No alla caccia alle streghe, la soluzione è semplice: diritti sociali e sindacali per tutti!
Nella giornata di ieri è emersa la notizia che la Procura di Milano ha avviato un’indagine per le condizioni di sfruttamento dei riders. Il rischio concreto è che la uniche vittime dell’inchiesta siano i lavoratori. Mentre infatti le piattaforme hanno soldi e avvocati per far valere le proprie posizioni, i tanti lavoratori migranti che hanno trovato impiego sulle due ruote riuscendo a inviare a casa una parte del loro stipendio rischiano di fare la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Oltre al danno dello sfruttamento, la beffa della perdita del posto di lavoro. Qui un comunicato di Deliverance Milano.
Notizia di ieri che la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori nel #deliveryfood. Oltre ad investigare le infrazioni igienico sanitarie e il rispetto delle norme in materia di infortunio e sicurezza sul lavoro nel mondo delle consegne del cibo, si indaga anche il fenomeno del #caporalato digitale, sul quale siamo stati tra i primi ad esprimerci nel corso dello scorso Primo Maggio a Milano, con la pubblicazione della “Lettera pubblica contro il caporalato digitale” denunciato davanti alla sede di Glovo. Questo interessamento della Procura, certifica il colpevole ritardo delle istituzioni nel prendersi in carico il fenomeno della Gig Economy, che ormai esiste da diversi anni, e rischia di tramutarsi in un’assurda “caccia alle streghe” nei confronti delle categorie di lavoratori più deboli, spesso privati di ogni diritto civile e sociale.
Il caporalato è un fenomeno presente in diversi settori del mondo del lavoro e appare sempre come circuito collaterale che viaggia in parallelo rispetto all’assetto organizzativo “ufficiale”, in cui le aziende dichiarano di operare, attraverso la costituzione di un apparato clientelare, in cui #sfruttamento e lavoro nero si erigono a paradigma, nella totale assenza di diritti sindacali, garanzie e tutele. Vittime di questa filiera sono gli #invisibili delle aree metropolitane, che finiscono per essere impiegati da qualche caporale pur di avere accesso ad un lavoro che sia in grado di dar loro la speranza di raccogliere qualche briciola da un’economia dei servizi digitali che si sta arricchendo sempre di più, giorno dopo giorno, sulle spalle dei lavoratori stessi.
Per noi non c’è nessuna differenza tra un bracciante metropolitano e uno delle campagne, un operaio di un magazzino della logistica o un operatore sociale del Terzo settore, il caporalato digitale rappresenta solamente la sua versione aggiornata, applicata con l’ausilio dei dispositivi tecnologici, che sono “flessibili” quando vogliono e rigidi e repressivi contro chi prova ad alzare la testa per chiedere una paga degna e un trattamento equo.
Per questo motivo le parole di #Assodelivery, l’associazione datoriale delle piattaforme digitali, che dichiarano “tolleranza zero” sono pericolose e suonano assolutamente ridicole, perché proprio i responsabili, coloro che fingono di non sapere nulla, in realtà sapevano e sanno tutto e fanno finta di niente.
Glovo, Deliveroo, Just Eat, Ubereats, sapevano e gli stava bene. Anzi, giocavano su questa ambiguità, lasciando che a causa dell’assenza di garanzie che non vogliono offrire ai loro lavoratori, sotto l’egida dei capricci dell’algoritmo che decide chi lavora e quando, non siano date certezze a nessuno dei propri dipendenti, lasciandoli alla mercé di un sistema sommerso, fatto di assenza di diritti, ricatti, ancora più violenti di quanto non accada tutti i giorni, nel caso di un rider cossidetto “regolare”, costretto ad arrabattarsi tra cottimo, rating e ranking.
Anche perché se uno dei problemi è l’assenza di diritti sindacali in che modo è possibile rompere questa catena?
Solo ed esclusivamente assicurando tali diritti a tutte e tutti, regolamentando un’organizzazione di un lavoro, in cui ormai non è più possibile aspettare di trovare una soluzione. Le #piattaforme e le istituzioni devono farsi carico del fenomeno, le aziende devono assumersi il rischio di impresa e le responsabilità sociali non devono pesare su chi vive ai margini, ma su chi dovrebbe garantirli e governare il cambiamento, le istituzioni. Chiediamo quindi che si ritocchi la norma che riguarda il permesso di soggiorno e contratti di lavoro, in maniera tale che anche un lavoratore autonomo o #ultraprecario, come un fattorino, possa richiedere con più agio la documentazione per vivere nel nostro Paese da regolare, senza finire nel gorgo del lavoro nero.
La politica del resto ha già dimostrato ampiamente il proprio disinteresse nei confronti dei rider. Il Governo giallo-verde ha approvato in Consiglio dei Ministri un Decreto “Salva Imprese” che non entra minimamente nel merito della “questione rider”, e non migliora in maniera significativa le condizioni dei lavoratori delle piattaforme ma accorda una soluzione approssimativa, concedendo ai lavoratori soltanto qualche tutela in più, senza affrancare nessuno dal cottimo, per mezzo dell’istruzione di un salario minimo garantito, che rimane ancora uno dei temi irrisolti.
D’altra parte però anche i numerosi tavoli territoriali di Milano e Bologna e le legge regionali vergate in Piemonte e in Lazio, non hanno cambiato di una virgola l’apparato organizzativo di queste aziende, che continuano a fare il cattivo e il brutto tempo, a danni dei propri corrieri, scaricando su di loro, sotto forma di flessibilità, le fluttuazioni della domanda del mercato.
A nostro avviso bisogna stare molto attenti ed su questo tema è necessario essere precisi, molto di quanto è stato scritto in questi giorni ci è sembrato, frettoloso, pericoloso e fuorviante. Infatti è necessario assumersi la complessità del fenomeno “rider” se si vuole intervenire in maniera sensata, costruttiva e per una volta equa nei confronti dei lavoratori.
Vanno fatti i dovuti distinguo: quando si parla di caporalato digitale, si sta parlando di una stortura dell’assetto organizzativo delle piattaforme per la consegna del cibo, e nello specifico si tratta della compravendita di account, di profili, che alcuni caporali attuano in cambio di una percentuale dei guadagni del prestatore, in un sistema di appalti in cui a pagare le spese in termini economici e sociali è il lavoratore più ricattabile; altra cosa invece appare la condivisione di un account da parte di corrieri che normalmente non hanno accesso al mondo del lavoro e si passano le credenziale dell’app per aiutarsi a vicenda, nella difficoltà di trovare un modo per entrare in un mercato che è tutto fuorché accogliente nei loro confronti; in quel caso si tratta di una pratica di mutualismo, necessaria e lecita benché considerata “illecita” dalla legge, soprattutto ai tempi dei Decreti Sicurezza, che aumentano l’illegalità, legittimano il sistema dei subappalti e delle cooperative tossiche, senza andare a colpire i veri responsabili di questo ciclo di malaffare, ma chi ne cade vittima. Due facce complementari e connesse, della stessa medaglia, insomma, con cui è d’obbligo fare i conti.
Infatti a nostro avviso vanno considerati anche gli aspetti virtuosi della Gig Economy. Le app rappresentavano fino a poco tempo fa, per certi versi, una corsia libera, e quindi un’opportunità, per tutti coloro che, per una serie di ragioni, normalmente sarebbero stati scartati in serrati processi di recruiting aziendali “classici”. Questo però fino a poco tempo fa, perché ora la situazione è drasticamente cambiata.
Prima era facile diventare un rider, non bisognava avere competenze specifiche, e il processo di selezione era diretto, bastava avere un cellulare e un mezzo di trasporto con cui lavorare ed era fatta, si scaricava l’applicazione sul proprio smartphone, si rispondeva a poche domande e si poteva iniziare subito a consegnare, una volta caricati i propri documenti. Prendevano tutti e anche i colloqui (che ora non ci sono più) diventavano per lo più una formalità. E’ andata così per molto tempo, almeno per i primi due anni da quando il delivery food è arrivato in Italia. Le piattaforme ti assicuravano il vantaggio di trovare un impiego in poco tempo, per iniziare a guadagnare subito qualche soldo. Il sogno però si è infranto. Le società delle consegne hanno allargato le proprie flotte mettendo i lavoratori uno contro l’altro attraverso il sistema delle prenotazioni in fascia, e questo ha determinato l’esplosione dell’utilizzo delle #cooperative come in Ubereats o per Just Eat e degli account ceduti e passati tra lavoratori che non trovavano ore, anche in concomitanza delle continue richieste da parte dei corpi intermedi (rappresentanze autonome, movimenti e sindacati) di contrattare le condizioni dei rider nelle sedi preposte.
C’è da dire che gli episodi di caporalato si sono amplificati in corrispondenza alla necessità dei lavoratori di riuscire a prenotare le proprie ore nel tentativo di garantirsi un numero sufficiente di consegne, al di là dei capricci dell’algoritmo e dei dispositivi reputazioni e di punteggio come #ranking e #rating, che spesso negano ore ai rider da una settimana all’altra, senza nessuna apparente spiegazione.
La verità è che Glovo, Delivero, Just Eat e Ubereats sapevano benissimo, hanno sempre saputo, e hanno fatto finta di niente.
Siamo stati tra i primi a denunciare lo scorso Primo Maggio con #OccupyGlovo il sistema del caporalato digitale, e come oggi, in quell’occasione chiedevamo che non fossero a pagare le spese ancora i lavoratori senza diritti, perché non c’è via d’uscita da questa situazione se non quella dei riconoscimento dei diritti sociali e civili per i lavoratori migranti, e diritti sindacali per tutti i lavoratori! Il problema del settore è proprio questo.
Fino a quando Assodelivery, le app e le multinazionali continueranno a girare la testa dall’altra parte insieme ai governi, alle amministrazioni pubbliche e alle istituzioni, le condizioni dei lavoratori continueranno a peggiorare. Non sarà la logica della guerra tra poveri e della “caccia alle streghe” nei confronti degli ultimi che ci permetterà di trovare una soluzione a questo problema. Occorre rompere il sistema del ricatto della precarietà e dei diritti sociali e sindacali attraverso il riconoscimento degli stessi diritti.
I primi caporali sono le piattaforme. Piaccia o non piaccia. E i rider lo sanno bene e non sarà certo un’inchiesta della Procura di Milano o un articolo di giornale di qualche sciacallo a dovercelo spiegare.
Come sempre “Non per noi ma per tutt*!”
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