I didn’t cross the desert to live in a square

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Milano, Porta Venezia, 2015.

Arrivano a ondate non prevedibili, questo è vero, soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente. Ma che il loro numero sia in aumento e che l’Europa, come ogni Paese al mondo, debba fare i conti con 46,5 milioni, tra rifugiati e sfollati interni, è un dato certo, drammaticamente approssimato per difetto e, secondo i trend registrati negli ultimi mesi, destinato ad aumentare  (rapporto UNHCR relativo al 2014). Siamo di fronte a una questione macroscopica, che non può essere affrontata senza un orizzonte politico consapevole.

Che questo sia il quadro in cui si inserisce la situazione descritta come “emergenziale” tra porta Venezia e il mezzanino della Stazione Centrale è bene che tutti lo abbiamo in mente, perché a stupirci non può essere l’arrivo a Milano di 1000 profughi negli ultimi 10 giorni, quanto se mai l’impreparazione e l’inadeguatezza con cui questo fenomeno viene gestito.

Secondo quanto riferito a MilanoInMovimento dal Comitato Cambio Passo, nell’ultima settimana sono arrivate in stazione centrale tra le 70 e le 150 persone al giorno. Fino a poco fa si trattava prevalentemente di eritrei, ma negli ultimi 3 giorni è invece considerevolmente aumentato il numero delle famiglie siriane. Come abbiamo raccontato in un altro articolo, si tratta perlopiù di migranti in transito, che desiderano a ricongiungersi ai famigliari residenti in Nord Europa, ma nelle ultime settimane le partenze si sono dimostrate molto meno fluide, con un turnover tra arrivi e partenze di circa 70 persone al giorno. A questi numeri, che riguardano esclusivamente gli arrivi spontanei, gestiti, almeno sulla carta, dal Comune, vanno aggiunti tutti quei soggetti che vengono invece intercettati dal Ministero dell’Interno tramite le Prefetture, attraverso quindi le procedure di identificazione.

Si tratta perlopiù di persone costrette a una sosta in Italia in attesa dei soldi necessari a proseguire il viaggio, spediti solitamente dalla vasta e dispersa rete famigliare che le popolazioni di profughi hanno in tutto il mondo. Viaggiare con ingenti somme di denaro quando si staziona in luoghi poco sicuri, come possono essere le strade di una città come Milano, o quando si è oggetto di “cure particolari” da parte delle forze dell’ordine, per cui il possesso copioso di contanti può essere un indizio sufficiente per l’incriminazione per ricettazione, è un rischio che i migranti non possono correre. E così, aspettano. Spesso in attesa dei soldi per comprarsi un biglietto del treno. Destinazione Svezia, Inghilterra e Germania (passando dalla Francia, perché gli altri confini sono al momento meno favorevoli).

E così, mentre al mezzanino di Centrale operano degli impiegati di Palazzo Marino privi delle competenze necessarie al lavoro di mediazione, mentre l’unico punto di riferimento per qualunque possibilità di integrazione o quantomeno di introduzione rimangono le comunità di riferimento, il Comune mette a disposizione tre strutture per una mera accoglienza – via Salerno, via Aldini (destinata ai richiedenti asilo) e via Mambretti (destinata ai senza fissa dimora) – gestite da due cooperative: Arca e Farsi Prossimo. Non stupisce che i posti nei centri siano assolutamente insufficienti, ormai siamo abituati a questo genere di barbarie, e scontata è ovviamente anche la giustificazione dietro l’angolo: “non ci sono soldi”.

Però, c’è un “però”. Perché il triste filo conduttore con cui questa non-emergenza è gestita è, come anticipavamo a inizio articolo, un’assoluta mancanza di orizzonte politico. Un orizzonte che ad esempio dovrebbe avere a che fare con la qualità dell’assistenza, oggi tenuta sotto scacco dall’approccio assistenzialistico-aziendalistico del privato sociale di matrice cattolico-liberale. Un modus operandi che fa da un lato dell’attività sociale un’attività imprenditoriale basata su budget e numeri e che dall’altro impedisce ai bisognosi di intraprendere un percorso verso una progressiva autonomia, in un contesto di discrezionalità che crea enorme confusione. In altre parole, un metodo insostenibile economicamente e socialmente, che legittima l’inerzia delle istituzioni laiche, esimendole dalla necessità di prendere il toro per le corna, elaborando soluzioni variegate, alternative e parallele in grado di rispondere ai diversi bisogni di chi arriva in città.

Siamo di fronte a persone con esperienze traumatiche alle spalle, che senza una qualità nell’accoglienza rischiano di vedere compromessa ogni possibilità di integrazione. Tanto per fare qualche esempio: perché invece di accentrare le poche risorse disponibili non le si distribuiscono sul territorio? Perché, per quanto riguarda i minori, non incentivare gli affidamenti temporanei alle famiglie investendo così i soldi disponibili (dai 25 ai 40 euro al giorno) che ogni struttura ha a disposizione per ogni minore? Perché, se è vero che i soldi sono pochi, non far valere la facoltà che il Comune ha di dettare le condizioni dei servizi che appalta ad esempio esigendo la presenza di mediatori culturali (non più di 1/20?), di corsi di formazione (di artigianato?) e di orientamento? È in questa direzione che speriamo vadano le scelte del comune, che in questo momento sta valutando le proposte di sei soggetti che risponderanno a un bando su invito per la gestione dei migranti “spontanei”.

Intanto, per raccogliere le risorse per le importantissime attività di Cambio Passo e per provare a generare un orizzonte politico consapevole tra i numerosi soggetti che hanno dimostrato in questi giorni di avere il desiderio di mettersi in gioco, l’appuntamento è a Macao, giovedì 28 maggio, per discutere e stare insieme, attraverso dibattiti, workshop, cibo eritreo e musica reggae.

P.s.

L’immagine scelta per questo articolo è lì, in Porta Venezia. Potente e generosa nel farsi leggere. Crediamo sia preziosa per la città e speriamo che a nessuno passi per la mente di cancellarla.

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