[DallaRete] “Fino al 32 marzo!” La Francia in sciopero contro la loi travail!

30638c1a-2bf1-4378-fa2d-c57de23d0860Oggi (ieri) in Francia sciopero generale e manifestazioni contro le riforma del lavoro “El Khomri” promossa dal Partito Socialista. Migliaia nelle strade contro il Jobs Act francese. Scontri e fermi, mentre viene lanciata l’occupazione notturna di “Place de la Republique”

In tutto l’hexagone sono più di 250 gli appuntamenti convocati. Da Marsiglia a Nantes, da Rennes a Toulose e ancora oltre, la richiesta è molto chiara e semplice: il ritiro senza condizioni della legge! Nella capitale, Parigi, non smette di piovere da due giorni, ma questo non ha impedito a più di 80.000 persone di scendere in piazza.

I numeri della mobilitazione sono altissimi, e chi guardava a questa giornata come un banco di prova per il movimento non può che rimanere soddisfatto. Si scende infatti in piazza per la quarta settimana consecutiva: il primo appuntamento era stato quello del 9 marzo. Le prime cifre dei sindacati parlano di più un milione di persone mobilitate, con picchi di adesione allo sciopero nel settore dei trasporti, in quello pubblico, nel commercio e infine nella logistica, ma in piazza quello che fa davvero la differenza è la presenza degli studenti: universitari e liceali in tutta la Francia, anche oggi, hanno dato vita al tradizionale rito dei blocages davanti agli istituti scolastici con barricate di secchioni e transenne.

In molte città la tensione con la polizia è alta, da settimane rimbalzano sui media video che ritraggono le violenze gratuite nei confronti dei manifestanti (come quelle a Parigi a Tolbiac o al Liceo Bergson nel 19esimo arrondissement) anche se la piazza è decisa a non farsi intimidire, non mancano provocazioni e alla fine della giornata il bilancio è di circa un centinaio di fermi.

Nei giorni che hanno preceduto lo sciopero generale di oggi il governo di Manuel Valls ha provato anche a giocare la carta dell’apertura e dell’ascolto nei confronti delle mobilitazioni, il cui effetto è stato molto amplificato anche dall’attenzione mediatica.

La legge, infatti, presentata il 24 marzo dal ministro del lavoro Myriam El Khomri al consiglio dei ministri, ha già subito rispetto alla prima versione alcune modifiche, che secondo il governo servirebbero a mediare con le richieste della piazza. Nient’altro che “ritocchi di facciata”, replica invece la più parte degli esponenti del movimento, ed effettivamente questi piccoli aggiustamenti non cambiano di una virgola il senso complessivo della legge, in tutto e per tutto simile a quelle già approvate in altri paesi europei (Germania, Spagna, e in ultimo in Italia con il Jobs Act).

Tra i punti più contestati della legge c’è sicuramente quello che riguarda l’inversione di gerarchia delle norme sul lavoro. Con questa legge saranno infatti nettamente favoriti gli accordi interni alle aziende anche quando in contrasto con gli accordi collettivi o di categoria.

8edaa19f-dfab-4f26-a0ae-85ee48cdb389La legge El Khomri prevede la possibilità anche per i sindacati più piccoli (NOTA // che devono rappresentare almeno il 30% dei lavoratori) di farsi promotori di accordi con le aziende attraverso lo strumento del referendum aziendale. Una misura pensata per favorire gli accordi delle aziende con i sindacati padronali ( come ad esempio la CFDT, che ha già ritirato il suo no alla riforma) e che è un vero e proprio attacco alla democrazia sui luoghi di lavoro. Nella congiuntura della crisi economica possiamo immaginare a quali tipi di pressioni economiche potrebbero essere esposti i lavoratori chiamati a esprimere la propria opinione, ad esempio sotto minaccia di una possibile delocalizzazione.

La legge prevede poi un’estensione dei cosidetti “licenziamenti economici”, non più possibili solo per la chiusura di attività o per la riorganizzazione interna necessaria alla salvaguardia della competitività, ma anche per un semplice abbassamento degli ordini e delle commesse per periodi anche molto limitati di tempo (3 mesi).

Infine la legge conserva anche l’intenzione di indebolire il regime delle 35 ore (il tempo pieno francese) permettendo di superare più facilmente la “durèe maximale” dell’orario di lavoro fino a un massimo di 48 ore a settimana e eliminando di fatto tutti i vincoli esistenti per il tasso di maggiorazione del salario delle ore supplementari (oggi 25% per prime 8 ore e 50% per tutte quelle ulteriori)

Le similitudini con gli altri paesi europei sono moltissime, a partire dal fatto che anche qui la riforma viene presentata con l’obbiettivo di ridurre il tasso di disoccupazione (che in Francia è al 10,7% e coinvolge 3,57 milioni di persone) e favorire la crescita economica. Tornano dunque alla mente la legge Hartz in Germania, il “Decretazo” del governo di Rajoy in Spagna o il Jobs Act italiano, che hanno invece favorito la riduzione di tutte le protezioni contro i licenziamenti e livellato verso il basso la quantità delle indennità di licenziamento o di disoccupazione.

La vera differenza è che in Francia sembra essersi accesa una mobilitazione che non accenna a finire, che vuole obbligare il governo a fare marcia indietro e che promette di andare oltre il 31 marzo, fino al 32! Un segnale davvero molto interessante che rimette al centro del dibattito il lavoro non come variabile di aggiustamento del capitale, ma come terreno politico di affermazione di diritti. Già per questa sera in molte piazze del paese sono state lanciate iniziative di mobilitazione, e se il governo risponde di non voler tornare sui suoi passi, nuove date di mobilitazione sono già state lanciate per il 5 e per il 9 aprile. I giochi sono aperti, e nessuno sembra volerli chiudere qui.

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