West Climbing Bank – Hebron

Hebron, al-Khalil in arabo. E’ forse la città più dura dove si possa osservare l’apartheid. Un posto diverso da qualsiasi altro posto in Cisogiordania: se infatti nel resto della West Bank le colonie israeliane sono a ridosso di villaggi e campi, a Hebron queste sono state invece inserite di forza all’interno della città vecchia, sottraendo edifici e case agli abitanti palestinesi.

Ci sono due momenti salienti nella storia della città: il primo risale all’Aprile del ’68, quando il rabbino Moshe Levinger e un suo gruppo di studenti chiese all’esercito di poter trascorrere la Pasqua nei luoghi santi per gli ebrei nella città vecchia. Si insediarono in una casa e da allora non sono mai più andati via. Il secondo è il 25 Febbraio 1994, giorno del massacro di Hebron, quando Baruch Goldstein, ex medico militare, entra nella moschea di Ibrahim (Abramo per gli ebrei) e compie una strage durante la preghiera, prima di essere poi linciato dai sopravvissuti. Da allora, dopo gli accordi del ’97, la città è divisa in due zone: H1, sotto controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, e H2 (circa il 20% della città), sotto controllo dell’esercito israeliano.

Come tutte le altre colonie israeliane nei Territori occupati, anche quelle di Hebron sono in espansione, dal centro storico sempre più verso fuori. Ogni insediamento è protetto da un vasto dispositivo militare: 2.100 soldati per 700 coloni. In secondo luogo, le colonie sono costruite apposta per aggirare la divisione H1 e H2: molte case israeliane sovrastano le vie dei mercati (che ora i palestinesi hanno dovuto coprire con griglie e teli per coprirsi sia dalla spazzatura dei coloni, sia dai cecchini dell’esercito), dove i coloni non possono legalmente entrare, in modo da permettergli di spostarsi dall’alto per la città; al tempo stesso, interi quartieri sono espropriati in continuazione. E per i pochi abitanti palestinesi rimasti all’interno di H2, la vita è sempre più difficile.

D. ha un negozio di fronte la moschea del massacro, al check point i soldati lo conoscono da anni, eppure è costretto a subire decine di controlli e umiliazioni ogni giorno. “Tutte le volte che passo da lì devo controllarmi, per non reagire alle provocazioni”. Non solo: “Le colonie e l’esercito israeliano bloccano le principali vie della città: per fare la strada che normalmente si attraverserebbe in mezz’ora ci si mettono quasi due ore”. Tutte le vie dei quartieri intorno a colonie e zone sotto controllo israeliano sono disseminate di telecamere. I nostri amici palestinesi ci danno un consiglio: “Non smettete mai di sorridere”.

D. è finito in prigione la prima volta a 12 anni, perché aveva difeso un suo amico dall’aggressione di alcuni coloni: “L’esercito è qui per difendere i coloni. Tutte le loro violenze sono sempre ignorate, mentre la reazione dei palestinesi è punita con mesi o anni di prigione”. Qui infatti i coloni sono tra i più violenti ed estremisti dei settlers in Palestina: accettano di vivere in un contesto di ostilità e assedio psicologico permanente proprio perché qui, più di altrove, la colonizzazione è vissuta come un dovere religioso. Ogni sabato i coloni escono dai loro insediamenti e svolgono manifestazioni in cui rivendicano il pieno possesso di quelli che per loro sono i loro luoghi santi, dove spesso si lasciano andare a violenze e attacchi ai negozi arabi e palestinesi, protetti sempre dai soldati. Loro stessi hanno diritto ad avere una pistola e con gli anni anche un fucile, “per l’autodifesa”.

D. ci può accompagnare solo in alcune strade, mentre in altre dobbiamo andare da soli. Una di queste è la cosiddetta Ghost Town, all’interno della città vecchia. Ci si arriva lungo quella che i palestinesi chiamano “strada dei martiri”, una via larga dove si sono svolti molti episodi di resistenza contro l’occupazione e dove molti sono i caduti per mano dei soldati. Da un certo punto in poi il numero di edifici vuoti aumenta a vista d’occhio, fino a un check point dove l’esercito impedisce il passaggio ai palestinesi; inizia lì la “zona cuscinetto” voluta da Israele tra H1 e H2. E’ chiamata “ghost town” perché sono di fatto intere vie di negozi chiusi e case abbandonate, dove non abita più nessuno.

D. è stato 2 anni in Danimarca per studiare: “So benissimo che avrei potuto rimanere lì a farmi una vita, ma non ho voluto: la cosa giusta è tornare e rimanere. Abbiamo già commesso questo errore una volta, non dobbiamo ripeterlo”. Hebron/al-Khalil è una città dura e pronta ad esplodere, come avvenuto anche recentemente nell’ultimo mese di proteste. Quell’invito a continuare a sorridere non è solo per coprirsi dagli sguardi delle telecamere israeliane, ma anche il loro modo di affrontare la violenza quotidiana dell’occupazione.

Sana Saaida.

Hebron/al-Khalil, 1/1/2018

L’articolo

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *