[DallaRete] Il proposito di Erdogan per il 2016: neutralizzare il Pkk
Il presidente turco celebra l’uccisione di 3.100 combattenti kurdi, ma a morire sono soprattutto i civili. Un nuovo gasdotto cementa la cooperazione con i kurdi iracheni, ma in Siria Ankara perde terreno.
Due poliziotti uccisi, due civili kurdi ammazzati: il nuovo anno nel Kurdistan turco si apre come si è chiuso il 2015. Ieri è stata resa nota l’uccisione di due ufficiali di polizia a Cizre e nel quartiere di Sur, a Diyarbakir, entrambi sotto coprifuoco da settimane. Ankara ha puntato il dito contro il Pkk, con cui ha ripreso il conflitto dopo tre anni di cessate il fuoco. Nelle stesse ore si allungava la triste lista dei civili kurdi uccisi dalle forze armate turche (10mila quelle dispiegate a sud est del paese) nell’ambito della brutale operazione di repressione in corso da fine luglio: 56 solo nell’ultimo mese, due ieri, Faruq Osman Mihemed, originario di Kobane, ucciso al confine con la Siria, e Sükrü Suymak colpito da colpi di pistola a Cizre.
Secondo i calcoli snocciolati da Ankara nel 2015 sarebbero stati uccisi 3.100 combattenti kurdi tra Turchia e nord Iraq, dove è in corso da mesi una campagna di raid aerei contro il Pkk: «Quest’anno 3.100 terroristi sono stati neutralizzati dentro e fuori il paese», ha detto il presidente Erdogan nella conferenza stampa di fine anno, durante la quale l’attenzione dei media si è concentrata più che altro nell’elogio del sistema presidenziale della Germania di Hitler, modello – per Erdogan – per il futuro della Turchia.
Che il presidente abbia sfruttato a proprio favore la lotta globale al terrorismo dell’Isis per colpire il movimento di liberazione kurdo non è una novità. E continua a farlo per nascondere la debolezza dell’intervento contro lo Stato Islamico, target solo per pochi giorni: «Non possiamo concentrare le nostre risorse contro l’Isis a causa del Pkk», ha detto la scorsa settimana un funzionario del governo. La realtà – dicono i kurdi – è un’altra: l’obiettivo di Ankara sono loro, non l’Isis. Lo ha ribadito indirettamente il premier turco Davutoglu che ha promesso per il 2016 «il proseguimento dell’operazione anti-Pkk» per sradicarlo dalle zone urbane.
Una politica che va a definite anche la strategia regionale della Turchia, in particolare in Siria e Iraq. Con le truppe ancora nella base militare peshmerga di Bashiqa, nonostante le proteste di Baghdad, Ankara rafforza i rapporti con il Kurdistan iracheno del presidente Barzani, il cui obiettivo dichiarato è uno Stato kurdo indipendente nei soli confini iracheni, lasciando fuori gli storici territori siriani, turchi e iraniani. Alla collaborazione militare si affianca quella economica, già radicata dalla presenza capillare di compagnie turche. Al centro restano le risorse energetiche che dalla scorsa estate Erbil vende bypassando il governo centrale di Baghdad: il 9 febbraio l’azienda nazionale turca Turkish Pipeline Corporation lancerà l’appalto per la costruzione della conduttura di Sirnak, che integrerà la produzione di gas naturale del Kurdistan iracheno nella rete di distribuzione della Turchia. Quasi 200 km di gasdotto che dal 2018 trasferirà 20 miliardi di metri cubi di gas l’anno.
Insieme all’accordo con Israele per la costruzione di una conduttura simile, Ankara cerca così di svicolare i danni provocati dalla guerra fredda in corso con la Russia che, con sanzioni economiche, minaccia di lasciare a secco la Turchia, che copre ogni anno con Mosca il 55-60% del proprio fabbisogno energetico.
A pagare lo scotto della politica regionale turca è l’unità nazionale dell’Iraq che spera di trovare nuovo slancio con l’operazione di Ramadi (dove ieri l’esercito iracheno ha liberato intere famiglie e altri quartieri dalle ultime sacche di islamisti presenti) e la prossima su Mosul. Stesso destino per il movimento kurdo siriano, impegnato da oltre un anno nella difesa di Rojava dall’offensiva dello Stato Islamico. Nonostante la liberazione di ampie aree di territorio a nord est, i kurdi siriani subiscono ancora la minaccia Isis: gli islamisti hanno rivendicato il doppio attacco di mercoledì contro due ristoranti nella città kurda di Qamishli. L’ennesima strage: 16 morti e 35 feriti nel quartiere cristiano di Shiyahi.
Dallo scorso anno la Turchia boicotta apertamente le operazioni di difesa messe in piedi dalle Ypg, le Unità di Difesa Popolari a Rojava. Che però hanno trovato alleati ben più potenti: Russia e Stati Uniti stanno cooperando con i kurdi siriani e la nuova formazione Forze Democratiche, formata da kurdi, assiri, arabi e turkmeni. Armi e raid aerei in cambio di informazioni di intelligence e di un fronte di contenimento dell’Isis molto più efficace di quello delle opposizioni moderate siriane. Ieri il gruppo ha ripreso i villaggi di Tanab e Tat Mrash, nel distretto nord occidentale di Aleppo, dopo duri scontri con i qaedisti di al-Nusra e Ahrar al Sham. Altre due comunità al confine con la Turchia che non nasconde il timore di un corridoio kurdo lungo la frontiera.
La causa kurda viene sfruttata politicamente soprattutto da Mosca in chiave anti-Erdogan: chiaro esempio è l’incontro tra il leader dell’Hdp, partito turco di sinistra pro-kurdo, e il ministro degli Esteri Lavrov la scorsa settimana. L’Hdp resta spina nel fianco: domenica scorsa, insieme alla federazione di gruppi kurdi Dtk (Democratic Society Congress), ha fatto appello alla creazione di una regione autonoma kurda che possa auto-governarsi.
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