Un racconto per Paola: sul carcere visto dai confini
(Questa è una storia piccola, breve e comune. Leggetela così).
Ogni volta che passo in viale Papiniano osservo quella piccola porta incastonata nel muro di San Vittore e mi viene voglia di spingerla, di attraversare lo stretto cortile – gabbiotto della polizia a destra, bagni a sinistra – e entrare nella sala d’attesa dei colloqui per vedere se tutto è rimasto uguale. Vorrei provare a raccontare quella sala, il mondo di fuori che si incontra col mondo del carcere, perché troppo spesso ci si dimentica che la detenzione non colpisce solo chi si trova in cella, ma anche chi sta fuori con il cuore e la mente dentro, organizzando la propria vita per stare vicino a chi è recluso.
Ho frequentato quella piccola sala, quelle porte blindate, per pochi mesi, nel freddo dell’inverno del 2012 che sembrava non finire (o forse lo sembrava a me), per stare vicina al mio compagno, allora in carcere preventivo per uno dei molti processi che hanno colpito i/le NoTav. Ma questo, per la mia storia, è poco influente: varcata quella piccola porta i motivi per cui sei in carcere sfumano, rimane l’esperienza, ed è questa che vorrei provare a raccontarvi.
La sala d’attesa è una stanza spoglia, sempre piena, con un unico piccolo spazio di colore: lo spazio giallo per i/le bambine, che hanno a disposizione qualche gioco e qualche foglio per disegnare. Il punto che attrae tutta l’attenzione è il muro di fronte all’ingresso, con gli sportelli dei permessi, dei versamenti e dei pacchi, che rappresentano quello che il carcere si aspetta e permette a chi sta fuori: fare visita, mantenere, sostenere.
Tutto il tempo passato in quella sala ruota intorno agli sportelli e alle loro file: vado prima a quello dei permessi o a quello dei versamenti? Metto il pacco nella fila? Lo metteranno su con gli altri? Sì, perché lo sportello dei pacchi è chiuso, con tanto di cartello che avvisa di non bussare, e i borsoni vanno messi su un nastro trasportatore che ne manda dall’altro lato un po’ e poi si ferma, per permettere alle guardie di controllare e risputare fuori quello che non va bene, in maniera insindacabile. In teoria sui muri della sala sono appesi gli elenchi delle cose proibite – come le giacche imbottite, i cibi crudi (esclusa l’insalata in busta), i liquidi e molto altro – ma in realtà ogni volta c’è qualcosa di diverso o la regola viene variamente interpretata: nel corso dei diversi pacchi scoprirò che “imbottita” è anche una bustina di tela con due strati, che i formaggi freschi sono liquidi e che il mio salame di cioccolato viene ammesso mentre quello della mia vicina no. E lo sportello è chiuso, e non si possono chiedere spiegazioni.
Mi sto dilungando perché i pacchi per me sono stati fondamentali: per molto tempo non ho avuto il permesso di visita e comunque l’ho sempre avuto unico, da rinnovare ogni volta, e allora i pacchi erano un modo per esprimere vicinanza ogni mese, per far arrivare dei pensieri. I pacchi hanno una loro ritualità: devono stare in borse chiuse, non devono superare i 5kg a pacco e i 20kg mensili e devono passare dall’apertura del nastro trasportatore. Per questo l’affetto e la cura devono coprirsi di efficienza e di misure, per non permettere che il sentimentalismo tolga spazio a qualcosa di utile. Il pacco, infatti, è una delle cose che permettono ai detenuti di vivere meglio, di non dipendere dal vitto del carcere, di avere lenzuola e vestiti puliti e tutto quello che dovrebbero comprare, maggiorato, dallo spaccio interno. È difficile fare un pacco, ricordo ancora di aver sbagliato clamorosamente il primo, perché deve bastare per una settimana e devi interpretare i desideri di qualcuno che non vedi, con cui non parli. I pacchi, infatti, possono essere consegnati solo quando si ha il colloquio e perciò una volta a settimana più un sabato speciale. Alla fine del colloquio il cerchio si chiude ritirando il pacco di cose da lavare o da portare via. E ogni settimana da capo.
Le settimane scorrono sempre uguali, perché il giorno del colloquio è stabilito in base alle lettere dei cognomi, indipendentemente da quali impegni possa avere chi sta fuori e l’orario è sempre lo stesso per tutti: chi prima arriva meglio alloggia, chi arriva tardi rischia di restare fuori. Mai come in quei mesi mi sono sentita fortunata ad abitare a Milano, a poter arrivare a S. Vittore sulla mia bici, in mezzo a persone che avevano alle spalle viaggi e levatacce per poter arrivare in tempo. Mai come in quei mesi ho apprezzato il fatto di avere un carcere in mezzo alla città, di fianco ad un supermercato dove comprare le ultime cose, di fronte ad un bar in cui bere molti caffè e aspettare gli avvocati.
La scansione dei giorni fissi, però, fa sì che si crei una certa familiarità con chi condivide il “tuo” giorno: nei periodi in cui non avevo il permesso di visita e accompagnavo i genitori di N. per aiutarli con pacchi e burocrazia e per aiutare me stessa a non sentirmi troppo fuori, ho avuto modo di sentirmi parte di un mondo pieno di contraddizioni, ma in quel momento così affine e in molti casi solidale. I pacchi venivano messi in ordine di arrivo sul nastro anche se eri a fare la fila da un’altra parte (e se non succedeva erano liti furibonde), quando hanno rifiutato gran parte delle mie cose da un pacco ho ricevuto sguardi complici e un ragazzo mi ha detto “non preoccuparti, è quello di oggi che è stronzo” e quello che non sapevo mi è stato spiegato (sempre grazie signora Anna!). Ho trovato anche io il mio piccolo ruolo in questo teatro settimanale: ero quella che sapeva scrivere (eh già) e parlare bene, spiegando le cose sia ai poliziotti che agli altri parenti. Privilegi che permettono di rivendicare diritti in un luogo che esaspera le disuguaglianze.
Sto volutamente ritardando il momento in cui raccontare i colloqui, il vero cuore di tutta questa trafila e delle lunghe ora di attesa, perché ancora mi tremano le mani a raccontarlo. Intanto per me è stata una conquista amara: non avevo nessuna carta, nessun certificato, nessun contratto che dimostrasse alla legge il mio rapporto col mio compagno e quindi la prima richiesta di colloquio mi è stata negata (e non invidio chi dovrà scrivere telegrammi in cui avvisare qualcuno in carcere di un rifiuto). Per fare una nuova domanda ho dovuto spiegare perché vedermi sarebbe stato produttivo in un’ottica di rieducazione, giustificare la mia presenza come utile e salvifica, io, che della critica a questa narrazione dell’amore ho fatto una pratica politica: ecco, la sala colloqui mi ha insegnato la mediazione che non diventa perdita di determinazione. (E grazie amica che hai scritto con me quelle righe, da sola non ce l’avrei fatta).
Per più di un mese sono andata avanti a lettere e telegrammi – molto romantico, certo – che però allargano una distanza resa già enorme dall’impossibilità di raccontare la vita in 6 in una cella di 8 metri quadrati per 22 ore al giorno.
E poi è arrivato il permesso, unico, ma meglio che niente: ho mandato un telegramma per avvisare del mio arrivo e sono andata dal parrucchiere, come una signorina anni ’50 al primo appuntamento. Ho svolto il mio ruolo questionando col poliziotto che non voleva concedermi un’ora supplementare com’era mio diritto e sentendomi in colpa perché la stavo togliendo ai genitori (le ore di colloquio sono sempre 6 al mese, si tratta di dividersele bene) e poi ho varcato la porta blindata che avevo visto solo da fuori. Perquisizione, togliersi ogni gioiello, ogni sciarpa, ogni orpello e andare, con in mano solo la chiave del proprio armadietto. Quella prima volta sono stata fortunata: ho avuto una stanza singola, senza finire negli stanzoni pieni di tavoli di plastica e gente che cerca di raccontarsi in mezzo agli altri. I rumori, però, sono presenti: voci, porte che si aprono e chiudono, serrature che scattano e passi. Ho aspettato un po’, ascoltandoli, e poi ho potuto vedere N.: volevo solo abbracciarlo forte, ma non si può, perché i poliziotti iniziano a bussare alle sbarre della stanza, dicendoti di staccarti e di sederti ai due lati del tavolo, ancora lontani. I colloqui non ve li racconto, ma immaginateli come una bolla irreale, in cui entri nella sospensione della vita di chi sta dentro, facendoti messaggera del mondo fuori e trovandoti a domandarti cosa raccontare, come e perché cercando di anticiparne gli effetti nelle lunghe ore di solitudine della cella.
Vi ho raccontato questa storia, piccola appunto e per molti versi piena di privilegi, per provare ad aprire uno squarcio su un mondo difficile da descrivere, quello di chi si trova a condividere la pena, la repressione, il carcere. Ricordo ancora la signora Anna che a chi diceva “poveri detenuti” rispose “poveri anche noi, che, innocenti, siamo qui tutte le settimane”. Questa pena condivisa (per chi è così fortunato/a da condividerla con qualcuno, perché c’è anche chi non ha né colloqui né pacchi) è un aspetto del carcere poco tematizzato, anche da chi lo critica. Eppure l’isolamento che crea è fortissimo, sia per chi sta dentro, che non può mantenere vive le sue relazioni se non a singhiozzo e sempre mediate dalla necessità, sia per chi sta fuori, che si trova a far girare la sua vita intorno al punto immobile del carcere, che ha il potere di creare un mondo e di dettare legge anche fuori dalle sue mura.
Osservare il carcere anche da questo strano punto di vista può forse aiutarci a combatterlo meglio.
(L’urgenza di questa storia è nata dalla morte di Paola, che è stata la compagna di Francesco, Gimmi, che deve scontare 15 anni per Genova 2001. Se potete e volete qui trovate gli estremi per la solidarietà, anche materiale)
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