[DallaRete] Neanche cinque minuti di vergogna
Applausi scroscianti per cinque giri di lancetta al congresso del Sindacato autonomo di polizia dedicati agli agenti riconosciuti responsabili della morte di Federico Aldrovandi. Tutti “mele marce” e “cretini”? Intanto emerge la storia di Riccardo Magherini, anche lui vitttima degli abusi della polizia.
Il 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi, un ragazzo di diciotto anni, viene massacrato di botte e ucciso senza nessun motivo da quattro poliziotti mentre stava tornando a casa. Dopo anni di favoreggiamenti, depistaggi e omissioni da parte dei loro colleghi che hanno tentato di coprirli in tutti i modi, vengono condannati a sei mesi di carcere. “Scontata” la loro pena, tornano in servizio nel gennaio 2014. Il 29 aprile 2014, a un congresso del Sindacato autonomo di polizia, un lungo applauso viene dedicato al valore dei “quattro colleghi”, perché è vergognoso che si condannino i tutori della legge. Cinque minuti di applausi, mani che si fanno rosse e qualcuno che quasi quasi si commuove pensando ai colleghi. Presenti anche gli ex ministri Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, l’inquisito per peculato Maurizio Gasparri e Lara Comi, che così rivela, oltre la nota stupidità, anche la sua gentilezza d’animo.Le istituzioni piangono le solite lacrime di coccodrillo, si sprecano i messaggi di solidarietà a Patrizia Aldrovandi e le condanne dei quei cinque minuti di applausi arrivano quasi unanimi.
Come mele marce vennero sempre definiti quei poliziotti che, alla manifestazione del 12 aprile, si divertirono a picchiare con gusto gente stesa per terra, forti del fatto che, grazie al loro abbigliamento, è molto difficile risalire alla loro identità. Quel giorno, in realtà, non ci furono, come molto spesso vertici di polizia e di partito vogliono far credere, gesti isolati di qualche “cretino”: le forze dell’ordine in toto attuarono una pratica di violenta repressione nei confronti di tutto il corteo, usando manganelli rigirati e colpendo a suon di calci e pugni al volto chiunque gli si parasse davanti. Come sempre accade però l’atteggiamento e il comportamento delle forze dell’ordine difficilmente è riconducibile al gesto di un singolo, ma si prepara in un clima e in humus ben preciso, organizzato e favorito dai piani alti. La differenza è stata che qualcuno è stato scoperto. Tanti altri, hanno agito impuniti al riparo dalle telecamere.
Come sono stati filmati gli assassini di Riccardo Magherini, morto per strada durante un fermo di polizia e i cui segni sul corpo non lasciano adito a nessun dubbio sulle cause del decesso. Dopo averlo immobilizzato, i quattro carabinieri hanno iniziato a riempirlo di calci all’addome e alla testa. A nulla sono valsi gli interventi dei passanti che hanno provato a farli smettere, anzi: l’azione intimidatoria dei quattro operatori delle forze dell’ordine, si è poi rivolta verso di loro, iniziando a minacciarli e chiedendo i documenti a chiunque tentasse di porre fine a quello scempio.
Viviamo in un paese dove se ti dovesse mai capitare di andare a una manifestazione o di essere fermato dalla polizia, non sai mai se riusciresti a uscirne con le ossa tutte al loro posto. O vivo. Lo sanno Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Aldo Bianzino, Niki Aprile Gatti, Carlo Giuliani. Lo sanno le donne stuprate nelle caserme. Lo sanno i migranti, su cui è più facile accanirsi perché giuridicamente più deboli. La retorica delle “mele marce”, dei “cretini”, non regge più da tempo ormai: per molti che si rendono protagonisti di questi atti di violenza e di questi assassinii, c’è dietro una cultura ben precisa dell’ordine pubblica e la garanzia della sostanziale impunità. Così è d’obbligo provare empatia, riconoscersi in quei poliziotti responsabili della morte di un giovanissimo ragazzo che rientrava a casa di notte. Perché si sa, un Federico Aldrovandi, sarebbe potuto capitare per le mani a tutti.
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