Un Aprile in Palestina nei giorni della Terra e del Ritorno
Riceviamo e pubblichiamo:
“Tu credi che Gerusalemme sia palestinese o israeliana?”. “Israeliana”.
Con questa bugia – dopo due ore di domande sulla mia famiglia e la mia vita – ho superato l’interrogatorio all’aeroporto di Ben Gurion, gli israeliani mi hanno restituito il passaporto e sono riuscita ad arrivare in Palestina con i miei compagni. Sapere già che avrebbero potuto trattenermi più del normale per le mie origini nord-africane aveva fatto si che io arrivassi preparata all’aeroporto, ma non mi ero preparata alla possibilità di rimanere fuori Gaza e quindi fuori dal progetto. Il giorno dopo la Carovana del GAZA FREESTYLE FESTIVAL è partita da Gerusalemme per arrivare al Valico di Erez, l’ingresso Nord per Gaza presidiato dai coloni. Superato il primo controllo che certificava identità e cittadinanza, siamo entrati in questa sorta di hall di un aeroporto dove ci hanno controllato i bagagli e ritirato i passaporti per il controllo finale. Il silenzio tutto intorno era surreale, io sentivo solo le voci dei soldati mentre nel mio cervello pensavo al comportamento più convincente da adottare per non sembrare una persona con cattive intenzioni. Ingenuamente pensavo ancora che tutta questa insistenza da parte loro nel non farmi arrivare dove volevo potesse avere un senso logico che sicuramente noi compagni non capivamo, ma che non poteva davvero sfociare nel mero pregiudizio che ogni arabo è un problema per la loro sicurezza. Io per le mie origini necessitavo di un controllo maggiore, anche gli sbagli dei miei avi potevano essere una mia colpa. Mentre attendevamo insieme i permessi di tutti ho iniziato a pensare a tutte quelle persone che oltre il muro della Striscia avrebbero voluto scappare, e io che desideravo con tutta me stessa di entrare. Avrei scoperto il giorno stesso che forse questo mio pensiero non era poi tanto giusto. Dopo mezz’ora un soldato torna indietro con i permessi di tutti tranne il mio, annunciando definitivamente che non potevo entrare. Non c’era niente che si potesse fare. I miei compagni hanno messo in discussione se stessi e il progetto per non lasciarmi sola, questo li rende più grandi di quanto già non fossero. Entravano a Gaza con molti progetti e poche certezze, ma sicuramente carichi tutti e tutte di energia e coraggio non comune. Sapevamo che per la Palestina sarebbero stati giorni durissimi quelli in arrivo, il progetto del Gaza Freestyle però non ha tentennato né prima né durante, fino all’ultimo giorno in terra di Palestina. Dentro Gaza, per i giovani e le giovani sotto l’occupazione più viscida, il progetto ha portato un corso di educazione sessuale per le donne, un laboratorio di writing, un laboratorio di circo e il disegno di una rampa da skate che avrebbero dovuto costruire in un tempo limitatissimo. Anticipo già che la rampa c’è, i laboratori e i corsi hanno dovuto lottare contro la guerra ma sono riusciti, il progetto è esploso con tutta la sua forza. Grazie compagni e grazie compagne.
Io invece quel giorno ho salutato tutti e sono partita per Betlemme con un compagno che ha deciso di rimanere fuori. Ancora una volta i maledetti coloni avevano deciso sulla sorte della vita di un’araba, ancora una volta un’araba si era trovata impotente davanti alle scelte insensate di questi occupanti. Eppure è incredibile quanto bene e quanta forza è uscita grazie alla loro scelta di tenermi fuori, quante persone, situazioni, occasioni, discorsi, incontri, scontri e legami ci sono stati che hanno avuto il potere di darmi tanto, tantissimo per un solo viaggio.
“Io credo che ci siano tante persone che vorrebbero andarsene da Gaza, in cieli senza droni e orizzonti senza muri” “NO. Nessuno deve scappare dalla Palestina, perché queste terre hanno bisogno della forza di tutti. I veri palestinesi lo sanno”. Con queste parole si presenta un compagno di Betlemme all’Ibda Cultural Center. Questo centro fondato nel 1994 a ridosso del Deisheh Camp è nato come centro di svago per i bambini e i giovani di uno dei campi profughi più grossi della Cisgiordania. Molte stanze sono state messe a disposizione per i viaggiatori, e tra un manifesto di Chavez e un murales di donne resistenti su per le scale arrivi nella stanza dove tutte le sere uomini di tutte le età si incontrano per parlare, discutere, conoscere gli ospiti, fumare e bere thè o caffè sui divani arabi, quei divani duri che non ti permettono di stare in posizione composta per troppo tempo. Ogni sera svaccati sui divani abbiamo parlato con decine di persone che vivono al Deisheh Camp, abbiamo conosciuto la storia di A. che ha perso l’uso di una parte del suo corpo dopo aver combattuto durante la Seconda Intifada, i suoi compagni pensavano fosse morto finché non è tornato con le sue gambe al campo dopo mesi; N. invece ha fatto troppi mesi di carcere, preferisce raccontarci di quando recita, l’isolamento ce l’ha descritto come luogo perfetto dove rischiare di perdere il senno: “Quando per mesi stai in una stanza 3×3 e un soffitto altissimo, con 9 persone stipate nei letti a castello e un buco in mezzo alla stanza per pisciare. Dentro uno stanzino c’è il cesso, di fianco al cesso una piastra elettrica per cucinare. Poi vai in isolamento per qualche giorno e sei solo, mi sono chiesto se ero ancora un uomo fino a quando non mi hanno interrogato di nuovo e io ho iniziato a ridere come un pazzo”. L’Aida Camp è un altro grosso campo profughi nato come Deisheh negli anni 50, rifugio per migliaia di esuli palestinesi in fuga dalle zone più calde di guerra. Oggi Aida ospita 7.000 persone che vivono e resistono a ridosso del Muro dell’Apartheid costruito nel 2002 dai coloni israeliani. Girando per le strade vediamo muri crivellati di colpi, silenziosi testimoni di ciò che è stata la Seconda Intifada in quei vicoli. Come Deisheh anche questo campo è pieno di bambini che chiedono foto o fanno domande sul paese da cui veniamo. Assieme a B. siamo saliti sulla terrazza di una casa poco più alta delle altre – 3 piani, – e da li sopra siamo riusciti a vedere al di là del Muro della Vergogna: una distesa verdeggiante con ulivi di ogni grandezza, tra il verde alcune case anche molto vicine al muro, e a qualche km si potevano vedere le colonie. B. ci indica una delle case vicino al muro, un cavallo si muove da quella che a me sembra una fattoria, e ci dice: “Quella è casa mia e quello è il mio cavallo, si chiama Raìs. Io da qualche anno non posso più andare a casa perché al check point si sono segnati il mio nome. Ogni mese vado li e faccio un po’ di casino, cosi non si dimenticano del mio ricorso. Per fortuna mio fratello sta resistendo lì, finché non torno”.
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Il 30 marzo ci siamo svegliati con tutti i pensieri a Gaza. La Giornata della Terra in Palestina è una ricorrenza importante che risale al 1976 quando migliaia di persone protestarono contro l’espropiazione delle loro terre nelle zone occupate. Durante gli scontri persero la vita sei palestinesi, centinaia di uomini e donne vennero arrestate. Ecco perché sapevamo che Gaza avrebbe passato una dura giornata di lotta, e che i nostri compagni erano sotto un cielo di guerra. In serata Gaza contava 16 martiri, in tutta la Palestina sono scoppiati disordini sia il 30 che il 31, quando è stata indetta una giornata di sciopero e lutto nazionale. A Betlemme la situazione si è infiammata come sempre a ridosso del muro, l’età media era 15 anni e il più piccolo avrà avuto 7 anni. Nella loro giovane esasperazione, in uno specchio che rappresenta esattamente il volto della Palestina in rivolta, lanciavano sassi contro un muro; sotto il mirino di un cecchino hanno costruito barricate, sotto il lancio di potentissimi gas hanno corso e si sono nascosti durante il lancio di proiettili di gomma grossi come il pugno di un uomo. Con molta tristezza abbiamo assistito nel nostro ultimo giorno a Betlemme all’arresto di un bambino che si era rifugiato in un museo all’arrivo dell’esercito israeliano. Al sasso che neanche ha sfiorato il muro si sono contrapposte armi da guerra come granate e bombe luminose, fino al sequestro di un giovanissimo. E’ stata davvero dura vederlo andare via con loro su un mezzo blindato da guerra, avevo conosciuto un paio di bambini in quei giorni e sicuramente era uno di loro. Non lo saprò mai comunque, era giunto il momento di andarsene come stavano facendo tutti su quella strada.
Abbiamo visitato Al Khalil, rinominata Hebron dagli israeliani, e percorso le vie del mercato che ogni giorno viene attaccato dall’alto dai coloni con lancio di spazzatura e vetri. Difatti i mercanti si sono organizzati per difendersi da questi atti viscidi e infami, e girando per le vie strette e tra le bancarelle di spezie e vestiti si possono poi notare le reti sopra le teste dei passanti fatte di metallo o di corda, oppure grossi teli leggeri bianchi per far passare i raggi del sole. Percorrendo la città vecchia si arriva a un check-point, superato il controllo siamo arrivati in questo luogo assurdo: intorno a noi c’erano solo ebrei ultraortodossi, giovani coppie con vestiti propri del loro credo circondati tutti da almeno 5 bambini. Ognuno di loro era impegnato in qualcosa che li faceva allegri come anche solo passeggiare, mangiare qualcosa sul verde prato o stare sotto il sole. Tutto intorno al perimetro e per strada decine e decine di soldati e soldatesse. Essi – abbiamo scoperto poi – stavano lì per preservare quell’insediamento in mezzo a una delle città con la più alta presenza di arabi musulmani, 700 ebrei utraortodossi impongono la loro presenza in un luogo sacro a arabi e cristiani. Si narra infatti che lì vissero Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden, e sempre li riposano Abramo, Isacco e Giacobbe. Da quando alla fine degli anni ’60 questo pezzo di città vecchia viene occupato, bisogna superare un controllo per entrare alla Moschea di Ibrahim. Per capire la mancanza di rispetto che c’è nei confronti di questa moschea basta veder come viene trattata a discapito di altri luoghi di culto che gli israeliani sono riusciti a conquistare totalmente. Non voglio dimenticarmi infatti di ricordare quella decina di arabi che stanno resistendo dentro la colonia mantenendo saldo il loro lavoro di commercianti, resistendo ad attacchi da parte dell’esercito, a confische, a perdite di parenti e rifiutando qualsiasi somma di denaro venga loro offerta. Dentro la moschea ho trovato telecamere 360°, tappeti messi giù a caso, sedie ammucchiate in mezzo a una delle due sale accessibili per il pubblico. Il 90% della moschea era chiuso, da dietro un portone si udivano alte voci che comunicavano in ebraico e si sentivano risate… Nella sala tra qualche turista c’era un uomo seduto per terra con il corano sulle gambe, intento a leggere.
Poi Nablus dove abbiamo fatto un lungo giro per la città vecchia insieme ad un compagno di Roma, un bravissimo fotografo sceso in Palestina per partecipare a un progetto assieme a dei bambini. Lui e la sua macchina fotografica ci hanno portati per le viette della città, su per le scale di una fabbrica rudimentale di sapone, giuù per le strade di una città affollatissima di gente.. Poi abbiamo visitato Jericho, una delle città più antiche della zona. Assieme a due compagni usciti prima da Gaza abbiamo girato per vicoli e incontrato gente di ogni cultura e religione, come i siriani ortodossi incontrati in una stradina all’interno della medina di Gerusalmme, El Quds. Abbiamo festeggiato la loro Pasqua bevendo qualche Corona e parlando della Palestina, seduti su una strada la sera dentro una città vecchia militarizzata per la pasqua ebraica. Tra tanti discorsoni uno di loro ci ha raccontato un aneddoto della sua vita: “Per andare a Betlemme a incontrare colei che poi è diventata mia moglie senza passare per il check-point, prendevo il mio asino e insieme a lui percorrevo le montagne. Solo così la potevo vedere all’inizio. La prima volta che ho fatto questa cosa lei mi ha guardato e mi ha detto: ‘Tutte le donne sognano un principe che arrivi su un cavallo bianco. Io ho te che arrivi su un asino grigio!'”. E quanto abbiamo riso, finché lui con una punta di amarezza che forse non voleva far trasparire ci ha detto che da anni ormai lei sta qui e vivono insieme, hanno dei bambini “But she here is illegal”. Lei non può andare all’ospedale, non può lavorare, non può girare tranquilla per paura che scatti un controllo.
Tornando verso casa tra un divieto e l’altro siamo riusciti a imboccare la via per una delle uscite dalla città vecchia non chiuse dall’esercito israeliano. L’afflusso di fedeli verso il Muro del pianto era grande, la pasqua ebraica ha bloccato tutta la città per lasciare la possibilità ai credenti di muoversi tranquilli e veloci verso i luoghi simbolo della loro religione. Dimenticandosi ancora una volta che Jerusalem Yerusalem El Quds è la città culla di tutte e tre le religioni monoteiste, testimonianza di più storie – positive o negative che siano – legate a tutte e tre le culture. Difatti a pochi metri dall’uscita ci siamo imboccati in un gruppo di signori anziani, metà di loro erano seduti a terra e l’altra metà discuteva con dei soldati che bloccavano loro la strada con un doppio cordone. Insistevano nel non farli passare nonostante fossero li a protestare da due ore per arrivare alla loro chiesa per pregare. Li abbiamo lasciati che ancora discutevano con questi soldati irremovibili.
In quei giorni in giro per la Palestina le storie sono troppe per finire tutte scritte in questo racconto, infiniti sono stati gli insegnamenti e tanta è ora la consapevolezza che la politica di colonizzazione israeliana è un male da estirpare. La sua violenza non si esprime con bombardamenti, quotidiani omicidi e arresti, la violenza di questi coloni si esprime viscidamente nella vita di tutti i giorni. Si esprime quando la stragrande maggioranza dei palestinesi sogna il mare che ha smesso di vedere, si esprime quando le famiglie vengono divise da muri e check-point, si esprime nei bambini che perdono la loro infanzia, nelle case senz’acqua, nei luoghi di culto violati; si esprime quando un uomo viene buttato giù da un bus perché non ha il passaporto nonostante il visto, si esprime quando in un pullman turistico gli arabi vengono fatti scendere tutti giù per essere controllati a parte, si esprime quando non puoi votare, non puoi andare all’ospedale, non puoi più uscire da una città circondata… Ce ne siamo andati tutti con un bagaglio culturale molto più grosso, con una sensibilità nei confronti della libertà maggiore, con una voglia di rivalsa e rivincita che mi accompagnerà per sempre. La Palestina è da vedere, da vivere. Bisogna soffrire con lei per esser coinvolti da quella forza che appartiene ad ogni donna e uomo, una forza data a loro per resistere con le unghie e con i denti ad ogni tipo di colonizzazione fisica e mentale. Esiste la Palestina, e la Palestina occupata. Nessuno stato colonizzatore dovrebbe avere diritto di esistere, ogni governo verrà rovesciato e ben sappiamo che nessun oppressore resiste a lungo dentro la sua prigione, nonostante le sbarre dorate. Intifada vincerà.
Ad Hafiz
* pics from Gaza Freestyle Festival, MilanoInMovimento e LUMe
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