Potere Operaio: la generazione degli anni vissuti
“…il suo ceto dirigente, i suoi quadri, i suoi militanti sono finiti quasi tutti in galera.
Fosse solo per questo, dovrebbe essere motivo di orgoglio l’avervi militato”
Cecco Bellosi, La generazione degli anni vissuti
Come scrivevamo a febbraio ospitando la recensione di Niente da dimenticare, verità e menzogne su Lotta Continua di Guido Viale, su MilanoInMovimento ci è capitato di ospitare le recensioni di diversi libri dedicati ai gruppi rivoluzionari degli anni Settanta. Oggi, in occasione del triste anniversario degli arresti del 7 aprile ’79, colmiamo una lacuna ospitando qualche riflessione sul libro di Aldo Grandi La generazione degli anni perduti. Storia di Potere Operaio. Se finora avevamo trattato le vicende di Lotta Continua, di Autonomia e di Avanguardia Operaia, ci mancava proprio Potere Operaio.
Il libro di Grandi, ristampato arricchito dopo una ventina d’anni dalla prima edizione, si apre ripercorrendo le radici nobili e intellettualmente esaltanti dell’operaismo italiano. Si fa quindi riferimento all’esperienza dei “Quaderni Rossi”, una rivista teorica degli anni Sessanta le cui figure di riferimento furono Raniero Panzieri e Mario Tronti. Con una lettura da un certo punto di vista eretica ed eterodossa, la rivista si discostava dai “sacri miti” della classe operaia, ovvero il Partito e il Sindacato (non a caso con l’iniziale maiuscola), osservando con originalità il neocapitalismo italiano e fornendo in qualche modo quella che potremmo definire, con un linguaggio che va di moda oggi, la “cassetta degli attrezzi” teorica all’esplosione sociale di fine anni Sessanta. Ai “Quaderni Rossi” sarebbe seguita, dal 1964 al 1967, “Classe operaia”. Diversi semi erano insomma stati gettati prima dell’esplosione fragorosa del Sessantotto studentesco e del Sessantanove operaio.
Dopo il ’68, le occupazioni delle università, i primi scontri con le forze dell’ordine e il viaggio di molti verso la Parigi insorta, il focus si sposta su Torino. Sono proprio i cancelli della FIAT nel corso dell’infuocato anno 1969 il palcoscenico dove tanti degli attori di questa storia diventano protagonisti. Nella cronaca quasi giornaliera di quell’anno assistiamo a giovani studenti che si recano davanti ai cancelli del “mostro” per fare proselitismo, al primo annusarsi tra militanti e giovani operai meridionali, alle prime discussioni a fine turno in qualche bar, ai primi scioperi spontanei, al crescere delle assemblee operai-studenti, ai cortei selvaggi all’interno dei reparti, all’idea di far esplodere le contraddizioni della fabbrica nelle vie della città, alla “battaglia” di corso Traiano, alla pausa estiva e all’esplodere dell’Autunno caldo.
Qui vediamo incontrarsi e infine scontrarsi le correnti che avrebbero poi dato vita a due dei gruppi più importanti di quegli anni: Lotta Continua e, per l’appunto, Potere Operaio. Ed è proprio il futuro leader di LC a descrivere le differenze con PO: “…l’effetto di liberazione rappresentato da questa nuova esperienza era addirittura superiore a quello degli studenti contro i baroni universitari. La portata di questo aspetto antiautoritario era molto forte e fu la ragione di maggiore incomprensione con Potere Operaio. Queste rivalità per noi si giocavano sui rapporti umani e personali, e la loro rigidità nell’interpretazione della lotta, soprattutto da un punto di vista economico, salariale, li metteva in una posizione difficile, perché lì, alla FIAT, covava invece una straordinaria ribellione umana, psicologica, di identità, una fortissima sensazione di fratellanza”. Qualcuno potrebbe vedere in queste frasi un po’ del populismo di cui Lotta Continua sarà ogni tanto accusata negli anni a seguire. Ma la spiegazione rimane comunque suggestiva.
All’interno del costituitosi Potere Operaio assistiamo allo scontro tra due visioni: fabbrichismo e insurrezionalismo. L’intuizione della corrente insurrezionalista era che le lotte, in fabbrica, non avrebbero più morso e che il capitale, messo all’angolo, con la ristrutturazione industriale fatta di innovazione tecnologica e delocalizzazione dei processi produttivi avrebbe scompaginato, nel giro di poco, la forza operaia. La debolezza, d’altro canto, era il non comprendere che l’antica forma partito leninista non avrebbe potuto rappresentare la ricchezza e la complessità dei bisogni emersi in quegli anni. Un’altra idea era di utilizzare i territori come luogo di ricomposizione di quella classe che via via veniva “scomposta” in fabbrica. E questo, in qualche modo, è un aspetto disperante, perché molto si è tentato in quei decenni e poco si è ottenuto. La sognata ricomposizione di classe infatti non è mai avvenuta, nonostante il celebre slogan: “Autonomia operaia, in fabbrica e in quartiere”.
E qui emergono alcune intuizioni di Potere Operaio capaci di parlarci ancora oggi. Da un lato, la lotta per quello che veniva chiamato il salario garantito e, dall’altro, il rifiuto del lavoro. Due temi che in questo 2023 ci sembrano ancora e, anzi, sempre più di grane attualità.
Il libro racconta, con dovizia di particolari e aneddoti, tutti i passaggi della vita di Potere Operaio, dedicando molta attenzione al Congresso di Roma del settembre ’71. Si assiste agli scontri teorici e dialettici tra grandi personalità che sono sempre, per chi ne mastica un po’ di militanza politica, tanto personali quanto politici, poiché “le idee camminano sempre sulle gambe delle persone”. Viene raccontato il rapporto stretto nato tra il gruppo extraparlamentare e l’editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, che porterà, nei giorni successivi alla morte di quest’ultimo sul traliccio di Segrate nel marzo ’72, Potere Operaio a uscire con il celebre titolo “Un rivoluzionario è caduto”.
Grandi mostra l’evoluzione, teorica e pratica, della discussione affrontata da molti della sinistra rivoluzionaria italiana nella prima metà degli anni Settanta su questioni scottanti come la violenza, l’uso delle armi, l’aspetto pubblico e quello clandestino delle lotte. Da qui la vicenda di Lavoro Illegale.
A sancire la crisi definitiva di Potere Operaio sarà l’accavallarsi di una serie di fattori, i celebri nodi che arrivano al pettine. Da un lato il diffondersi in modo massiccio dell’autonomia operaia (scritta con le iniziali minuscole), intesa come la nascita di strutture politiche autonome rispetto ai tradizionali luoghi e strumenti di lotta politica della classe operaia (il Partito e il Sindacato di cui parlavamo all’inizio). Dall’altro, la progressiva perdita di protagonismo dell'”operaio-massa”, vero artefice dell’Autunno caldo (la cui centralità verrà via via attaccata e scompaginata dal comando capitalista fino alla resa dei conti dell’autunno ’80 alla FIAT) e l’emersione di una nuova figura, quella definita da alcuni “operaio sociale” che, non a caso, sarà il soggetto egemone della nuova rivolta del ’77. Pur rompendosi il capo come su un cubo di Rubik, va detto che mai nessuno riuscirà a dare una guida politica unitaria né all’insubordinazione autonoma né ai nuovi soggetti sociali emersi nel corso del decennio e ci penserà il riflusso a fare piazza pulita delle soggettività ribelli regalandoci decenni di atomizzazione e solitudine (con qualche momento di rivolta).
Il colpo di grazia al gruppo sarà la tragica vicenda del rogo di Primavalle: un attentato incendiario alla casa del segretario della sezione del MSI del quartiere romano Mario Mattei provocherà la fine atroce dei due figli Virgilio, di 22 anni, e Stefano, di 8, bruciati vivi nel rogo dell’abitazione. Un’attentato messo in piedi in modo autonomo senza passare dalla direzione del gruppo da tre militanti noti per estremismo e di cui i dirigenti di Potere Operaio vennero a conoscenza solo a disastro avvenuto.
Il sipario sul gruppo calerà con il Convegno di Rosolina della primavera del ’73. Qui, ancora una volta in modo sorprendentemente lucido, le analisi coglieranno l’avvicinamento in atto tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano ancor prima del colpo di Stato in Cile del settembre di quell’anno, che viene spesso simbolicamente identificato come momento di partenza del “compromesso storico”. Un avvicinamento che, nelle previsioni dei militanti di Potere Operaio avrebbe prodotto, come poi avvenne, danni terrificanti al movimento operaio. Frustrati però dalle errate previsioni di un’insurrezione spesso invocata e divisi su altre tematiche fondamentali, dirigenti, quadri e militanti di Potere Operaio arriveranno, nei mesi successivi, allo scioglimento silenzioso del gruppo. Anzi, Potere Operaio sarà il primo dei gruppi della sinistra rivoluzionaria italiana a sciogliersi. Anticipatore anche in questo.
Ci penseranno le procure di mezza Italia (a partire da quella di Padova) a riportare in vita Potere Operaio a sei anni dallo scioglimento, accusando il gruppo sostanzialmente di tutto quanto avvenuto in Italia durante quel decennio in base al famigerato “teorema Calogero”. In diverse ondate di arresti, iniziati nel 1979 e proseguiti fino all’inizio degli anni Ottanta, finiranno in carcere centinaia di persone. Ed è impressionante riscoprire come la sentenza di primo grado del processo “7 aprile” emessa a Roma nel giugno ’84 seppellì una sessantina di imputati sotto il macigno di più di cinquecento anni di carcere.
Da leggere l’epilogo affidato alla figura affascinante di Cecco Bellosi, al quel abbiamo, non a caso, rubato le parole di apertura di questa recensione.
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