Dove c’è la paura, lì c’è il compito. Verità per Ramy e Fares
Si sentiva sotto i piedi il catrame irregolare e ancora puzza di bruciato, di plastica. E infatti una piccola montagna di oggetti per metà sciolti, per metà integri, per dire la ruota di una bici, in mezzo alla strada, come un monumento. Pensavi: di sentirti per metà intero, per metà rotto e come a volte il paesaggio ci specchia o ci ripete. Alzavi gli occhi e all’incrocio tra via dei Cinquecento e via dei Panigarola vedevi due striscioni, uno viola e uno bianco, anzi color panna: “Ramy x sempre nei nostri cuori” e “Verità per Ramy”, sopra un mosaico di scritte. ACAB, magnt o’ pesc, FREE GAZA. Corvetto che ha sempre parlato affacciata sulle strade – penso al cancellato, sulla stessa via, “Brumotti è un tarzanello nel culo di un infame (tipo Saviano)” e sorrido. Tornare a casa tornando a casa ma fuori di te, allora. La puzza di fumo addosso come una colpa ed era un pensiero: cosa fosse successo davvero, se è naturale ormai morire a Milano inseguiti dai carabinieri come in un blockbuster hollywoodiano.
Insegno italiano e storia all’IIS (ex ITSOS) Albe e Lica Steiner di via San Dionigi, in Corvetto appunto. È una scuola dalla lunga tradizione antifascista, che però viene da tanti anni di gestioni reazionarie e, dunque, “tecniche” che sembrano averla addomesticata, politicamente parlando. Ma si sta riprendendo: da un anno esiste un collettivo (anche se confuso); è stata fondata una rivista studentesca (si chiama Sottobanco), qualche settimana fa un picchetto contro l’economia di guerra. Dalla metro gialla a scuola puoi andare per via Enrico Martini, poi Gabrio Rosa e quindi via dei Cinquecento, oppure per via Polesine, il mercato e via Pomposa. Per tornare vale il contrario: e così, senza rimandare, era un martedì o un mercoledì in classe, l’anno scorso, di fine novembre, agli alunni e le alunne di prima, di seconda, di quarta: avete sentito cosa è successo domenica notte, nel vostro quartiere? Vostro, per molti, suona strano, ma c’è chi annuisce senza annuire, piegando solo un po’ la testa, mantenendo fisso lo sguardo sulle unghie. Sì prof. No prof. Dico: due ragazzi non si sono fermati a un posto di controllo in Corso Como ed è partito l’inseguimento, è finito contro un palo in via Quaranta angolo via Ripamonti. Il ragazzo che guidava, Fares, è in coma. Il passeggero, Ramy, è morto sul colpo. I loro amici hanno messo a ferro e fuoco il quartiere per esprimere rabbia e chiedere verità e giustizia, perché non credono alla storia della “tragedia”, credono siano stati investiti dall’auto dei carabinieri. Un ragazzo di seconda alza la testa e dice: prof. ci sono pezzi del giubbotto di Ramy attaccati al parafango dell’auto, girano le foto girano. Lo sanno tutti qui in quartiere come è andata e comincia il dibattito, chiedo di aprire la finestra per cambiare l’aria pesante e invece c’è il gelo.



[In foto: commenti sotto al video di Milano In Movimento ripubblicato sul mio profilo TikTok]
Ogni persona che ha provato a parlare della morte di Ramy in pubblico, o che ha voluto leggere i commenti sui social sotto i post che riportavano la notizia, è dovuta scendere a patti con una cosa: la maggior parte delle persone esprime opinioni tremende, spaventose. Come “Ramy se l’è cercata”, “Se si fossero fermati all’alt dei Carabinieri non sarebbe successo nulla”, “Uno in meno”, “E se il motorino era rubato?”, “Se non hanno rispettato l’alt, nascondevano sicuramente qualcosa”, “è Fares il vero assassino”, “a quando il prossimo?” e via discorrendo. Ogni persona che ha provato a parlare della morte di Ramy in pubblico ha provato a capire i perché di quella violenza verbale, per lo più senza riuscirci. Senza riuscirci anche con i miei alunni e le mie alunne, con il loro cinismo fuori posto, asimmetrico. Ne abbiamo parlato per un anno, occupando ore e ore di lezioni, la volta che sul TG3 è uscito il video dell’inseguimento, il video della telecamera di sicurezza, le indagini per depistaggio, le due ricostruzioni, la condanna di Fares. Solo pochi giorni fa, M. mi dice, ormai in quinta: ma prof., uno dice che se lo meritava perché così tu non te lo meriteresti, e allora credo di aver capito. In bocca ai ragazzi e alle ragazze coetanei di Fares e Ramy ogni parola che riproduce la violenza è una parola di paura. Quindi un’intuizione profonda che rimane tale, che si dà risposte sbagliate.
(È chiaramente la propaganda di stato a contribuire alla produzione di queste risposte, ribaltando la direzione della violenza per capitalizzare in termini di consenso e irrigidirsi ancora di più, segregare ancora di più, continuare insomma verso la strada dell’autoritarismo è dell’integralità razziale. Il punto di vista di questo pezzo però osserva gli affetti, cioè le risposte emotive individuali come competenza politica).
Quando A. sostiene che dovevano fermarsi e non succedeva niente, che non avevano la patente e che per questo erano un pericolo per tutti gli altri, che la polizia faceva bene a inseguirli, è inutile intellettualizzare, rispondergli che il vero pericolo è stato prodotto dai carabinieri, perché il punto non è quello. Ti risponderebbe: e se fosse successo qualcosa? Il punto è la paura e proprio ripetersi, dunque, che non è successo niente, che non potrebbe succedere niente. È una preghiera narcisistica. Dirsi radicalmente diverso dalle vittime, scongiurare la percezione pervasiva di pericolo, ricacciare fuori di sé il terrore, alla fine consolarsi. A. sta dicendo: io la patente ce l’ho e mi fermo se mi fanno l’alt. Io non è che sto nascondendo qualcosa, devo fare in modo che non devo dimostrare nulla, devo essere integrato, così non può succedermi niente. Va da sé che funziona ancora di più se dietro a Ramy e Fares si costruisce una verità di potere, cioè una delle narrazioni razzializzanti a cui ci stiamo abituando: Corvetto come periferia pericolosa, “maranza” come persone pericolose, illegalità come natura (dunque, per sineddoche, lo straniero è il mostro). La stessa roba che innerva la creazione delle Zone Rosse, prima e dopo i troppi Decreti Sicurezza.
È così potente questa consolazione proprio perché in realtà parla di tutto il resto. Assume lo sguardo del potere per vedere, dalla stessa posizione, nell’altro da sé il nemico. Nell’illusione che la violenza sia la conseguenza di scelte sbagliate, che solo chi viola le leggi subisce la violenza delle istituzioni. Quindi che se ci si comporta bene ti attende un destino di felicità. L’illusione è individuare altro da sé nella razza (come dispositivo) e non nella classe.
Quando I. scuote la testa mentre parliamo di Ramy e Fares e gli chiedo perché, mi risponde che non ha senso parlarne, che è accaduto per una ragione e la ragione è che non si sono fermati, se si fossero fermati sarebbe andata diversamente. Guardate come è una preghiera, un piccolo rituale, che piega la temporalità a un fine ideologico. I. sta scuotendo la relazione di causa-effetto fino a poterla applicare, senza battere ciglio, a una catena di eventi tutt’altro che intoccabile: Ramy e Fares avrebbero potuto continuamente scegliere di fermarsi (ma in quella scelta c’era il determinismo della razza, quindi il Daspo, la revoca del permesso di soggiorno, forse il CPR), così come (o soprattutto, visto il ruolo) i carabinieri, valutando tra l’altro il reale pericolo, commisurando le azioni al reato. I. storicizza per evitare di pensare che la morte di Ramy sarebbe stata evitabile, perché questo vuol dire che chi esercita il potere in Italia nel migliore dei casi fa un errore di valutazione, nel peggiore persevera nella violenza. La pena di morte non esiste in Italia, ma per soggetti marginalizzati e razzializzati può esistere ed essere eseguita addirittura prima di un processo, legittimata da semplici sospetti.
È consolatorio pensare alla morte di Ramy come alla morte di un criminale, come se esistessero – ovviamente – “criminali” (una volta, prima di Basaglia, assieme ai “pazzi”) che in quanto tali vanno rimossi dalla società, quindi o chiusi in cella o ammazzati. Meglio ammazzati perché è il pensiero allo stato puro, senza mediazione. L’evento traumatico – poiché vedere la morte altrui è sempre un trauma, soprattutto se è violenta – viene riassorbito attraverso la razzializzazione, cioè la divisione, la separazione delle vite vissute di persone che, a dire il vero, non potrebbero essere dissimili.
Quello che cerco di scrivere e che impappino è che la violenza verbale che circonda, direi assedia, la morte di Ramy funziona per molte persone da difesa psicologica contro la violenza sistemica in cui siamo immersi. Dunque funziona da apologia di questa violenza sistemica. Dunque funziona come rimozione collettiva, dunque come paralisi dell’azione. Fa dimenticare a D., per esempio, che anche lui, diversamente ma allo stesso modo di Ramy, è oggetto di violenza quando sente freddo in aula in inverno, quando i suoi genitori non hanno come pagare l’affitto, quando – per uscire dalla logica del nucleo familiare, così limitata – il compagno di banco non può venire a scuola perché ha passato la notte fuori dagli uffici della questura per richiedere il permesso di soggiorno, e ti ritrovi a disegnare cazzetti su un banco vuoto. Fa dimenticare alla docente x i suoi anni di precariato, di stipendi arrivati monchi e in ritardo. O forse li integra proprio in quella carriera disegnata attorno a scelte esclusivamente giuste (immaginarie), che invece sono perlopiù ininfluenti. E via discorrendo.
Jung da qualche parte scriveva che dove c’è la paura lì c’è il compito: dove osserviamo la paura, lì c’è la strada da percorrere nella lotta politica (interpreto). È la formula per la partecipazione individuale nel collettivo. Significa ovviamente che nessuna giustificazione tiene per la nostra miseria, e pure: che è centrale capire attraverso quali forme siamo indulgenti nei confronti della violenza subita dagli altri. Quando la invisibilizziamo e come evitiamo che ricada su di noi. Significa capire come superare l’empasse, cominciare ad agire per cambiare le cose perché le cose non ci piacciono, come stanno.
Superare l’impotenza è anche ritrovarsi oggi in piazzale Gabrio Rosa alle 18, con un mazzo di fiori. Vuol dire guardarsi mentre viene appiccicata in via dei Cinquecento una targa irregolare a Ramy, ragazzo di Corvetto, laddove c’erano gli striscioni e ancora, se ci si concentra, le puzze di bruciato e plastica cotta. Vuol dire tornare al piazzale Gabrio Rosa e sottrarlo alle bugie, continuare a viverlo.


Qualche giorno dopo il 24 novembre 2024, ho chiamato mio padre e gli ho chiesto cosa avrebbe fatto se al posto di Ramy fossi stato io, piangendo. Mi ha risposto che non sarei potuto essere io, perché non ho la patente e perché sono italiano. Gli ho, sorridendo, detto che forse neanche Fares aveva la patente e gli ho ripetuto quanti italiani sono morti uccisi dalle forze dell’ordine. Che al massimo né Fares né Ramy hanno cittadinanza, un foglio che li destina alla precarietà esistenziale – che insomma l’italianità è una scemenza, che se una scemenza ci difende dal morire allora è tutto ingiusto. Mi ha detto Tesoro bello, non ti succederà niente, te lo prometto. E per la prima volta in vita mia a mio padre non gli ho creduto.
Demetrio Marra
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