L’inquietudine dopo la tempesta: riflessioni da Gaza nell’agosto del 2022

Questo è un racconto scritto da Shahd Safi di We Are Not Numbers durante gli ultimi bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza.
E’ stato pubblicato su mzemo.com con il titolo
THE AFTERSHOCK OF TRAUMA: REFLECTIONS FROM GAZA IN AUGUST 2022, e anche sul cartaceo di The Post International, tradotto da Pamela e Sofia di Gaza FREEstyle


Si tratta per lo più delle stesse notizie, delle stesse violenze, delle stesse emozioni di vulnerabilità e impotenza. Tutto ci è familiare.
Dai bambini uccisi senza pietà alla tristezza per le vite dei giovani estirpate a causa del trauma, fino alle madri costrette a lasciar andare i propri figli. Mi sento stremata nello scrivere ripetutamente riguardo quella che è la situazione a Gaza. Non è cambiato nulla. L’offensiva più recente è cessata solo ieri, ma la sofferenza rimane. Sono certa che i corpi rimasti in vita abbiano perduto qualcosa dentro di sé, o siano mortə nello spirito. Noi proviamo a resistere a tutto questo, al trauma continuo, all’inaccettabile perdita dei nostri cari. Dopotutto, siamo persone. Dobbiamo chiedere che le aggressioni finiscano. Per la precisione, dobbiamo chiedere a Israele di fermare quel che sta facendo, cosa che sembra davvero impossibile da ammettere per la maggior parte degli Occidentali. Non c’è stata alcuna provocazione nei confronti di Israele, ma anche questa volta hanno compiuto un massacro senza ritegno.

Giusto un paio di giorni fa, mi sono svegliata con la notizia che Gaza era sotto attacco. Il mio primo pensiero è stato: non c’è nessuno che ci aiuti. Ed è tristemente vero. Sono grata che quest’offensiva sia durata non oltre i tre giorni, ma chi riporterà in vita i bambini che sono morti? Chi ci restituirà Khalil Abu Hamada, figlio unico concesso ai genitori solo dopo 15 anni e sei cicli di fecondazione in vitro? Immaginate una situazione in cui, dopo 13 anni di matrimonio e moltissimi tentativi, riusciate infine ad avere un figlio. Pensate poi, a distanza di 19 anni, di perdere quel figlio! Chi guarirà Soad Hassouna, laureata con un’ottima media -e che ha recentemente dichiarato le sue aspirazioni in merito a una carriera da dentista, dal trauma che è costretta a vivere ora che la sua casa è stata distrutta da un attacco aereo? È stata ritrovata proprio tra le stesse rovine. Ne è stata tirata fuori, ma se riuscirà o meno a sopravvivere al crollo non si sa. Ha perso anche suo fratello.

I bambini di Gaza hanno familiarità con le tragedie di guerra

«Le mie bambine ricordano perfettamente l’attacco precedente» spiega Deema Aydieh. «Aprirono le finestre prima che io potessi dir loro di farlo, sapevano che in questo modo saremmo state più sicure in casa, facendo in modo che i vetri non ci scoppiassero tutt’attorno e addosso.
Avevano già preparato i vestiti per la preghiera, e mi avevano chiesto di impacchettare tutti i nostri documenti e cose importanti così da non dimenticare nulla nel caso dovessimo andarcene all’improvviso.
Per un attimo, mi è sembrato come se le mie figlie avessero acquisito troppa consapevolezza, troppo in fretta, nonostante i loro sogni e aspirazioni fossero davvero semplici. Volevano solo sentirsi al sicuro. Tutto ciò che volevano proteggere erano i loro vestiti e giocattoli preferiti, e il denaro tenuto da parte dall’ultima festa del sacrificio (Eid), che avevano deciso di investire in materiale scolastico. La loro infanzia è un insieme di innocenza e razionalità, due mondi che non si incontrano spesso. Ma d’altronde, questa è Gaza, la terra del paradosso» ha aggiunto Deema.

È chiaro, in altre parole, che queste aggressioni si tramutino in traumi atroci, e che arrivino a diventare abitudinari per i bambini nella striscia di Gaza.
Io stessa sono una bimba sopravvissuta a 5 anni, e riesco a visualizzare il momento in cui a scuola, dalla finestra della mia classe, vedevo brandelli di carne umana volare in aria durante un raid aereo dei nostri occupanti israeliani. Ricordo lo shock e il gelo che mi avvolsero il corpo. In quell’istante, nella mia mente diventò tutto bianco, si fermò tutto, e rimase solo il vuoto. La vita non importava molto a quel punto, perché mi resi conto di quanto fossimo insignificanti al resto del mondo. Questo è accaduto durante la seconda offensiva su Gaza. Ricordo che è successo mentre mi trovavo in una scuola dell’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione). Penso sia ironico che vengano considerati dei luoghi sicuri, mentre Israele colpisce deliberatamente bambini, civili, moschee, e persino scuole. Nessun luogo è sicuro a Gaza quando è sotto attacco, e i Gazawi lo sanno molto bene.

Le aggressioni degli israeliani lasciano un trauma sui Gazawi

Una volta, mentre parlavo con un* terapeuta, Cheryl Qamar,  chiesi se è vero che tutti i gazawi soffrono di disturbo da stress post traumatico (PTSD). La sua risposta fu che ogni essere umano che abbia vissuto tali atrocità presumibilmente soffrirà di PTSD, e che c’è quindi un’elevata probabilità che tutti i  Gazawi ne soffrano.
Disse anche che nel nostro caso poteva trattarsi di CPTSD (disturbo da stress post-traumatico complesso), come conseguenza dei traumi vissuti ripetutamente e in maniera prolungata.
Mi ricordo di quando la mia amica Rajaa è venuta a Gaza e mi ha chiesto cosa prendesse alle ragazze e ai ragazzi di qui, perché fossimo tutti così spaventati dai gatti. Non sono sicura, ma penso sia perché il trauma si manifesti in noi tramite paure e fobie. Me ne sono accorta anch’io, visto che avevo paura dei gatti e anche di molte altre cose, ma grazie a Dio ho superato tante delle mie paure, e sto provando a sconfiggere quelle che restano.

I giovani di Gaza si interrogano sulla realtà e il destino di vivere sotto l’occupazione israeliana

Mi chiedo se sia lecito uccidere dei civili in tempi di guerra, anche se per fini di “legittima difesa”, e mi chiedo se sia stato giusto uccidere Alaa Qadoum di soli cinque anni. Alaa era solo una bambina e non era una minaccia per nessuno. L’avrebbero iscritta all’asilo quest’anno. Mi chiedo che beneficio possa trarre Israele dall’uccisione di Daniana Alamour, una studentessa di 22 anni dell’università di Al Aqsa. Daniana aveva la mia età, viveva nel mio quartiere e studiava nella mia università. Entrambe amavamo l’arte, ma lei era brillante e aveva più talento: prima di morire ha dipinto una serie di ritratti meravigliosi e li ha esposti nella galleria del quartiere.

Mi chiedo chi debba essere chiamato terrorista – Ashraf el Qesi, che non ha esitato ad autorizzare la difesa civile palestinese a demolire parte della propria casa per salvare i vicini, dopo che gli edifici lì attorno erano stato distrutti da un attacco aereo israeliano – o chi spara sui civili dall’alto, dal cielo. 

Il dolore che Israele infligge a Gaza non si limita solo alle aggressioni; va ben oltre. Dal 2007 Israele ci ha imposto un blocco totale. Le persone non possono viaggiare se non per alcune motivazioni specifiche, come per studiare o per ricevere cure mediche, ma anche in questi casi, molti palestinesi che conosco, pur avendo tutti i requisiti, non sono stati autorizzati a uscire da Gaza. Alcuni di loro continuano a provare invano per diverse volte a ottenere il lasciapassare da Israele.

Provai profondo sconforto quando il mio amico Hossam Abu Shammala mi disse che voleva andare all’estero perché solo così avrebbe potuto vivere una vita dignitosa. Lui intendeva dire che vivere a Gaza è una forma di umiliazione, ed è difficile da ammettere, ma è vero. Ci vogliono una forza, un coraggio e una resilienza fuori dal comune per riuscire a vivere in un posto del genere. Il nostro destino di giovani è incerto. Quando guardiamo verso il futuro vediamo solo il caos più totale. Non è che noi siamo per natura sconvolti o confusi: a renderci così infelici è la situazione. Sì, proviamo a resistere e a trarne il meglio. Cerchiamo di vivere felici nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, senza sapere che crimini abbiamo commesso. Cerchiamo di trovare speranza ogni giorno e ci riusciamo. Talvolta è davvero dura, ma noi siamo dei sopravvissuti. 

 

Shahd Safi è una scrittrice freelance, tutor e traduttrice. Scrive per We Are Not Numbers dal 2019. È progressista e in sintonia con i nuovi sviluppi nel suo campo. Ha dimostrato di essere efficace e collaborativa con forti talenti del lavoro di squadra. Non solo, ma ha una vasta rete legata al lavoro, che le consente di coordinare le attività per raggiungere un obiettivo comune.

L’articolo originale  https://mzemo.com/2022/08/08/the-aftershock-of-trauma-reflections-from-gaza-in-august-2022/

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Una risposta a “L’inquietudine dopo la tempesta: riflessioni da Gaza nell’agosto del 2022”

  1. Giovanna ha detto:

    Che tristezza! Che rabbia!
    Come possono essere le nazioni così cieche ed insensibili nei confronti dell essere umano!
    Riflettete sul male che state facendo, smettetela, e riparate ai danni materiali ma soprattutto psicologici di cui siete causa

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