Cile: dal sogno di cancellare Pinochet, all’elezione di un presidente che gli somiglia
In sei anni il Cile è passato dal sogno di cancellare Pinochet dalla storia, attraverso una nuova Costituzione nata dall’estallido social, ad avere un presidente che ne rivendica la morale e l’eredità politica. José Antonio Kast ha vinto le elezioni presidenziali con il 58% dei voti ed è il nuovo capo dello Stato. Non si tratta di una normale alternanza di governo né di un semplice spostamento dell’asse politico a destra. È il ritorno del pinochetismo al potere in forma pienamente legittimata, attraverso le urne, senza maschere e senza ambiguità.
Kast non è un conservatore qualunque né un populista d’ordine di nuova generazione. È un seguace dichiarato di Augusto Pinochet, ne giustifica il golpe, ne difende la dittatura, ne rivendica l’impianto morale, politico ed economico. Con la sua vittoria Pinochet non torna come fantasma del passato o come rimosso della memoria, ma come progetto politico attuale, custodito dalla stessa Costituzione dell’80 che la rivolta del 2019 aveva messo in discussione per la prima volta in modo radicale. Il paradosso è solo apparente: il Paese che aveva osato immaginare una rottura storica oggi è governato da chi rivendica apertamente quella continuità.
Il dato decisivo non è solo la vittoria di Kast, ma la sua ampiezza. Il 58% racconta una sconfitta politica e culturale profonda delle forze che avevano aperto una possibilità storica con l’estallido social. La sequenza è lineare e brutale: rivolta sociale, processo costituente, governo progressista, restaurazione reazionaria. El estallido social non era una protesta settoriale né una semplice rivendicazione economica. Era una messa in discussione complessiva del modello neoliberista, dell’autoritarismo sedimentato, della società costruita dalla dittatura e mai realmente smantellata. Chiedeva dignità, diritti sociali, fine della paura, rottura con l’eredità pinochetista. Chiedeva futuro.
Gabriel Boric è arrivato alla presidenza come prodotto diretto di quella rottura. Ma una volta al governo ha progressivamente dissipato il portato politico dell’estallido social. Non per incapacità amministrativa, ma per scelta politica. Ha confuso la normalità neoliberista con la normalità popolare, ha privilegiato la mediazione permanente con poteri che non avevano alcuna intenzione di cedere, ha preso le distanze dai movimenti sociali che lo avevano reso possibile. La promessa di cambiamento si è trasformata in gestione dell’esistente, l’orizzonte di trasformazione in prudenza, il conflitto in fastidio.
La bocciatura della nuova Costituzione è stata il punto di non ritorno. Non solo una sconfitta referendaria, ma la certificazione di una rottura definitiva tra politica e società. In quel momento il processo aperto nel 2019 si è chiuso senza essere portato a compimento. Il governo non è stato capace, o non ha voluto, difendere quel processo come terreno di conflitto e di pedagogia politica. Lo ha lasciato diventare un oggetto tecnico, istituzionale, separato dalla vita concreta delle persone. In quel vuoto la destra si è inserita senza ostacoli.

Il trionfo di Kast non nasce da una radicalizzazione ideologica della società cilena, una società storicamente conservatrice, ma trova il suo germe nella disillusione di chi aveva creduto che attraverso il voto si potesse davvero cambiare il Paese. La reazione all’estallido social, la sua neutralizzazione istituzionale e la frustrazione prodotta da un governo progressista incapace di tradurre quella spinta in trasformazione hanno aperto lo spazio politico in cui la destra autoritaria ha potuto vincere.
Non è un caso isolato. È una traiettoria che attraversa il continente e va oltre. È successo in Argentina, dove il fallimento dei governi peronisti ha spalancato le porte a Milei. È successo in Ecuador, dove la normalizzazione neoliberista delle forze che si dicevano alternative ha prodotto governi sempre più autoritari. È successo negli Stati Uniti, dove la gestione democratica delle grandi mobilitazioni sociali ha lasciato spazio al ritorno di Trump. Ovunque il meccanismo è simile: speranza, frustrazione, paura, reazione.
Kast ha vinto imponendo una narrazione semplice e tossica. Il problema del Cile non sarebbe l’insicurezza sociale, salariale o abitativa, ma l’insicurezza fisica. Criminalità, migrazione e disordine sono stati trasformati in capri espiatori universali. Nessuna parola sulle cause strutturali, sulla precarietà, sull’indebitamento, sulla concentrazione della ricchezza. Solo repressione, militarizzazione, ordine, e taglio della spesa pubblica per sussidi e pensioni. Ma anche una visione cultura da imporre nelle scuole e università. È una ricetta globale, che funziona soprattutto quando dall’altra parte non esiste più un progetto credibile di trasformazione.
L’isteria anticomunista che ha accompagnato la vittoria di Kast è solo una cortina fumogena. Non sono stati i comunisti a saccheggiare lo Stato, a rubare le pensioni, a trafficare armi e denaro pubblico, a torturare, uccidere, far sparire. È sempre stata la destra, l’élite economica, il blocco militare-imprenditoriale costruito durante la dittatura e mai smantellato. Eppure milioni di persone hanno finito per odiare chi non ha mai fatto loro nulla e per affidarsi, ancora una volta, a chi governa con la paura.
Il Cile non ha scelto l’orrore per nostalgia, ma perchè crede in quel passato e non vede alternative credibili. Quando la speranza viene amministrata, addomesticata e infine tradita, la paura diventa progetto politico. Il ritorno di Pinochet non arriva con i carri armati, ma con le schede elettorali, dentro una democrazia svuotata di contenuto sociale. Ed è questa, oggi, la lezione più dura che il Cile consegna al resto del mondo.
di Andrea Cegna
