I profughi oltre la siepe

8880Confine, dal lat. confine, neutro dell’agg. confinis «confinante», comp. di con- e del tema di finire «delimitare». Linea che separa e allo stesso tempo unisce.

Milano, Porta Venezia – Eritrea-Etiopia, Etiopia-Sudan, Sudan-Libia, Libia-Italia. Deserto, città, mare aperto. A piedi, in auto, in nave, in treno. Berihu ha 20 anni ed è arrivato a Milano una settimana fa. Alle spalle ha un viaggio da 3600 dollari, lungo 4 mesi e mezzo. Non un giorno di più, non un giorno di meno, li ha contati bene…

Come lui, sono centinaia gli eritrei, molti sotto i vent’anni, perlopiù maschi, che tutti i giorni alle 18 si raccolgono spontaneamente a Milano in uno spazio residuale di verde urbano stretto tra i Bastioni di Porta Venezia e viale Vittorio Veneto. Scappano dalla dittatura di Isaias Afewerki, da un servizio militare a tempo indeterminato, dalla povertà e dalla mancanza di prospettive. Oltre i confini nazionali tra Paesi, oltre il confine climatico del Sahara e oltre il confine geografico del mare Mediterraneo.

E approdano a Milano, nei loro desideri tappa intermedia di un viaggio verso il Nord Europa. Germania, Svezia, Norvegia, Inghilterra le destinazioni più ambite. Ma, prima, è Mediolanum, città in mezzo alla pianura, intricato gomitolo di confini – sociali, culturali ed economici – centro urbano costretto dagli argini dell’economia di mercato, che oggi scivola lungo l’alveo di Expo, ipnotizzato da un estuario che promette ricchezza.

Eppure, nonostante le imponenti dighe e barriere innalzate dal sistema economico che ci ha portato alla crisi, sopravvivono anche a Milano delle esondazioni, quei fenomeni spontanei che mantengono la terra fertile. Sono quelle delle persone autorganizzate che per settimane hanno portato i propri corpi e le proprie risorse in porta Venezia. Come il Comitato Cambio Passo, il Naga, la cucina popolare di Zam, Macao, i panettieri che hanno rifornito la distribuzione di cibo. Persone e gruppi che hanno per intere giornate trasformato dei muri in confini sedi di scambi. Come le membrane cellulari, attraverso cui passano molecole e informazioni.

Perché in mezzo, tra mondi che, spesso violando l’istinto e assecondando convinzioni culturali artificiali, siamo abituati a percepire separati – come il luogo di ritrovo dei profughi e i bar dei milanesi incazzati, apparentemente divisi dalle rotaie del 9 – in queste settimane abbiamo visto qualcosa. Abbiamo visto uno spiraglio per quella cultura fatta di umanità e di senso di giustizia, che nulla ha a che fare con l’assistenzialismo, e che invece molto ha a che vedere con la felicità di stare insieme e con l’agire politico, più o meno consapevole.

Uno spiraglio come quello che ci ha dato una conversazione con F.A., un giovane di origine eritrea, a Milano da ormai un decennio, che proprio in porta Venezia ci ha raccontato la sua storia.

«Il 5 maggio compio 30 anni, è da quando ne ho 22 che sono qui. Sono arrivato in Italia il 17 agosto, dall’Eritrea, perché c’è un regime, una dittatura. Ero soldato, ero costretto a fare il militare e lì è a tempo indeterminato, non sai mai quando torni a casa. È un modo per tenere sotto controllo i giovani, per non farli pensare, capisci, perché nell’esercito sei controllato dal governo e non puoi fare altro. I soldati non hanno telefono, tv, internet, niente, stanno sempre nella foresta a lavorare, fuori dal mondo, capisci cosa voglio dire. Stai lì, ti dicono cosa devi fare e lo fai, e lavoravamo di brutto, dalle 6 alle 6. Anche le donne sono costrette a farlo, ma solo per un anno. Io ho iniziato a fare il militare a 20 anni, ma nessuno vuole farlo, proprio nessuno, e così sono scappato. A maggio, nel 2005, di sabato».

Come hai fatto a scappare?

«Ho camminato per tre giorni, per arrivare in Sudan. Lì c’era l’accoglienza. Mi hanno dato coperte, un bicchiere, qualcosa da mangiare. Per tre mesi sono stato lì, poi siccome avevo un amico che stava in Sudan, a Khartum, ho cercato il suo numero di telefono e l’ho chiamato e mi ha dato dei soldi. Ho pagato 50 dollari per arrivare nella capitale e lì mi sono fermato per un anno e mezzo, ho lavorato come cameriere, ho messo insieme un po’ di soldi e ho deciso di andare in Libia, per provare a cambiare vita. Ho attraversato il deserto, una cosa pericolosissima, con un pick-up, insieme ad altre 25 persone. C’erano donne e bambini di tanti paesi, sudanesi, somali, eritrei, etiopi. Abbiamo pagato 550 dollari a persona. Poi, quando superi il confine con la Libia, non è che ti portano in città. Ti lasciano al confine. Così devi pagare altri soldi. Mi sono fermato in Libia poco più di 5 mesi e poi ho preso un gommone per Lampedusa. Altri 700 dollari, ma io sono riuscito a pagare meno degli altri, che davano 1200 dollari. Eravamo 25, con due bambini di sei mesi a bordo».

E poi una volta arrivato in Italia?

A Lampedusa ci hanno dato cibo, acqua, cibo. Poi abbiamo preso un aereo e siamo stati trasferiti del centro di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia. Io non parlavo una parola di italiano e gli interpreti lì arrivano solo quando c’è bisogno, in alcune occasioni. Ma una parola l’ho imparata, “coglione”, e non me la dimentico.

Com’era la vita nel Cpt?

Brutta. Davvero brutta. Mi ricordo ancora la faccia dei poliziotti che ci picchiavano. Tutti i giorni alle 8 di sera devi tornare in gabbia e fino alla mattina dopo non puoi uscire. Sei come un detenuto. E se rientri tardi, o se capiscono che hai bevuto un bicchiere prima di rientrare ti tocca il bastone. Ti portano nell’unica stanza senza telecamere e te le danno in 4 o 5, coperti da una maschera. Mi ricordo in particolare uno di loro, ciccione, razzista. E un altro di loro, bravissimo, che cercava di difenderci. Una volta abbiamo organizzato una manifestazione e quando siamo rientrati ci hanno perquisito tutti. Ci sono dovuto stare sette mesi, mentre aspettavo che mi chiamassero per avere l’asilo politico. Poi mi hanno dato il permesso di soggiorno, su un foglio giallo. E allora via, basta. Ho trovato una casa abbandonata. L’abbiamo sistemata, con altri amici e abbiamo vissuto lì per 3 mesi, vicino a Udine. Poi è arrivata la polizia locale e il Comune e anche la Prefettura e i giornalisti. E dopo tre giorni hanno sigillato tutto e sono stato aiutato da un prete, che mi ha dato casa per un anno e poi sono venuto a Milano, è sette anni che sono qui, vivo con il mio migliore amico, lo stesso con cui sono scappato. Ho trovato lavoro a maggio di 5 anni, in un supermercato, ma, sempre a maggio, l’anno scorso mi hanno licenziato…

Quante cose importanti ti sono successe in maggio…

(Ride) In maggio sono nato, sono scappato dalla dittatura, ho attraversato il Sahara, sono arrivato a Milano ho trovato lavoro e sono stato licenziato. Magari anche la rivoluzione sarà in maggio…

La rivoluzione?

Sì, la rivoluzione. Sai, in Eritrea c’è una “dittaturissima”. Prima del 2000 c’erano 7/8 giornali, dove si poteva contestare quello che faceva il governo, adesso chi si oppone al regime o muore o resta in prigione. In carcere ci sono tantissimi giornalisti e noi siamo stufi e siamo tanti. E ci stiamo organizzando per avere elezioni democratiche, per scrivere una nuova Costituzione, per la libertà. Non si possono chiedere queste cose a un dittatore, dobbiamo tornare lì e fare la rivoluzione, ma non come in Egitto o in Libia, non faremo la guerra tra di noi, loro sono divisi e si mangiano tra di loro, come in Somalia, e stavano quasi meglio prima… Ci proviamo dall’estero, anche se tramite l’intelligence il regime ci tiene sotto controllo in tutto il mondo. Ad esempio nei campi profughi in Etiopia riescono a creare divisione tra le persone per evitare che si mettano insieme e l’esercito stesso lucra su chi vuole scappare: i generali si fanno pagare e ti accompagnano tranquillamente fuori dal Paese, devi solo dare loro 2000 dollari. A loro conviene così, se tutti i giovani vanno via nessuno fa la rivoluzione, chiede la costituzione, o le elezioni. Basta che sei fuori, uscito.

Cosa state facendo di concreto per opporvi al regime?

Tanto per cominciare rifiutiamo il contatto con l’ambasciata e ci stiamo organizzando, anche per fare informazione, ad esempio c’è una radio libera che trasmette da Parigi, Radio Erena, che è stata fondata da alcuni giornalisti che sono scappati dall’Eritrea proprio a causa della dittatura, nel 2005. Se ci mettessimo tutti insieme, anche queste persone che sono appena arrivate, il regime non durerebbe un anno. Ma nel paese tengono i giovani sotto controllo col servizio militare dicendo che siamo in guerra con l’Etiopia, quando la guerra è finita da più di dieci anni…

Cosa pensi di questa situazione, dei profughi che arrivano in Italia…

Mi dispiace, non ho niente, ma se ce l’avessi li aiuterei. Sono tutti minorenni, attraversano il deserto ed è pericoloso, io l’ho assaggiato. E poi ci sono situazioni gravi, in Libia c’è l’Isis, tantissimi eritrei sono in ostaggio e non sappiamo cosa succederà loro. Il fatto è che molte di queste persone una volta qui pensano solo a come mantenere la famiglia, hanno già perso ogni sentimento per il paese, e anche io quando da giovane ho varcato il confine volevo scappare e basta. Studiavo ecologia, ma quando arrivi a 18 o 19 anni devi per forza devi fare il militare, non ti lasciano studiare a quella età. Anche due miei fratelli sono scappati, uno è in Canada e uno in Norvegia, mentre in Eritrea sono rimasti una sorella e un fratello che è scappato dall’esercito e vive nascosto.

Come ti trovi in Italia?

Non ho scelto di stare qui, ma qui sono stato identificato e quindi devo restare. Volevo andare in Inghilterra, per gli studi, per crescere. Anche qui si può, ma è più difficile, è difficile anche voi italiani… Diciamo che l’Italia è diversa dal resto d’Europa per i rifugiati. Diciamo che non mi aspetto niente dal governo italiano, perché penso che prima debba cambiare il suo modo di governare. per gli italiani… Penso ad esempio al caso Roma Capitale. Ma Milano è bella. Come si dice… Mi piace da morire, giusto? Diciamo che se hai soldi, è meglio. E Milano è come il mio secondo paese, Milano però, non l’Italia, perché se dico Italia c’è anche il Cpt.

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Una risposta a “I profughi oltre la siepe”

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