L’educatore invisibile – L’operaio sociale al tempo del Covid-19

In questi giorni, così sospesi in un flusso digitale quasi ininterrotto, cerchiamo di mantenere un equilibrio tra il bisogno di comprendere e seguire il corso degli eventi e il desiderio di non immergerci troppo nel marasma di informazioni, analisi e dati statistici (questi ultimi peraltro quasi sempre incomprensibili).

Un dato però ci è sembrato di cogliere in quasi tutte le narrazioni: l’assenza pressoché assoluta dalla scena e dalla narrazione politica e giornalistica della figura dell’educatore.

Eppure in questo periodo le comunità per minori, le comunità psichiatriche, i servizi per i disabili, l’educativa di strada, l’assistenza ai senza fissa dimora, le residenze per anziani hanno continuato ad operare quasi a pieno regime, mentre i servizi di assistenza domiciliare hanno riconvertito la loro funzione in un senso maggiormente assistenziale come pure l’assistenza scolastica.

Il motto dell’educatore è “fare con quello che c’è”. Questo motto indica la volontà di non tirarsi indientro e provare a generare cambiamento e fornire supporto anche nelle situazioni educative più complesse, ma spesso si traduce nel fatto di essere disposti a lavorare a qualsiasi condizione, economica e logistica.

A più di un mese dalla chiusura delle scuole ancora non sappiamo quando e come verremo pagati. Molti di noi sono stati “riciclati ” per le spese a casa dicendoci che ci avrebbero fornito mascherine e guanti per svolgere il servizio in piena sicurezza, ma ci hanno dato due mascherine chirurgiche a testa. Ci stanno letteralmente obbligando a entrare in social e quindi a mettere da parte la nostra privacy e magari il nostro valore etico nei confronti di una tecnologia che possa essere usata anche a nostro discapito. L’ultima novità, ad esempio, è quella di seguire un certo canale in rete dicendoci che in questo modo la nostra cooperativa ci può fornire più facilmente contenuti pedagogici gratis quando sarebbe nostro diritto una formazione in merito, e delle ore di formazione pagata. Ci stiamo improvvisando video maker, ma purtroppo molti di noi non hanno connessioni internet e capacità in campo web. Quindi in questo momento sta guadagnando chi ha una buona connessione. A ogni richiesta di spiegazioni si appellano al fatto che noi educatori dovremmo, per quello che abbiamo studiato, essere in grado di fare un percorso educativo a prescindere se sia presenziale o virtuale. La differenza è che nei nostri percorsi di laurea non è affrontato in modo adeguato il tema della didattica e dell’educazione online! E soprattutto da contratto quello che stiamo facendo non è scritto da nessuna parte e quindi regolamentato in modo adeguato al momento di pagare le ore ai dipendenti.” (Gaia, educatrice, 4/04/2020)

 Gli educatori, gli operai del sociale, sono per la quasi totale maggioranza dipendenti di cooperative sociali, il così detto privato sociale o Terzo settore, che si finanzia attraverso i sistemi di accreditamento Comunali e Regionali e di un nuovo soggetto imprenditore, che disponendo di cospicue risorse, può indirizzare (e manovrare) la qualità degli interventi e la riorganizzazione complessiva in chiave privata del lavoro sociale attraverso una più complessa strategia di bandi mirati, ovvero le Fondazioni bancarie.

La sopravvivenza delle aziende del privato sociale dipende dalla capacità di essere competitive sul mercato dei bandi di accreditamento delle amministrazioni e di quelli erogati dalle Fondazioni bancarie, dove vince chi è capace di gestire il più elevato numero di “casi” al minor costo possibile. Con buona pace dell’educatore, che finalmente può tenere fede al suo motto: “fare con quello che c’è”

Gli educatori, in un certo senso, come in questi giorni gli operatori socio sanitari, gli infermieri e i medici per il sistema sanitario nazionale, incarnano l’ultimo baluardo e martire del defunto welfare italiano.

Questa figura opaca, dalla definizione professionale multiforme (la figura è stata normata solo nel 2017 con la discutibile legge 205 proposta dalla deputata pd Vanna Iori) paga lo scotto di essere la figura più prossima ai beneficiari degli interventi sociali, e quindi a doversi barcamenare per sopperire al vuoto ed alla desolazione culturale e progettuale ed alla carenza di risorse.

“La comunità per minori stranieri non accompagnati in cui lavoro ovviamente non ha mai chiuso, quindi noi non abbiamo mai smesso di lavorare in questo periodo. Siamo in cassa integrazione e stiamo facendo dei turni in una sede allestita vicino agli appartamenti dove i ragazzi possono venire uno alla volta a fare i compiti e poi siamo collegati con loro tutto il giorno e a qualsiasi ora via whatsapp per ogni questione. L’impegno maggiore è far capire la gravità della situazione senza far andare in ansia, dare tutte le indicazioni di sicurezza. Sono adolescenti da tutto il mondo, quindi non è così immediato, perché ognuno di loro ha le proprie regole di igiene personale oltre che differenti canali di comunicazioni preferenziali a cui si riferiscono! Finalmente, ad un mese dall’inizio di questo casino, ieri è arrivata una comunicazione ufficiale alle cooperative sociali da parte del Comune. Ci hanno detto che Emergency ha istituito uno spazio dove accogliere i minori e altri bisognosi che si sono ammalati. La cosa buona è che varie associazioni del Terzo settore stanno mettendo insieme risorse da scambiare. Per esempio un’associazione metterà a disposizione dispositivi informatici per permettere ai ragazzi di studiare da casa, perché ovviamente nessuno di loro dispone di un computer. Per le mascherine ci stiamo arrangiando da soli. Il mio coordinatore ha recuperato 50 mascherine chirurgiche dal suo dentista e le razioneremo nell’attesa che l’ordine che abbiamo fatto si sblocchi. Da Comune e Regione ancora niente.” (Antonio, educatore 21/03/2020)

Come ci ricordano gli autori dell’interessante cantiere di socio-analisi narrativa curato da Renato Curcio e pubblicato da Sensibili alle foglie nel 2014, dal titolo “La rivolta del riso, le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici”: “Il territorio in cui si svolge il lavoro sociale è ormai un luogo incerto e assai tellurico che non si lascia più attraversare facilmente da chi non aggiorna in tempo reale le sue mappe […] L’imprenditoria sociale, nata negli anni ’70 del 900 come impreditoria militante e valoriale, per inventare e costruire “relazioni di aiuto”, si trova oggi a dover affrontare una fase del capitalismo in aperta controtendenza rispetto a quella in cui essa aveva mosso i primi passi. Così, venuta meno la promessa dello Stato Sociale, alcune di queste imprese hanno chiuso i battenti mentre altre sono duramente impegnate a difendere il proprio mito originario, e ciò non solo per difendere sé stesse ma ancora più per difendere e tenere in vita la cultura che la aveva generata.”

L’invisibilità dell’educatore, la difficoltà di definirne contorni e confini professionali e quindi anche i diritti, è forse dunque il risultato finale di un lungo processo di smantellamento del welfare, un welfare sempre più privatizzato in cui ciò che conta è la possibilità di accumulare quote di plusvalore attraverso meccanismi di risparmio sui bandi da parte di amministrazioni, cooperative e consorzi, che sempre più si connotano come imprese capitaliste.

“Agli inizi il problema non era questo o quel gruppo di tossicodipendenti perché era il mondo che produceva il disagio. Il lavoro che si faceva andava allora a costruire una terza cosa: una risposta al disagio individuale e ai meccanismi di quel mondo che non funzionava e faceva del male alle persone. In tal senso era anche una risposta politica. Oggi questo orizzonte di valori è completamente scomparso. Le imprese che fanno lavoro nel sociale ti dicono che il problema non è nel mondo, ma nella persona. Questo è un salto valoriale a 360°, un salto che cambia tutto” (La rivolta del riso, a cura di Renato Curcio)

Questa risignificazione del malessere sociale come problema sostanzialmente personale, ci mette di fronte a un rovesciamento di sguardo denso di cupe implicazioni: l’organizzazione capitalistica del lavoro, prima responsabile e causa del malessere del soggetto verso cui viene attivato l’intervento, sparisce dalla scena.

Ed ecco che allora l’educatore è contenimento della marginalità, senza più possibilità rielaborative in chiave socio-politica.

Perennemente schiacciato sull’emergenza e sul quotidiano, in una dimensione di autosfruttamento, senza più margini di valorizzazione riflessiva, e di conseguenza di capacità di incisione culturale sul tessuto sociale del Paese.

L’ “educazione” in questo senso si trova smarrita, priva di autorevolezza, e connessa ad una figura di lavoratore sempre più precarizzata, opaca, trasparente, invisibile, incapace di rielaborare (come scienza pedagogica e come ambito di connessione dei saperi umanistici) la triangolazione tra le molteplici didattiche informali che la globalizzazione mette in atto, le sue rideclinazioni locali da parte dei soggetti educativi non formali, e l’apparato disciplinare dell’educazione formale scolastica.

Ecco che allora la precarizzazione e l’ andirivieni tra frammentate proposte di lavoro e condizioni sempre più ampie di marginalizzazione del proprio ruolo non fa che rimandare un’immagine dell’educatore (anche come meccanismo auto-rappresentativo) di SUPEREROE, processo peraltro analogo a quello cui sono sottoposti in questo periodo gli operatori del comparto sanità in prima linea nell ‘emergenza Covid-19.

Tale processo di mitizzazione però non fa altro che offuscare e nascondere le condizioni socio strutturali di un sistema di autosfruttamento come unica possibile soluzione per mantenere in vita quel poco che è rimasto di Stato sociale.

All’educatore invisibile, a questo punto, non rimangono che tre possibilità:

Perdere per sempre i propri confini professionali, accettando tutto e a qualsiasi costo, nella retorica della resilienza, lasciato alle sue vulnerabilitá;

Farsi sussumere nella consulenza elitaria e dentro la torre d’ avorio dell’ accademismo;

Trasformarsi in imprenditore sociale e imparare a sopravvivere a qualsiasi costo nell’oceano dei bandi tra miriadi di pescecani.

Oppure potrebbe decidere di rendersi visibile, rendere visibili le contraddizioni all’interno delle quali è costretto ad operare, rinunciare alla propria onnipotenza, costruire sinergie con tutti i soggetti precari, pretendere che un vero welfare rinasca dalle proprie ceneri, senza più imprese di privato sociale in lotta tra loro per le briciole, senza più eroi da martirizzare, decidere di smascherare cosa si nasconde dietro ai meccanismi e ai dispositivi che generano il disagio individuale, riconoscersi come soggetto fragile e precario in mezzo ad altri soggetti fragili. Perché, come ci ricorda il fiolosofo Paul B. Preciado, è attraverso la fragilità che opera la rivoluzione.

di Francesca Buscaglia e Pietro Cassata


Bibliografia:

“La rivolta del riso, le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici”, a cura di Renato Curcio, Sensibili alle foglie, 2014

“Il coraggio di essere sé”, articolo comparso su Internazionale il 14 Novembre 2018

https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2014/11/18/il-coraggio-di-essere-se

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4 risposte a “L’educatore invisibile – L’operaio sociale al tempo del Covid-19”

  1. Mariacristina Massarotto ha detto:

    Penso che ci vorrebbero i concorsi pubblici, o assunzioni dirette da parte dei Comuni, in modo da eliminare l’intermediazione delle cooperative, perché altrimenti il meccanismo precarietà e sfruttamento degli educatori non si interrompe..

  2. Federica ha detto:

    Sono educatrice di asilo nido alle dipendenze di una coop. sociale. Vorrei sottolineare ancora che i nostri utenti sono stati inclusi nella fascia di continuità 0/6 anni ma noi che ce li accompagnamo non abbiamo ancora identità. Siamo docenti? Siamo da considerare operai di aziende private? Chi siamo? In questo periodo non ho sentito accennare alla nostra situazione da nessun ministro o giornalista…è il momento di richiedere una manovra che stabilizzi anche noi…adesso…per entrare a testa alta a far parte del corpo docente…basta essere figli illegittimi della pubblica istruzione.

  3. Ilenia ha detto:

    Sn un ausiliaria in un asilo nido che lavoro alle dipendenze di una Coop.sociale. anche noi dovremmo essere in.qualche modo tutelate. Anche noi abbiamo dei diritti cm tutti.

  4. Paolo ha detto:

    Ho letto con grande piacere e interesse quanto è stato scritto.
    Grazie.
    C’è bisogno di questo genere di riflessioni, scrittura e proposta.
    Sembra che stia accelerando tutto verso il peggio, compreso “il lavoro sociale”.
    Osservo con impotenza a nuove forme di lavoro sociale, ben accolte e con disponibilità di risorse private e pubbliche. Dal diritto ci si appiattisce sempre più alla carità. Dalla relazione si è passati alla connessione, convincendosi (in buona e malafede) che funziona, che è uguale o addirittura meglio. Dalla militanza (categoria già di per se discutibile) si è passati al volontariato. Nuovo volontariato destinato a diventare una buona parte della forza lavoro (gratuita e/o retribuita) di questo nuovo lavoro sociale. Nuovo lavoro sociale che ha completamente messo da parte qualsiasi rivendicazione e riflessione sul welfare; anzi, l’ha sostituito. Nessuna contraddizione, nessuna fragiltà rivoluzionaria da far emergere

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