[DallaRete] Abu Mazen getta acqua sul fuoco della rabbia palestinese
Israele/Territori occupati. Il presidente palestinese ribadisce la sua opposizione a una nuova Intifada e riallaccia la cooperazione di sicurezza con Israele. La protesta palestinese però non si placa. Ieri scontri a Gerusalemme e nelle città vicine. La destra israeliana vuole più repressione.
I pompieri dell’Autorità nazionale palestinese sono entrati in azione per impedire che le proteste dentro e intorno a Gerusalemme accendano le polveri di una rivolta ampia e incontrollabile, la terza Intifada tante volte evocata. I responsabili dei servizi di sicurezza dell’Anp avevano in programma ieri sera un incontro con i loro colleghi israeliani su come «ripristinare la calma». Business as usual, insomma. Mercoledì scorso il presidente Abu Mazen aveva dichiarato con solennità di fronte alle Nazioni Unite che i palestinesi non sono più legati agli accordi con Israele. Una settimana dopo, la cooperazione di sicurezza, uno dei capitoli più importanti di quelle intese, è stata prontamente riattivata. In verità non era mai cessata. «Diremo loro (agli israeliani) che non vogliamo un’escalation militare nè di sicurezza», ha spiegato Abu Mazen durante una riunione del Comitato esecutivo dell’Olp, «Le istruzioni alle nostre forze, ai partiti e alla gioventù sono che non vogliamo un’escalation. Vogliamo raggiungere una soluzione politica con mezzi pacifici».
In quelle stesse ore al campo profughi di Aida, all’ingresso di Betlemme, sfociavano in scontri con l’esercito israeliano i funerali di Abed al Rahman Obeidallah, il bambino 13enne ucciso lunedì dai soldati. «Indossava il grembiulino della scuola, come hanno potuto sparargli», ripeteva ieri un parente. Rabbia e indignazione della gente di Aida sono esplose quando un portavove militare israeliano ha descritto l’uccisione di Abed al Rahman come un “errore”, un “risultato inatteso” dell’intervento dei soldati. Qalandiya, al Bireh, Beit Hanina, Beit El, sono solo alcune delle località dove ieri sono stati più intensi gli scontri tra i militari e i giovani palestinesi con il volto coperto e “armati” di pietre. I dimostranti feriti sono stati decine, non pochi dei quali colpiti dai proiettili veri sparati da tiratori scelti. A Gerusalemme i bulldozer intanto hanno demolito le abitazioni dove vivevano le famiglie di due palestinesi responsabili di attentati nel 2014. Sono le prime di una lista che si prevede lunga. Le demolizioni delle «abitazioni dei terroristi» sono una delle principali misure punitive decise dal premier israeliano Netanyahu.
Ieri nel movimento Fatah, guidato da Abu Mazen e spina dorsale dell’Anp, regnava la frustrazione. Militanti di base e diversidirigenti locali sono rimasti senza parole per l’improvviso cambio di rotta della leadership. A. H. un militante cinquantenne di Fatah della zona di Ramallah — ci ha chiesto di non rivelare la sua identità — scuoteva la testa. «Il discorso (del presidente) all’Onu aveva rappresentato per Fatah l’inizio di una nuova fase, il ritorno a un impegno concreto contro l’occupazione — ha spiegato — e mi sono convinto ancora di più che qualcosa di nuovo e importante era cominciato quando nei giorni successivi (Abu Mazen e gli altri leader) hanno tenuto un atteggiamento di fermezza con Israele e non hanno mandato i poliziotti (palestinesi) a fermare i dimostranti. Ora – ha notato con amarezza A.H. — siamo al punto di prima. Abu Mazen non vuole l’Intifada, neppure in una forma pacifica e popolare, ma non ha una alternativa e continua a dar credito agli Usa. Intanto Fatah perde credibilità tra la gente». Pare che a spingere Abu Mazen ad ingranare la retromarcia sia stata la notizia che a mettere in atto l’agguato di giovedì scorso a danno dei coloni Henkin, è stata una cellula di Hamas. L’incubo del movimento islamico è tornato a tormentare il presidente dell’Anp che, evidentemente, sa che Hamas gode di ampia popolarità anche in Cisgiordania, persino tra i dipendenti dell’Anp, ed è convinto che un’Intifada finirebbe per favorire le ambizioni degli islamisti.
Mentre Abu Mazen si attiva per spegnere l’incendio, le componenti più estreme del governo israeliano spingono per delegittimarlo e negare definitivamente le aspirazioni dei palestinesi sotto occupazione. Il partito Casa Ebraica, rappresentante del movimento dei coloni e parte dell’esecutivo, guida la contestazione della destra radicale contro Netanyahu, troppo “morbido” con i palestinesi. Lunedì sera i suoi ministri hanno arringato per ore i 10mila israeliani radunati davanti alla residenza del premier per invocare misure durissime contro i palestinesi, la costruzione di una nuova colonia nel punto dove sono stati uccisi i coniugi Henkin e l’espansione senza sosta degli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi occupati. Il leader di Casa Ebraica, Naftali Bennett, ha tenuto ieri sera una “riunione” del partito nel cuore del quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme per affermare la piena sovranità israeliana. La deputata del Likud, Nava Boker, ha aggiunto «Non c’è differenza tra la Giudea e Samaria (Cisgiordania occupata, ndr), Haifa e Tel Aviv, sono tutte parti dello Stato di Israele». Netanyahu viene accusato di “incapacità” nel combattere il “terrore” anche dal leader laburista Yitzhak Herzog, ormai più a destra del Likud.
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