Perché chiamare compagno in tempo di pace, chi sarebbe nemico in tempo di guerra? di Davide Grasso

In queste ore in cui migliaia di #Hevalen #Sdf #Ypg e #Ypj (tra cui diversi italiani) si preparano forse a combattere e, in molti, magari, a morire per difendere le 4.500 comuni popolari e le centinaia di cooperative e Case delle donne costruite e fatte vivere da #Manbij a #Kobane ad #Hasakah e #DeirElZor, occorre che chi conosce il sito Contropiano prenda definitivamente atto della mentalità della sua redazione.

Leggete questo editoriale: Contropiano si “rallegra” del ritiro #Usa e auspica quello francese, prevede un bagno di sangue in #Rojava con aristocratico distacco e tuttavia bacchetta le compagne e i compagni per aver seguito una strategia non sufficientemente ortodossa tra il 2014 ed oggi (la strategia che tale bagno di sangue ha finora evitato).

(Tranne ad Afrin: ma, si dice, non ci si può lamentare del voltafaccia russo, visto che la rivoluzione confederale non aveva voluto cedere i pozzi petroliferi di Deir El Zor, sottratti all’Isis al prezzo di centinaia di martiri al legittimo (?) proprietario, Assad).

Come è possibile considerarsi “compagni” e gioire dei presupposti obiettivi che porteranno al massacro, alla fame o alla prigionia di migliaia di donne e bambini, civili e combattenti, che condurranno la popolazione di intere città e migliaia di villaggi alla sofferenza e al lutto?

Quale umanità c’è in questo?

Al perseguimento fanatico dei propri astratti sche(r)mi mentali si sacrificherebbe tutto, anche la vita (degli altri, naturalmente…).

Ma soprattutto: come si può definirsi “comunisti” e al tempo stesso restare indifferenti alla possibile fine di una rivoluzione effettiva, per quanto indubbiamente piena di limiti e incompleta (ma almeno diversa dalla sua menzione verbale o digitale), rallegrandosi che lo stato capitalista contro cui essa è nata e al posto del quale è fiorita possa ricostituire la sua “sovranità nazionale”?

Sono questi gli esiti di decenni di impoverimento culturale della sinistra tutta, tra sindacato e micro-partiti, delusi dal 1989, scioccati dagli anni Novanta, individui chiusi in sé stessi e nei propri microcosmi, ultimi reduci portatori di vecchie e nuove ambiguità, molto più profonde e radicali di quelle esplicitamente sbandierate.

Ricordate i tempi di Marx e di Engels, in cui si immaginava una liberazione sociale e in rapporto a quella si orientava la propria lettura del mondo, o quelli di Lenin e dei bolscevichi dell’Ottobre, in cui l’imperialismo era una macchina globale da sfidare con la sovversione concreta, a prescindere dalle sue bandiere americane, asiatiche o europee?

Se esistono ancora tracce di quella eredità non le troverete negli editoriali di Contropiano. Là prevale la meccanica ripetizione del mantra: Lettura geopolitica > stati contro stati > capitalismo di stato buono > capitalismo liberale cattivo > Usa peggiori dell’Urss durante la guerra fredda > Usa ontologicamente peggiori della Russia dopo la guerra fredda > chi (in teoria…) si contrappone a Usa: buoni > Iran buono > Russia buona > Assad (pardon… “Siria”) buono > chi si contrappone ai buoni è cattivo > Ypg cattive > dissidenti iraniani = dissidenti cattivi > dissidenti siriani = finti dissidenti > donne saudite: vere oppresse > donne iraniane: non così oppresse > rivoluzione negli Usa = da augurarsi > rivoluzione in Europa: “armiamoci e partite!” > rivoluzione in Iran: non ora > rivoluzione in Russia: più avanti > rivoluzione in Siria = tradimento! ecc.

Che pena, certo. Ma non bisogna fasciarsi i capelli: è vero che questo atteggiamento mentale (la riduzione della critica del capitalismo contemporaneo a un suo pseudo-scheletro irriconoscibile, iper-semplificato e caricaturale) è ampiamente presente tra certe persone (e Contropiano è soltanto la punta dell’iceberg), ma ciò è normale considerato che ancora nessuno ha davvero augurato una stagione fondativa sul piano del pensiero rivoluzionario in Italia e nel resto d’Europa, in questo secolo. Basterà dunque cominciare a porsi questo problema, metterlo a fuoco e lavorare sodo, se ne saremo capaci, per rimediare.

Per farlo, però, occorre ripensare, per quanto duro possa apparire, la nozione stessa di “compagno”, che ormai non appare che una bolla identitaria usata per coprire persone che coltivano prospettive che diventerebbero incompatibili se solo scoppiasse… ops!…

… una rivoluzione!

Già: perché chiamare compagno in tempo di pace, chi sarebbe nemico in tempo di guerra?

Davide Grasso

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