Covid seconda ondata, l’economia palestinese in ginocchio

«In questi ristoranti non c’è alcun controllo, né dell’Autorità nazionale palestinese né degli israeliani, sono pieni di clienti che sfuggono al lockdown, non rispettano il distanziamento e le altre regole anti-Covid ma i proprietari non temono sanzioni. Noi che siamo a Betlemme invece da giorni siamo obbligati a tenere la saracinesca abbassata». Maryam Daoud gestisce con il fratello una trattoria non lontana dalla Basilica della Natività e non trattiene la rabbia indicandoci i ristoranti situati tra il “Dco” (posto di collegamento) di Beit Jalla e il posto di blocco israeliano all’ingresso meridionale di Gerusalemme. La musica ad alto volume e le risate dei clienti nei due locali accrescono la sua frustrazione. «La Polizia dell’Anp – spiega Maryam – non ha autorità qui e l’esercito israeliano da queste parti, dove vivono solo palestinesi, ci viene solo per motivi legati all’occupazione militare, non per far rispettare le regole contro la pandemia. Io intanto devo tenere chiuso il mio locale».

In realtà i palestinesi “fortunati” di questi tempi sono ben pochi. Solo in questa e poche altre situazioni riescono a sottrarsi alle restrizioni imposte dal coronavirus. Come Maryam e suo fratello soffrono un po’ tutti gli abitanti del distretto di Betlemme. Il turismo motore dell’economia della città è fermo da mesi. Gli hotel sono in gran parte chiusi e così come ristoranti e negozi di souvenir. Dati aggiornati sulla disoccupazione non ci sono ma si parla di almeno un 50% della forza lavoro costretta a restare a casa. Se dall’altra parte della “linea verde”, in Israele, centinaia di migliaia di piccoli imprenditori e lavoratori autonomi rovinati dalla crisi protestano contro il governo, comunque il premier Netanyahu ha risorse pubbliche da investire per contenere la crisi economica. Al contrario in Cisgiordania il governo dell’Anp ha le casse vuote, anche a causa dello scontro con Israele sui fondi palestinesi derivanti dai dazi doganali e altre imposte (circa 170 milioni di dollari al mese). E ci sono le prime proteste. Autisti di taxi e autobus lamentano di non aver ancora avuto gli indennizzi promessi – poche decine di euro in valuta locale – mentre i dipendenti pubblici ricevono, e neanche tutti i mesi, metà dello stipendio. La Cisgiordania economicamente non è mai stata tanto vicina alla poverissima Gaza come in questi mesi.

Le prospettive sono nere. La pandemia è riesplosa forte nei Territori occupati, così come in Israele. A marzo e aprile in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est si erano registrati meno di 600 positivi e cinque morti. Nell’ultimo mese i contagi sono saliti a quasi 6mila e i morti a 40. Numeri che tengono sulle spine il ministro della salute Mai al Keile che teme il collasso degli ospedali. L’Anp in primavera era stata più rigida di Israele nell’imposizione delle misure di contenimento della pandemia. E al termine della prima ondata aveva allentato le redini molto lentamente. Ma poi, per salvaguardare la fragile economia palestinese, è rimasta a guardare quando la popolazione ha creduto finita la pandemia. Con in testa gli abitanti di Hebron – la città con il maggior numero di nuovi positivi – sono stati organizzati matrimoni con centinaia di invitati, non si sono più rispettate le restrizioni durante i funerali, e in strada, nei ristoranti, nei locali pubblici e al lavoro, pochi hanno continuato ad indossare la mascherina. In breve i contagi sono saliti a centinaia al giorno. Dopo il lockdown attuato nelle due settimane passate, il governo di Mohammed Shtayyeh ha vietato in Cisgiordania qualsiasi movimento per altri 14 giorni tra le città e tra le 20 di sera e le 6 del mattino.

di Michele Giorgio

da il Manifesto del 14 luglio 2020

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