Peteano – La strage rimossa e il suo groviglio di depistaggi
Una telefonata anonima, una Luger calibro 22, dei bossoli repertati e successivamente fatti sparire.
Non si tratta degli artifici narrativi di un romanzo noir, ma degli elementi portanti di una delle stragi che hanno insanguinato l’Italia negli anni Settanta: la strage di Peteano.
Siamo qui infatti a recensire l’ultima fatica di Paolo Morando, L’ergastolano – La strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra, dedicato a quella vicenda di cinquant’anni fa. Dello stesso autore, pochi mesi prima del cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana, avevamo invece recensito Prima di piazza Fontana – La prova generale che ripercorre la vicenda delle bombe del 25 aprile ’69 a Milano raccontando come fu costruita letteralmente a tavolino la “pista anarchica” poi utilizzata per la strage del 12 dicembre dello stesso anno.
Quella di Peteano è nei fatti una strage dimenticata (o quasi). La sera del 31 maggio 1972 una telefonata anonima avvertiva i Carabinieri della presenza di una Fiat 500 con dei probabili buchi da proiettile nel parabrezza in una stradina di campagna a Peteano di Sagrado, in provincia di Gorizia. Si trattava di una trappola e, una volta aperto il bagagliaio dell’auto, una potente esplosione colpiva i militi accorsi sul posto uccidendone tre e ferendone due in una dinamica tecnicamente molto simile a quella della strage di mafia di Ciaculli del 1963.
Se è vero che Peteano è un fatto di sangue dimenticato, è altrettanto vero che è una strage molto particolare. Si tratta, infatti, dell’unico di questi episodi che hanno scosso il nostro Paese tra il 1969 e il 1984 ad avere avuto un’assunzione di responsabilità diretta da parte di uno degli esecutori: si tratta di Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo in carcere ininterrottamente dal 1979.
Vinciguerra, che si definisce “soldato politico” e la cui storia è descritta dettagliatamente da Morando, è una figura molto particolare. Egli infatti, da latitante, si costituisce spontaneamente nel settembre del ’79 assumendosi cinque anni dopo la responsabilità per l’autobomba di Peteano e iniziando a svelare i rapporti tra destra neofascista e apparati dello Stato, confermando quella che emerge come la linea guida della Strategia della Tensione: destabilizzare per stabilizzare. Lo scopo dell’ex ordinovista sembra quello di smascherare alcune figure dell’estrema-destra italiana dell’epoca che, pur dichiarandosi rivoluzionarie, lavoravano, consapevoli o meno, “a servizio” degli interessi dello Stato. Vinciguerra però non è un pentito. Si considera ancora in belligeranza con lo Stato italiano, tant’è vero che ha rifiutato qualsiasi elemento di legislazione premiale e vive in carcere da 43 anni.
Con la maestria già utilizzata nel suo libro sulle vicende del 1969, Morando, districandosi in un mare di carte processuali, ci racconta gli aspetti più inquietanti della vicenda, vale a dire una seria quasi sconfinata di depistaggi messi in campo sin dai giorni successivi alla strage e succedutisi nel tempo fino ad anni Ottanta inoltrati. Depistaggi che hanno come protagonista assoluta, per ironia del destino, proprio l’Arma dei Carabinieri che, pur trovandosi a piangere tre dei suoi come caduti, butta sul tavolo prima un’inconsistente “pista rossa” legata a Lotta Continua (è proprio tra il ’71 e il ’72 che, con fatica, si fa strada la pista nera per piazza Fontana) per poi ripiegare su quello che il libro chiama la “pista gialla”, cioè il coinvolgimento di alcuni ragazzi e ragazze della zona assolutamente estranei alla vicenda e che oltre a subire il carcere dovranno subire anche il calvario di lunghi grotteschi processi che si protrarranno fino a fine decennio. Anche altri apparati dello Stato, primo tra tutti la magistratura, opereranno per nascondere la verità. Alti gradi dei Carabinieri tra cui l’allora colonnello (e poi generale) Dino Mingarelli finiranno processati per il depistaggio (che all’epoca non esisteva come reato) subendo una condanna diventata definitiva. Come si può notare il caso Cucchi era ancora lontano, ma il vizio di depistare e insabbiare era già ben presente. Va detto che un depistaggio così palese e scomposto deve necessariamente avere avuto un mandante politico (tesi purtroppo non più dimostrabile).
Ma torniamo all’inchiesta. Dicevamo all’inizio: una telefonata anonima, una Luger calibro 22 e dei bossoli rinvenuti sul luogo dell’esplosione. E sono proprio questi due ultimi elementi a scompaginare il castello di carte dei depistaggi. Sì, perché il 6 ottobre 1972, durante un tentato dirottamento a scopo di autofinanziamento all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, in un conflitto a fuoco con le Forze dell’Ordine perde la vita il neofascista Ivano Boccaccio, trovato in possesso di una pistola. Si tratta proprio di una Luger calibro 22. E di che calibro erano i bossoli ritrovati sul luogo della strage serviti a forare il parabrezza della Fiat 500 imbottita di esplosivo per rendere credibile la trappola? Ovviamente 22. Bossoli talmente importanti da essere fatti sparire dai depistatori in divisa insieme ai rapporti sul loro ritrovamento. E di chi era la voce della telefonata anonima che aveva fatto scattare la trappola? Di Carlo Cicuttini che, ça va sans dire, era anche proprietario della pistola ritrovata a Boccaccio. Ed ecco il cerchio chiudersi attorno al “gruppo di fuoco” di Ordine Nuovo, con Cicuttini e Vinciguerra che saranno condannati all’ergastolo per la bomba (il primo fu arrestato in Spagna nel 1998).
Il fil rouge della narrazione è rappresentato dalle indagini del giudice veneziano Casson che, partendo da Peteano, arriva alla scoperta di Gladio, la rete paramilitare clandestina messa in piedi dalla CIA in Italia per contrastare un’eventuale invasione da parte del Patto di Varsavia e, secondo molte autorevoli posizioni, utilizzata nei decenni per la “guerra sporca” contro le sinistre nel nostro Paese.
Morando ricostruisce con maestria anche il clima politico e sociale dell’Italia del 1972. Alle elezioni di maggio il dato più rilevante è il balzo in avanti del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante (coinvolto molto, ma molto da vicino nelle indagini su Peteano e graziato solo da una provvidenziale amnistia). I fascisti tra Camera e Senato prendono tra l’8% e il 9%, quasi tre milioni di voti. Come per un riflesso pavloviano, la paura per le lotte sociali partite nel 1968 porta molti italiani a rifugiarsi nel comodo e sempreverde abbraccio del fascismo.
Ma se molti votano a destra (con il PCI comunque al 27%) le lotte e il conflitto non si arrestano. Continuano gli scioperi e gli scontri di piazza, come quelli “memorabili” dell’11 marzo 1972 a Milano proprio contro un comizio della “maggioranza silenziosa” politicamente vicinissima all’MSI (e dove perderà la vita, colpito da un lacrimogeno, l’incolpevole pensionato Giuseppe Tavecchio). Il 3 marzo avviene il primo sequestro da parte delle Brigate Rosse, che rapiscono per poche ore l’ingegnere della Sit-Siemens Macchiarini. A metà marzo è rinvenuto sotto un traliccio a Segrate il corpo dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da un’esplosione. Il 17 maggio, sempre a Milano, è ucciso il commissario Calabresi, considerato da molti, a sinistra, tra i responsabili della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dal terzo piano della Questura di Milano la notte del 15 dicembre 1969 e della montatura contro gli anarchici per la strage di piazza Fontana. Questi gli eventi che hanno preceduto la bomba di Peteano.
Per chi vuole studiare l’intreccio tra eversione nera e apparati di Stato Morando fa centro ancora una volta.
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