Esterno notte – Anatomia del potere (democristiano)

“In questo paese si è trattato su tutto. Tranne che su Moro” (cit. anonimo)

A quasi vent’anni di distanza da Buongiorno notte, Marco Bellocchio torna ad affrontare il sequestro Moro con una nuova pellicola: Esterno notte. Il film, presentato in anteprima al Festival di Cannes, è diviso in due parti, a loro volta suddivise in episodi, dal momento che si tratta in realtà di una serie. La prima parte (che comprende i primi tre episodi) è uscita nei cinema il 18 maggio, mentre la seconda è prevista nelle sale per il 9 giugno. Quest’autunno la RAI dovrebbe trasmetterla poi come serie tv.

Dopo una premessa onirica tipica della cinematografia di Bellocchio, il film trova il suo inizio reale con una scena di saccheggio. Ad essere saccheggiata da un gruppo di manifestanti a volto coperto è un’armeria, svuotata in pochi secondi. Si tratta di un episodio realmente accaduto durante la manifestazione nazionale del movimento a Roma il 12 marzo ’77, ma che il regista sposta avanti di un anno come espediente narrativo. Un film che inizia con l’assalto di un’armeria non può certo finire bene, e del resto come diceva Cechov “Se in un racconto compare una pistola bisogna che prima o poi spari”.

La narrazione inquadra i difficili giorni del marzo 1978. Sono le ultime ore di gestazione prima del varo di un Governo Andreotti che dovrebbe ricevere, secondo le previsioni e un lunghissimo lavorio diplomatico, la fiducia da parte del Partito Comunista di Enrico Berlinguer, reduce dal 34% ottenuto alle elezioni del 1976 (la Democrazia Cristiana era rimasta il primo partito con quasi il 39% dei voti). Si tratterebbe dunque del sostanziarsi, a livello di potere, della politica del “Compromesso storico”, fortemente voluta da Moro per la DC e da Berlinguer per il PCI (con scopi strategici diversi, ma scopi tattici simili): il famoso “Governo di unità nazionale” necessario per superare la crisi degli anni Settanta (un modello che diventerà buono per tutte le stagioni e che stiamo tuttora vivendo con il Governo Draghi). Inutile dilungarsi sul senso politico e gli obiettivi (così come sui danni…) dell’approdare del PCI al governo. È importante però sottolineare che tale politica aveva molti nemici, sia a livello interno che a livello internazionale. Si va da fette consistenti di Democrazia Cristiana, di imprenditoria, di apparati di sicurezza e militari per passare all’alleato americano e alla Germania, per finire, a sinistra, con le Brigate Rosse. Queste ultime vedevano nel sostegno comunista a un governo democristiano l’ultimo, grande tradimento dei “revisionisti”, com’erano chiamate allora con disprezzo le dirigenze del Partito Comunista e della CGIL (la cacciata di Lama dalla Sapienza occupata è di poco più che un anno prima).

La pellicola arriva piuttosto rapidamente al giorno della strage di via Fani e del sequestro del Presidente della DC ad opera delle BR, lo stesso giorno in cui il Governo Andreotti si sarebbe presentato in Parlamento per chiedere la fiducia. Da qui, inizia un complicato gioco di forze e trattative dove il livello pubblico appare fin da subito ben separato da quello interno alle istituzioni.

Ognuno dei tre capitoli della prima parte, infatti, è dedicato e approfondisce la personalità di un uomo di potere: nell’ordine Aldo Moro, Francesco Cossiga e Papa Pio VI . Per quanto riguarda la controparte, invece, un grande merito di Bellocchio è evitare qualsiasi dietrologia. Dietro le Brigate Rosse non ci sono che i militanti rivoluzionari: operai, tecnici, insegnanti e studenti. Niente grandi vecchi, servizi segreti internazionali e via dicendo.

Si diceva della partita a scacchi iniziata il giorno del sequestro. È evidente sin da subito che nessuno vuole veramente la morte di Moro, ma nessuno (o quasi) vuole realmente e a tutti i costi la sua salvezza. Insomma, nessuno è pronto a rischiare di perdere la faccia di fronte a un presunto cedimento. La situazione è simile a quella di un’auto che viaggia a massima velocità verso un precipizio. Tutti gli occupanti sono consapevoli del disastro imminente, ma nessuno ha la forza o il coraggio, per paura di apparire debole, di uscire dagli schemi e dai ruoli prestabiliti per tirare il freno. Il che è abbastanza surreale in un Paese dove si è sempre trattato su tutto, anche con i brigatisti, vedi l’affaire Cirillo nel 1981.

La ricostruzione quasi antropologica del potere democristiano è estremamente valida in un continuo incrociarsi tra grandi aspirazioni ideali e miserabili interessi di bottega, tra il volto pubblico bonario, rassicurante e cardinalizio e vite private (ancora non sbattute sui rotocalchi o sui social) complicate, spesso dolorose e per nulla luccicanti.

Bravo Gifuni nel ruolo di Moro (ma è ormai tradizione che chi interpreta il politico democristiano sullo schermo sia molto bravo, da Volonté a Herlitzka), bravo Servillo nel ruolo di un Papa in lenta agonia che sembra non rassegnarsi al destino di uno dei suoi protetti ma nonostante le buone intenzioni risulta del tutto impotente e, anzi, sembra chiudere la porta a qualsiasi soluzione negoziale quando nella celebre “lettera agli uomini delle Brigate Rosse” del 21 aprile 1978 inserisce nell’appello per la liberazione due parole pesanti come un macigno: “…liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni…”. Quel “senza condizioni” suonerà a molti come una campana a morto. Bravissimo poi Fausto Russo Alesi nell’interpretare l’allora Ministro dell’Interno Cossiga (o se volete KoSSiga, come si scriveva sui muri all’epoca) con la sua intelligenza acuta, i suoi sbalzi d’umore e le sue stranezze.

Se queste sono le note positive, c’è un elemento che solleva (almeno nella prima parte della pellicola) qualche perplessità in chiunque abbia fatto militanza politica nei movimenti: si tratta della rappresentazione abbastanza stereotipata, quasi macchiettistica, dei brigatisti. In un Paese capace di (e disposto a) indagare l’umanità di boss mafiosi, come fa con maestria lo stesso Bellocchio nel suo film Il traditore, camorristi, ‘ndranghetisti, banditi e narcotrafficanti sembrerebbe che ancora una volta si sia persa l’occasione per approfondire quel livello per i militanti della lotta armata, che sono fatti sempre agire e parlare per slogan e schemi. Questo, del resto, è il limite di tutta la narrazione di quegli anni: come mai una cospicua parte di una generazione non affetta da particolari patologie né giunta da Marte decide, a un certo punto, di prendere le armi contro lo Stato? Vedremo se la seconda parte del film riuscirà a ribaltare questo nostro primo giudizio.

Un film comunque da vedere per chi è appassionato dei furiosi anni Settanta italiani e non solo.

Chiudiamo con una notazione di “costume” per cultori della materia. Un errore di quelli che, a volte, capitano nei film ambientati in un’altra epoca storica. In una scena di scontri di piazza tra autonomi e Polizia nel 1978 compaiono dei Ducato, in uso nell’ordine pubblico tra gli anni Novanta e i Duemila (presenti anche al G8) invece che i celebri OM entrati in servizio proprio in quegli anni.

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