L’inno alla libertà di “Niente da dimenticare, verità e menzogne su Lotta Continua”
In passato è ci è già capitato di ospitare sulle pagine di MilanoInMovimento recensioni di libri dedicati alle vicende delle organizzazioni politiche della sinistra rivoluzionaria che hanno attraversato da protagoniste gli anni Settanta. Nel 2021, per esempio, abbiamo recensito Volevamo cambiare il mondo, dedicato alla storia di Avanguardia Operaia. Oggi è il turno di un fortunato testo di inizio 2023, che può vantare già un buon numero di copie vendute e di presentazioni molto partecipate. Stiamo parlando di Niente da dimenticare, verità e menzogne su Lotta Continua di Guido Viale, pubblicato da Interno4.
Provando a non spoilerare l’opera togliendo parte del gusto alla lettura, riportiamo di seguito alcuni dei punti e temi trattati che ci sono sembrati più significativi in termini di suggestioni per i movimenti di oggi.
Ciò che ci sembra emerga con forza dalle pagine di questo libro, come abbiamo evidenziato già nel titolo della presente recensione, è che l’antiautoritarismo sia il vero e proprio fil rouge della storia di Lotta Continua. Una continua e costante messa in discussione delle strutture di potere e di gerarchia in quelli che un tempo si sarebbero chiamati i “settori politici di intervento”: dall’università alla fabbrica passando per le carceri, i manicomi, gli ospedali, i quartieri e persino l’esercito!
Viale racconta come la spinta antiautoritaria si trasferisca in modo impetuoso, nel biennio d’oro 1968-1969, dal mondo della formazione (università e scuole superiori) a quello della produzione (le fabbriche) e come, in fondo, il processo più importante sia, secondo lui, lo scoprirsi come singolo individuo, attraverso il processo di crescita innescato dalla lotta, da parte dell’operaio massa (il soggetto rivoluzionario per antonomasia del decennio di fuoco dei seventies). Azzeccata risulta quindi, proprio su questo tema, la citazione dell’operaio Giovanni Falcone che, a sua volta, partendo da una frase di Gianni Agnelli (padre padrone della FIAT di Torino) esprime il seguente concetto:
“La FIAT, come ha detto un giorno lo stesso Agnelli, non era in quegli anni una fabbrica che produceva automobili, ma era l’università della lotta: quell’università in molti l’hanno frequentata e sono diventati bravissimi, ma tanti altri non hanno ‘seguito i corsi’ e sono rimasti, sotto sotto, quelli di prima”.
Altro elemento qualificante di Lotta Continua è l’importanza dello spirito comunitario e del “mettere in comune”. Interessante, non a caso, l’individuazione del fattore che ha tenuto insieme il gruppo in quegli anni: una pratica comune contrassegnata da un comune sentimento. E infatti l’accento è posto sul mastice rappresentato dai rapporti di amicizia: quanto di meno politico in termini di organizzazione militante leninista, ma d’altro canto quanto di più politico possa esserci se si segue lo slogan “il personale è politico” emerso con forza proprio conquant’anni fa.
Dall’altro lato, Viale identifica come grandi punti deboli il non aver compreso la centralità della questione ecologica già negli anni Settanta (a differenza di altri gruppi rivoluzionari dell’Europa occidentale, soprattutto in Germania) e la pericolosa sottovalutazione, per un lungo periodo, della “questione femminile”, che avrebbe spinto le compagne a “presentare il conto”.
Ineludibile poi la questione della violenza. Viale ammette una vera e propria “epica” legata agli scontri di piazza: singole scene di una storia che si collegano le une con le altre come i fotogrammi di una pellicola in una catena infinita e in una narrazione che diventa epopea e mito. Ma l’autore ci ricorda anche che la violenza di quegli anni è stata ben altro che sampietrini, spranghe e molotov. Ci sono state più che le botte date e prese in piazza. Ci sono state le stragi. E non è un caso che il 12 dicembre 1969 sia stato vissuto come vero e proprio momento di svolta. Viale ha l’onestà di ammettere che dopo quel giorno si è diffuso un sentimento comune, passato nella testa di tantissimi (migliaia e migliaia di giovani) almeno una volta, di “fargliela pagare”. Costi quel che costi. E qui l’autore si pone tre fatidiche domande. Tre SE fondamentali:
- SE non ci fossero state la catena di stragi e la strategia della tensione, ci sarebbe stata la lotta armata?
- SE la magistratura avesse prontamente agito contro i veri responsabili di piazza Fontana, la strategia della tensione sarebbe proseguita?
- SE c’è stato chi, già nei giorni successivi al massacro, aveva identificato la vera trama dell’ordito, la magistratura ha scelto di non vedere?
Questioni determinanti, come si vede, ma che nel Paese della dimenticanza per eccellenza sono state rimosse.
La conclusione del libro è invece dedicata alla lunga e tormentata vicenda giudiziaria iniziata nel 1988 e legata all’accusa mossa a Lotta Continua (nelle persone di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e del pentito Leonardo Marino) di essere mandanti ed esecutori dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano nel 1972 e la cui vicenda è irrimediabilmente legata alla strage del 12 dicembre e alla morte in Questura di Giuseppe Pinelli. Viale dettaglia tutte le contraddizioni e le ombre di quel vero e proprio calvario, dipingendo l’intera vicenda come una resa dei conti (una delle tante, va detto) tra un pezzo della generazione degli anni Settanta, da una parte, e magistratura, Carabinieri e, tanto per cambiare, una parte del PCI, dall’altra.
Una nota in chiusura. Meritoria e importante la parte dedicata a Mauro Rostagno, ex leader di LC e fondatore di una comunità di recupero per tossicodipendenti ucciso in un agguato nel 1988. La sua memoria è stata vilipesa e la sua tomba simbolicamente coperta da ogni genere di immondizia, insinuando che la sua morte fosse legata a ogni tipo di turpe e squallida vicenda, seguendo le piste più assurde tranne quella più ovvia e che, decenni dopo, si è rivelata giusta: il suo omicidio è responsabilità della potente mafia trapanese. Una vicenda in tutto e per tutto simile a quella di Peppino Impastato. Del resto, quando la lotta alla mafia la fanno figure non allineate e non incasellabili nel binomio magistratura-forze dell’ordine è sempre possibile, soprattutto se queste vengono da storie di sinistra militante, calunniarle e infamarle. Tanto nessuno ne pagherà mai le conseguenze.
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Penso che il filone antiautoritario sia stato l’anima non solo di LC ma di tutto il movimento rivoluzionario fine anni sessanta e oltre. D’altra parte era il fulcro del movimento tedesco con l’indimenticabile Rudi Dutschke. Non a caso assassinato molto presto. Purtroppo però mi sembra che anche LC non apprese fino in fondo la lezione, io non posso dirlo dal di dentro, ma fenomeni di liderismo ci furono certamente. Ciò che rovino’ una sana evoluzione di tutti i movimenti e organizzazioni fu l’incapacità di avere dibattiti e colllaborazione scevri da rivalità. Ma certo la montagna dello stragismo sarebbe stata credo comunque difficilmente sormontabile.