“Tel Aviv brucia”

Il brillante film del palestinese Sameh Zoabi che ci fa ridere e insieme riflettere.

Tutti pazzi a Tel Aviv, attualmente nelle sale italiane, è la commedia firmata dal regista palestinese Sameh Zoabi presentata nella sezione Orizzonti all’ultimo festival d’arte cinematografica di Venezia.

“Il Woody Allen palestinese” è stato definito Zoabi dalla critica e, in effetti, si può dire che quest’ultimo si sia ispirato alla modalità alleniana nella sua scelta di utilizzare il linguaggio della commedia per parlare di una delle questioni geopolitiche più scomode, incancrenite e tragiche degli ultimi decenni: l’occupazione israeliana in Palestina.

E che si tratti di un tema politico e irrisolto ce ne accorgiamo ancor prima di analizzare il film, se consideriamo che il suo titolo originale, “Tel Aviv on Fire”, è stato cambiato (o censurato forse?) in un “Tutti pazzi a Tel Aviv” che risulta a dir poco fuorviante, sia per la fastidiosa assonanza con alcune commediette comico-demenziali che potrebbe allontanare i non amanti del genere, sia e soprattutto perché stravolge il collegamento essenziale tra i due filoni narrativi sui quali è costruito il film.

Zoabi fa infatti ruotare la narrazione attorno alla realizzazione e alla trasmissione in tutta Cisgiordania della soap opera “Tel Aviv brucia” e alle relative vicende di Salam, giovane palestinese di Gerusalemme assunto come “esperto di cultura israeliana” dalla casa di produzione palestinese autrice della serie con sede a Ramallah e di proprietà di suo zio.

La soap, ambientata agli albori della Guerra dei sei giorni del 1967, racconta di un’affascinante spia palestinese, Manal, che si finge ebrea francese per sedurre il generale israeliano Yehuda e sottrargli informazioni militari preziose da girare al suo partner (di lavoro e di vita) Marwan, con l’ovvio scopo di colpire alla radice gli occupanti. Ma nel corso delle puntate qualcosa d’inedito avverrà, a causa di un incontro poco piacevole di Salam con il comandante israeliano Assi, responsabile del checkpoint di Ramallah che due volte al giorno il giovane palestinese è obbligato ad attraversare.

Non per niente, ciò che ha di davvero particolare la serie “Tel Aviv brucia” è la composizione dei suoi fedeli follower: la serie è infatti seguita trasversalmente dalle casalinghe di tutta Cisgiordania, arabe o israeliane che siano. E tra queste anche la moglie del capitano Assi fa parte della schiera delle più ferventi appassionate, al punto da immedesimarsi talmente tanto nel personaggio femminile da finire per parteggiare, come lei stessa afferma per puro “amor di romanticismo”, per la fazione – o meglio in questo caso, la coppia – palestinese. Qualcosa di assolutamente inaccettabile per suo marito, non tanto politicamente, ma piuttosto da un punto di vista “d’onore”, in quanto ovviamente quest’ultimo prova un’inevitabile empatia con il generale israeliano Yahuda, che nella serie risulta comprensibilmente la figura perdente, sia strategicamente che “virilmente”.

Cosa succederebbe allora se, con una spintarella della sorte, il giovane e apparentemente poco dotato Salam si trovasse a diventare il responsabile della scrittura dei dialoghi tra Manal e Yehuda? Un’opportunità da non sprecare, se non fosse per il panico da foglio bianco che accompagna il nuovo incarico. E se nessuno fosse disponibile a dargli un aiuto se non il capitano israeliano Assi? E se tale aiuto fosse tutt’altro che disinteressato?

Succederebbe che il finale della serie, l’ovvia vittoria della coppia di spie palestinesi, così come il loro ricongiungimento, sarebbe messo in discussione al punto da stravolgerne l’intera morale.

E un tale stravolgimento incontrerebbe inevitabilmente la strenua opposizione dello zio di Salam, autore e produttore della serie, preoccupato prima di tutto della potenziale reazione dei finanziatori che in essa vedevano uno strumento di propaganda politica e militante, ma anche incapace de facto di immaginare una risoluzione differente, dal momento che lui quel ‘67 l’ha vissuto combattendo per la difesa delle terre del suo popolo e vede nel suo lavoro un modo di comunicare e raccontare questa storia ai giovani affinché non fermino la lotta.

E qui lo scontro generazionale, quando Salam gli chiede, amareggiato, se non ci sia una possibile mediazione tra “le bombe e la resa”. Salam non è una figura politicizzata, o almeno ciò non traspare mai durante il film (e d’altra parte il personale diviene inevitabilmente politico quando si vive sotto occupazione), è semplicemente un trentenne precario, sempre più disincantato e rassegnato a mettere da parte i suoi sogni, schiacciato da una quotidianità che per lui è sempre stata la stessa e non sembra avere prospettive di cambiamento.

Questo, unito al fatto che per la donna di cui è innamorato Salam rinuncerà infine alla possibilità di trasferirsi a Parigi dal momento che lei in Cisgiordania ha un lavoro, la famiglia, una vita tutto sommato serena e lì vuole restare, ci mostra innanzitutto – cosa non scontata – che la Palestina è un luogo come ogni altro, e cioè una casa per tante persone che desiderano rimanerci nonostante le ovvie difficoltà e le privazioni di libertà legate e conseguenti al controllo militare israeliano, e che forse il desiderio intimo delle nuove generazioni è quello di trovare un accordo, di risolvere una situazione apparentemente senza via d’uscita, con il rischio di suscitare le ire dei loro genitori e nonni. Una generazione di palestinesi (e chissà, forse anche di israeliani?) che vuole, una volta per tutte, scegliere tra il passato e il futuro.

La vera forza di questo film sta allora nell’affrontare tematiche complesse, drammatiche e spinose da tutti i punti di vista con un registro che si discosta totalmente da quello normalmente utilizzato per questo genere di tematiche. La pesantezza dell’occupazione trabocca da ogni scena, senza però mai diventare né retorica né eccessivamente tragica, è protagonista del film e insieme non lo è. I dialoghi sono leggeri, non si lesina sull’ironia e durante la proiezione è impossibile non farsi scappare qualche risata. E nonostante ciò, l’invasività del checkpoint, del controllo dei documenti, della gerarchia militare sono sempre presenti e non abbandonano quasi mai la scena.

Il film termina con un lieto fine, se vogliamo, e cioè con la vittoria del nuovo finale, che apre alla possibilità di una seconda stagione della serie, così come di un nuovo capitolo nella vita di Salam e Assi.

S_M

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Una risposta a ““Tel Aviv brucia””

  1. stefania sperduti ha detto:

    Veramente forte e sarcastico ma oramai seguo la produzione israeliana da Unorthodox a Shtisel à Fauda con passione enorme. Quante cose si capiscono del conflitto!!!!, bello

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