La mia Palestina

Io, ragazza di seconda generazione, vi racconto il mio Paese.

È di pochi giorni fa la notizia del viaggio del Ministro degli Interni italiano in Israele, che ha suscitato la reazione della fan base salviniana: dall’estrema destra delusa dalla mossa del “capitano” alle urla di gioia dei conservatori liberali in visibilio solo all’idea di un’alleanza tra Italia e Israele. Inoltre, in queste settimane i media mainstream hanno celebrato i 70 anni dalla nascita dello Stato ebraico, riempendo tv e giornali di elogi a uno Stato nato attraverso la dominazione del popolo palestinese che dal 1948 subisce un’occupazione sistematica. Se però la realtà si limitasse all’invasione territoriale, le condizioni dei palestinesi e delle palestinesi non sarebbero così tragiche. Invece, lo Stato d’Israele ha costruito le sue fondamenta con il sangue di civili la cui unica colpa è stata nascere in quella terra. La violenza, la morte, il dolore sono stati normalizzati all’interno di un conflitto che ha stravolto la vita di milioni di persone. L’occupazione si esplica attraverso una strategia perpetuata all’interno della quotidianità di ogni individuo: controllo dell’economia, della mobilità, dell’accesso ai servizi e non solo.

L’occupazione è qui con me a Milano, nella politica e nell’attivismo. L’occupazione transnazionale è quel fenomeno per cui se accusi lo stato di Israele di violare norme internazionali e di tutela dei diritti umani rischi di non poter entrare più in ciò che rimane dello Stato palestinese. Infatti, il governo di Israele ha promulgato una legge nota come “anti-Bds”, che vieta visti di ingresso e permessi di residenza a cittadini stranieri che appoggiano «il boicottaggio economico, culturale o accademico» di Israele e delle colonie in Cisgiordania.

Noi cittadini europei di seconda generazione subiamo questa violenza che condiziona il nostro agire quotidiano e ci fa vivere una vita di frustrazione all’insegna della sensazione perenne di impotenza e incapacità di sfondare il muro del silenzio. La generazione dei nostri padri e prima ancora quella dei nostri nonni hanno vissuto un periodo storico molto differente dal nostro: erano anni in cui i riflettori erano costantemente puntati su quel piccolo lembo di terra mediorientale, dove si lottava, si combatteva e l’obiettivo era chiaro per tutti, ovvero la liberazione della nostra terra. Oggi la prospettiva di liberazione sembra impraticabile oltre che irraggiungibile. E allora che fare?

Questa domanda mi perseguita e sembra così difficile riuscire a catalizzare tutti i solidali e le solidali intorno a un progetto comune. È tempo di mettere da parte le vecchie divisioni politiche e partitiche con l’obiettivo di una prospettiva rivoluzionaria, nel senso di rivoluzionare anche il nostro modo di fare politica. Il mio non vuole essere un appello ad abbandonare la lotta, ma anzi a stravolgerla, a interrogarci sulle pratiche e sul linguaggio utilizzato.

Uscire dal vittimismo della nostra condizione e iniziare a formulare proposte bene precise. Senza dimenticare i profughi del ’48, non dimentichiamo chi ancora oggi vive nei campi profughi tra Libano, Siria e Giordania. Non dimentichiamo chi è nato, cresciuto e morto nei 19 campi profughi della Cisgiordania e negli 8 della Striscia di Gaza. Non dimentichiamo le condizioni di apartheid di chi vive a ridosso del muro della vergogna, non dimentichiamo chi ogni giorno deve attraversare per motivi di lavoro i checkpoint, dovendo subire la dittatura dei permessi. Non dimentichiamo Gerusalemme nostra capitale, le terre espropriate, gli ulivi abbattuti, le tradizioni rubate, i bambini uccisi, le madri massacrate. Non dimentichiamo le irruzioni notturne nelle case, il terrorismo dei militari. Non dimentichiamo i traditori di Al Fatah, la connivenza con lo Stato d’Israele. Non dimentichiamo la follia di Hamas che manda a morire giovani in una guerra contro i mulini a vento.

Il cuore si spezza ogni volta che un giovane o una giovane nell’individualismo più totale sceglie di scagliarsi contro l’invincibile apparato militare israeliano, cosciente del destino che con ogni probabilità lo attenderà. Non dimentichiamo l’alleanza devastatrice fra Stati Uniti e Israele che sta portando alla privazione di diritti dovuti ai profughi palestinesi, sanciti dall’accordo di Oslo come l’Unrwa.

Dobbiamo essere in grado di costruire un progetto collettivo, ampio e vincente. La diplomazia, gli accordi e le convenzioni ci hanno tradito. Con la consapevolezza di ciò che è stato, immaginiamoci un futuro diverso. Rompiamo l’isolamento, usciamo dal ghetto, per noi, per i nostri padri, per i nostri nonni e per i nostri figli.

Layla

 

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