Dell’odio e dell’amore. La domenica con due ragazze della Barona
La Barona non è male, si estende ordinata sul lato sud ovest di Milano, attraversata da larghi vialoni. C’è una piazza con portici perimetrali, dove si concentrano negozi e servizi. Non ha l’aria di un quartiere degradato, semmai la sensazione è che manchi qualcosa, che ci sia un po’ troppo nulla.
«A Corvetto l’edilizia è più fatiscente, soprattutto nelle case popolari» racconta Raja, trentaquattro anni, attivista del centro sociale Lambretta: milanese, marocchina, della Barona. Guida per le strade semivuote di una domenica invernale.
Racconta che il quartiere popolare, dove si concentravano prima gli emigranti dal meridione e poi quelli di oltre confine, oggi attraversa un processo di trasformazione. «Questo parco prima era grande il doppio, hanno chiuso una parte per costruirci palazzi che dovevano essere destinati all’housing sociale, invece le stanno vendendo ai privati sul mercato» Raja parla, occhi sulla strada.
La presenza dell’Ospedale San Paolo e della Iulm, università privata, sta portando in Barona nuove categorie di abitanti. La distanza dal centro con i mezzi pubblici è più che ragionevole. «Da qui con la 74 da Famagosta in sette minuti sei sui Navigli e la casa la paghi un po’ meno, da qualche anno magari nel condominio ci trovi lo studente cinese o australiano. Resta comunque un quartiere dormitorio. Dopo le sette di sera, a parte qualche ragazzino sulle panchine, in giro non trovi nessuno». Nel frattempo accosta sotto casa di Nada, che scende e si infila nei sedili dietro della macchina.
Vent’anni, milanese, marocchina e della Barona anche lei. Era fidanzata con Ramy Elgaml, il ragazzo di Corvetto, morto nel 2024 a soli 19 anni. Uno schianto con la moto guidata da Fares Bouzidi, mentre venivano inseguiti da una volante dei carabinieri.
Si va a pranzo in un ristorante di zona. Arredamento anni novanta, più di cento coperti e tavoli gonfi di persone. «Prima facevano piatti palestinesi, era gestito da compagni. Ora credo sia di un privato ma ci lavorano quasi tutti arabi» dice Raja. Una quindicina di giovani in camicia bianca e gilet nero percorrono rapidi la sala in tutte le direzioni, in un vortice di piatti sospesi. Chissà se fuori di qui qualcuno li ha mai definiti maranza.
«Durante il Covid è iniziata come un meme. Metto un paio di Tn (modello di Nike, ndr) e una felpa della Boxeur e scrivo “oggi sono una maranza”. Poi è diventata una parola usata dalle istituzioni e dai politici e ha smesso di far ridere. Adesso pensi all’arabo col machete, ma non è così, quella è gente di merda, non sono maranza» si infervora subito Nada. «Poi succede che i ragazzini, magari quelli più ingenui, fanno casino apposta perché hanno capito che questa figura attira l’attenzione, e questo li fa sentire importanti».
«Una certa estetica per noi fa parte della cultura» spiega Raja «in Marocco si usano le Nike Tn, perché sono le scarpe comode per stare tante ore in piedi. Poi passando dalla Francia per arrivare in Italia, sono diventate il simbolo della vita di strada. Buone per correre, quando arriva la polizia. Così come la tuta. In nord Africa è semplicemente l’abbigliamento comodo alla portata di tutti. Poi è diventata una moda».
«Questo fenomeno è in piena evoluzione, ci scrivono libri e canzoni ma ci vorrà tempo per capire cosa succede» continua Raja.
Cala il silenzio, viene riempito dal brusio della sala e dal metallo delle posate sulla ceramica, poi Nada riattacca: «Come chi invita il maranza in trasmissione, scegliendo fenomeni da baraccone con l’account su Tik Tok da alimentare. Perché non mi porti un ragazzo vero, di seconda generazione, che magari ha fatto le sue cazzate ma si è anche ripreso?».
Viene fuori il tema della violenza urbana. «C’è azione e conseguenza» dice Nada con l’espressione facciale piatta. «Noi siamo diventati cosi, aggressivi, antipatici, anche per come siamo cresciuti. Il furto al supermercato è una conseguenza ovvia. La gente campa di pasta e olio. Ovviamente cosa diversa è uno stupro, ma non venitemi a dire che stuprano solo i marocchini, sappiamo che non è così». E poi continua: «Sono in zona, nella mia piazzetta, e una sera viene il carabiniere. La sera dopo passa il localotto (polizia municipale, ndr), la terza quello della polizia. Il quarto giorno viene uno della Digos. Io sto seduta lì tranquilla e mi chiedi il documento, mi fai la minaccia, il commentino, non mi dai nemmeno una spiegazione del fermo. Succede anche alle ragazze. Poi è normale che la gente si incazza». Azione e conseguenza.
«Durante il Covid mia mamma ha perso il lavoro, non ci hanno rinnovato il permesso di soggiorno. Sono diventata clandestina anche se nata e cresciuta a Milano».
Nada ripercorre la vicenda burocratica che le ha stravolto la vita: «Appena ho fatto 18 anni sono andata a lavorare e ho raccolto i documenti per fare la richiesta di cittadinanza ma durante uno degli appuntamenti mi hanno presa e portata in Questura dicendo che c’era un buco di qualche anno nelle mie carte e che questo impediva la regolarizzazione. Mi hanno dato il Daspo per piazza Duomo. Senza motivo, ero incensurata».
«Mi hanno trattato come un’immigrata, mi chiedevano se volevo il traduttore» scoppia a ridere ma torna subito seria. «Un po’ di rispetto cazzo. Sono tanto italiana quanto marocchina, anche se per me il mondo dovrebbe avere zero bandiere. Giri con gente di culture diverse, albanesi, rumeni, parli anche un po’ della loro lingua. In questi ultimi tempi ad esempio mi sono sentita più di tutto palestinese».
Per fumare c’è il cortile interno del ristorante, dismesso per la stagione fredda, alcuni camerieri in pausa scherzano tra loro appoggiati alle torri di sedie infilate e accatastate in un angolo. Raja e Nada, generazioni diverse ma background comune, raccontano di essersi conosciute durante le proteste per la morte di Ramy e di aver stretto amicizia.
«Non farmi scherzi la prossima estate resti con me in Barona» dice Nada all’amica più grande evocando, forse inconsapevolmente, “Estate in città” un classico di Marracash, il rapper made in Barona.
Si passa a parlare di rap e di sessismo nei testi. «Non ci vedo niente di anomalo, riflette la realtà» dice Nada. «Non possiamo avere solo canzoni in cui la donna viene venerata perché non sarebbe reale. E le ragazze non sono passive, alcune lo fanno di proposito a proporre un’immagine di donna-oggetto perché magari fanno i soldi con il numero di follower e le pubblicità, gli fa gioco. Fanno bene, non le giudico».
Esita un po’ e riprende: «Le discriminazioni sulle donne ci sono sempre state. La differenza è che ora ci siamo un po’ rotte il cazzo. Su certe cose gli uomini hanno un pro, io peso venti chili e certi lavori non riesco. Però se mi metti a spazzare a terra mentre il collega maschio lo metti in cassa, perché dai per scontato che lui sa gestire i soldi, non mi sta bene, non è oggettivo».
«Quando sei piccola sopporti, poi ne vedi talmente tante, amiche che vivono situazioni brutte, sia in casa che in strada, che dici basta». La strada, considerata il luogo della pericolosità sociale, soprattutto a Milano.
«Milano era più rischiosa prima. Mi ricordo che sui Navigli non si poteva andare, c’era il giro dell’eroina. E non prendevo il bus notturno perché anche lì c’era gente disperata disposta a tutto. Preferivo camminare per ore» dice Raja. Ma la percezione dell’altra non è la stessa. «Negli ultimi anni è vero che è degenerata. Ma non è una questione di maranza, sono proprio le nuove generazioni che sono più aggressive».
Il ristorante è a due passi da casa di Nada. Palazzine anni sessanta disposte in circolo intorno a un cortile interno pavimentato, al centro qualche albero spoglio. Al primo piano, la porta si apre su un divano e un tavolino basso, il thé caldo riempie i bicchierini di vetro.
«Oggi non lavoro» dice Nada dopo un’occhiata al telefono. «Faccio la barista, 30 euro a servizio, ma mi comunicano sempre i turni all’ultimo momento».
«Da piccola me la vivevo bene. A parte il periodo in casa rifugio con mia mamma, ma quelle erano cause esterne, non do la colpa a nessuno. A scuola le maestre mi volevano bene, non subivo razzismo» racconta. «Poi negli ultimi anni mi tolgono i documenti, mi tolgono la scuola, mi tolgono il fidanzato».
Ramy fino a quel momento non era stato nominato. «Non ho avuto il tempo di elaborare la sua perdita, il caso è diventato subito pubblico e mi sono messa a difenderlo da tutti: “egiziano di merda” “meno uno” “se lo meritava” e tante altre cose. Oggi mi rendo conto di aver pianto più per quei commenti, mentre avrei voluto piangere solo perché Ramy non c’era più».
Il rapporto con la città in cui è nata non è facile da spiegare per Nada: «Per Milano provo odio e amore. Qui è casa mia, amo la Barona, ma so che un giorno me ne andrò». Raja invece ascolta come se stesse processando cose e poi dice: «Penso che da qui non me ne andrò mai. Amo troppo Milano. Ma capisco quello che dice perché i miei due fratelli appena presa la cittadinanza si sono trasferiti all’estero».
Nel frattempo si è fatta notte e la madre di Nada rientra, saluta e sorride, ma non si siede, va in balcone e accende una sigaretta. Resta di spalle, lo sguardo sull’aria fredda del cortile.
«Al futuro non penso. La vita è troppo imprevedibile» dice Nada quasi sovrappensiero. “Vorrei andare in Spagna e trovare una stabilità economica. Ma non voglio diventare ricca. Quando sei ricca pensi di poter fare tutto, diventi pigra e paghi una pure per lavarti i piatti. Sarebbe come sputare su tutto quello che ho vissuto».
di Shendi Veli
da il Manifesto del 28 dicembre 2025
Tag:
abusi barona emerginazione maranza metropoli Milano periferia povertà precarietà profilazione razziale ramy razzismo sfruttamento
