Rivolte Covid, «tra i morti un detenuto pestato»
Cinque voci rompono il silenzio abissale del carcere per denunciare quanto accaduto tra Modena e Ascoli l’8 e il 9 marzo scorso, mentre cominciava la prima complicatissima fase della pandemia e in una settantina di istituti in Italia si scatenarono violente proteste dovute principalmente al divieto di colloqui con i familiari, ma anche al clima di enorme incertezza che dietro le sbarre è sempre amplificato.
Lo scorso 20 novembre cinque detenuti – Claudio Cipriani, Ferruccio Bianco, Mattia Palloni, Francesco D’Angelo e Cavazza Belmonte – hanno scritto alla Procura di Ancona chiedendo di essere ascoltati e raccontando nel dettaglio i fatti di quelle giornate, compresa la morte del quarantenne Salvatore Piscitelli, uno dei tredici deceduti, ufficialmente per overdose, durante le sommosse.
I cinque si dichiarano «coinvolti in maniera passiva» nella rivolta scoppiata a Modena (anche se alcuni di loro risultano essere indagati per quei fatti) e di aver assistito «ai metodi coercitivi messi in atto dagli agenti della Polizia Penitenziaria», ovvero «l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo», «l’aver caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo». E ancora: «Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente gli agenti, dopo essere stati ammanettati e privati delle scarpe, senza aver post resistenza alcuna. Siamo stati oggetti di minacce, sputi, insulti e manganellate. Un vero pestaggio di massa».
I detenuti che hanno trovato il coraggio di scrivere alla Procura e, dunque, di uscire dall’anonimato, sono stati tutti quanti nuovamente trasferiti a Modena venerdì scorso, messi in isolamento e adesso premono per essere ascoltati al più presto sia sui presunti pestaggi sia sulla morte di Salvatore Piscitelli, avvenuta nel carcere di Ascoli alle 10 e 30 del mattino dello scorso 9 marzo. Piscitelli sarebbe stato picchiato a Modena e, una volta arrivato ad Ascoli nel pomeriggio dell’8 marzo, in molti lo hanno visto «in evidente stato di alterazione da farmaci, tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti». In cercare è stato poi messo nella cella numero 52, al secondo piano, insieme a un altro detenuto. «Tutti facemmo presente al commissario e agli agenti che il ragazzo non stava bene e che necessitava di cure immediate – scrivono i cinque alla Procura -, ma non vi fu risposta alcuna». La mattina successiva, Piscitelli «emetteva versi lancinanti» e i detenuti sono tornati a chiedere l’intervento di un medico, ancora una volta senza essere calcolati. Alle 10 l’altro recluso nella cella 52 avvisa gli agenti che Piscitelli ha smesso di muoversi e che giace freddo nel letto. Un’infermiera, accorsa sul posto, avrebbe anche provato a effettuare un’iniezione, ma ormai non c’è più nulla da fare: il quarantenne arrivato già malmesso dall’Emilia-Romagna ha smesso di respirare per sempre e sopra il suo corpo viene steso un lenzuolo.
Una morte che poteva essere evitata? Tutte le accuse sin qui uscite sono state respinte a più riprese dagli agenti della Polizia Penitenziaria, che si barricano dietro alla «situazione drammatica» che in quei due giorni di marzo si è presentata in decine di istituti penitenziari italiani. «Si è parlato molto della rivolta di Modena ma nessuno si è interrogato su cosa fosse realmente accaduto – insistono i detenuti nel loro esposto -. È inopinabile che vi siano stati dei disordini, ma nessuno di noi è stato interrogato o sentito come persona informata dei fatti». Sulla morte di Piscitelli c’è un fascicolo aperto da mesi in Procura ad Ascoli, mentre per quello che riguarda l’esposto dei detenuti, arrivato ai magistrati anconetani quasi una settimana dopo essere stato scritto, è stato aperto un fascicolo «modello 45», senza ipotesi di reato né indagati.
di Mario Di Vito
da il Manifesto del 15 dicembre 2020
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