Ebru Timtik muore di digiuno: «Il colpevole è lo Stato turco»

Il corpo di Ebru Timtik si è assottigliato ogni giorno di più nei 238 giorni di sciopero della fame iniziati il 2 gennaio scorso. L’avvocata turca è morta giovedì sera, il cuore si è fermato alle 21.04: pesava 30 chili. Negli ultimi giorni non riusciva nemmeno a ingerire acqua se non con una siringa.

Come i musicisti del Grup Yorum, Helin Bolek e Ibrahim Gokcek, morti tra aprile e maggio scorsi, e Mustafa Kocak, loro sostenitore, anche Ebru si è spenta di protesta: era stata condannata due anni fa a 13 anni e mezzo insieme a 17 colleghi (tutti membri dell’Associazione degli Avvocati progressisti), con l’accusa di appartenenza a gruppo terroristico. Un totale di 159 anni di carcere comminati senza rispetto per il diritto alla difesa degli imputati.

Meno di due settimane fa, il 14 agosto, la Corte di Cassazione turca aveva rigettato il ricorso presentato a giugno dal collegio difensivo internazionale contro la sentenza emessa sulla base della sola testimonianza di un anonimo accusatore, un detenuto mai identificato che durante il processo contraddiceva se stesso e dimenticava dichiarazioni.

«Il sistema giudiziario turco non ha niente di indipendente, è stato un processo pilotato – ci spiega Fausto Gianelli, membro del consiglio difensivo – Il vertice del Consiglio giudiziario, che dipende dal ministero della giustizia, ha scelto i giudici del procedimento, sostituendo quelli che avevano inizialmente prosciolto gli avvocati per inconsistenza delle prove. Avevano emesso un ordine di scarcerazione ma la notte successiva, alle 1, il collegio è stato cambiato e il giorno dopo, sabato, i nuovi giudici hanno revocato l’ordine di rilascio su richiesta della procura. Mai visto prima. Dal tentato golpe del 2015, il Consiglio giudiziario non è più indipendente ma risponde direttamente al ministero. Per questo pensiamo che sia un omicidio di stato e accusiamo direttamente il governo ed Erdogan di tutto l’iter processuale».

«Ci si accanisce sugli avvocati perché così si colpiscono due persone, il legale e l’assistito, e si intimoriscono i colleghi. Questi processi sono atti di terrorismo giudiziario: si limita il diritto alla difesa degli oppositori se i legali hanno paura di difenderli. Non è una nostra deduzione, è nelle motivazioni della sentenza di condanna: come se ci fosse concorso di reato, la corte cita le attività difensive di un numero “abnorme” di imputati di terrorismo e la frequenza “sopra la media” delle visite agli imputati, arrivando a considerare l’avvocato non neutro ma “organico” al reato».

La morte di Timtik – che per anni si è spesa per operai e minatori, contadini e donne vittime di violenza, per i manifestanti di Gezi Park e, come scrive Gianelli nel suo ricorso, per «gli abitanti la cui proprietà è stata arbitrariamente espropriata a causa della trasformazione urbana, le vittime di tortura nelle carceri e nelle stazioni di polizia, gli imputati per reati di opinione, lavoratori e militanti politici» – ha riacceso ieri la rabbia.

A Istanbul, di fronte all’Associazione degli avvocati, colleghi e attivisti si sono ritrovati per commemorare Ebru: «La sua morte poteva essere evitata», ha scritto in una nota l’associazione, a cui si sono unite quelle delle principali città turche, Ankata, Antalya, Bursa, Mersin. Nelle stesse ore la polizia aggrediva decine di persone fuori dall’Istituto di Medicina legale dove è stata effettuata l’autopsia. Video mostrano l’arrivo di veicoli blindati, le spinte degli agenti e il lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma. Una violenza simile a quella che accompagnò i funerali di Ibrahim Gokcek.

Come lui, Ebru – in una bara avvolta nella bandiera rossa – è stata accompagnata dalla sala di preghiera alevita di Gazi, storico quartiere della sinistra turca, al vicino cimitero dove è stata sepolta accanto alla madre. La polizia anti-sommossa, riportano i giornali locali, ha circondato il cimitero con blindati e cannoni ad acqua, impedito una marcia di protesta e sequestrato il corpo fino al luogo della sepoltura, vietando alla famiglia di portarla sulle spalle. A salutarla non c’era la sorella Barkin, anche lei avvocata detenuta nel super carcere di Silivri: la procura non le ha concesso un permesso per i funerali, usando come giustificazione l’epidemia di Covid-19.

La battaglia prosegue. La porta avanti Aytac Unsal, avvocato, anche lui condannato nel maxi processo intentato da una magistratura sempre più erdoganizzata. Unsal non mangia dal 2 febbraio, 205 giorni. Come Ebru, Aytac è stato portato con la forza, il 30 luglio, in ospedale, mentre l’appello per il loro rilascio veniva rigettato dalla Cassazione: «La loro salute non è in serio pericolo», la risposta del tribunale del 14 agosto.

«Il ricorso si può ripresentare – continua Gianelli – se le condizioni mutano. Ma se a Timtik, nella situazione in cui era, non sono stati concessi i domiciliari, credo ci sia poco in cui sperare. Continueremo comunque a denunciare a livello internazionale quanto accade. L’appello di domenica scorsa, con 1850 firmatari dalla Turchia e dall’estero e con l’Italia che ha partecipato in maniera massiccia, è stato importante. Avvocati, giudici, camere penali, tanti ordini si sono mossi, si è allargato il cerchio di interesse nella classe forense. È intervenuto anche l’Ordine nazionale degli avvocati, in centinaia hanno mandato fax alla Cassazione turca per protestare. Una mobilitazione italiana ed europea senza precedenti».

«La lotta continuerà con chi è rimasto e a nome di Ebru, ci stiamo coordinando. Potremmo rivolgerci alla Corte europea dei diritti dell’uomo. I colleghi turchi sono spaventati, la coordinatrice del collegio difensivo Ceren Uysal è scappata all’estero perché teme l’arresto, coordina l’attività da fuori».

Si combatte ancora per gli altri, per Aytac ricoverato in un ospedale penitenziario. È da lì, da una finestra della stanza del Dr. Sadri Konuk Hospital nel distretto di Bakirkoy, che Ebru Timtik è apparsa l’ultima volta, le mani aggrappate alle grate e un sorriso.

di Chiara Cruciati

da il Manifesto del 29 agosto 2020

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