andrea Cegna
Foto di Gianfranco Giovanni Candida
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