Lotte sociali a Berlino

“Make Amazon Pay!”. La mobilitazione contro lo sfruttamento forsennato cui sottopone i lavoratori il colosso dell’e-commerce

Berlino può rappresentare solo parzialmente l’anima industriale della Germania. Ma rispecchia molto bene il volto hi-tech del moderno capitalismo, la new economy. Un interessante punto di osservazione dal quale scattare una foto, per tracciare un quadro sullo stato del movimento antagonista, da una delle principali centrali del neoliberismo in Europa. La sinistra rivoluzionaria in Germania ha una lunga storia, figlia di due secoli di lotte sociali. E’ composta da numerosissimi gruppi, e ogni gruppo declina in modo differente questo DNA comune. Si tratta in fondo del paese natale di Karl Marx e Max Stirner, dove prima ancora che nascesse uno stato unitario maturarono le tesi materialiste, contro l’idealismo e il romanticismo tedesco. Una delle basi dell’anarcosindacalismo alle sue origini, ma anche il paese natale della socialdemocrazia, che ha tradito il proletariato a cadenza regolare in ogni occasione che la storia gli ha offerto. Il paese della rivoluzione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, e di tutto il movimento operaio, tragicamente repressi nel sangue. Il paese che ha subito il fascismo nella sua forma più esasperata, e che ha vissuto quindi storie di resistenza coraggiose e toccanti. Il paese dei due blocchi, della capitale con un muro che divide le vite della gente e l’anima della città, e che oggi trasmette stimoli, cosmopolitismo, apertura e disponibilità di spazio individuale. Tutto il contrario di ciò che un muro impone.

Gli anni ’80 hanno visto l’emergere di gruppi neonazi, catalizzatori del malessere sociale post-sovietico. Una risposta reazionaria al dirompente cambio di scenario, all’affermazione del capitalismo occidentale, al violento ingresso nel mondo globalizzato, alla democrazia liberale. Il già noto comodo e consolatorio richiamo ad un inesistente glorioso passato. Recentemente in uno dei musei sulla DDR, gestito da un istituto che si occupa della rielaborazione della storia del regime, sono stati introdotti dei seminari, offerti ai giovani, su cos’è l’estremismo di sinistra oggi e come contrastare questa scelta di vita. Un fatto interessante, perché dà un’idea del tipo di narrazione buonistico democratica che viene fatta della storia, in funzione di delegittimazione del dissenso odierno. In Germania il livello repressivo è molto alto e ogni occasione è buona per diffondere questa ideologia legalitaria, anche passando per il revisionismo storico e l’educazione. Gli anni ’80 sono però anche gli anni degli Autonomen, identificati dalla polizia tedesca con il termine Schwarzer Block. Questa metodologia di conflitto in piazza verrà ripresa a Washington nel ’91 e ’92 contro la guerra in Iraq, e irromperà definitivamente sulla scena mediatica a Seattle nel ’99 durante la conferenza del WTO e poi al G8 di Genova con la definizione giornalistica di black bloc.

Ma una fotografia attuale deve tenere conto principalmente di due importanti avvenimenti: Le incandescenti giornate del controvertice G20 di Amburgo, tenutesi a luglio, e le elezioni presidenziali tedesche di ottobre. Queste ultime hanno visto la scalata del partito di estrema destra AfD, passato dal 4% al 12,6% in pochi anni. L’organizzazione, nata nel 2013, ha dato voce e riferimento organizzativo agli ultra nazionalisti, si presenta particolarmente pericolosa per i solidi legami con movimenti neonazisti insediati nella zona est di Berlino. Inoltre partecipa attivamente in Pegida (piccola organizzazione islamofobica radicale con accezione territorialista) anche organizzando iniziative e raduni nelle stesse piazze. Si caratterizza anche per la presenza fisica nelle strade e la rivendicazione all’agibilità politica.
I primi mesi del 2018 sono iniziati con diverse mobilitazioni antifasciste e un grande dibattito sui limiti (e punti di forza) emersi dalle mobilitazioni del G20 di Amburgo. Il 17 febbraio l’AfD convoca per voce di una donna curda una manifestazione nazionale sulla sicurezza. Immediatamente si mobilita la scena antifa, che lancia diversi presidi con l’obiettivo di circondare la piazza. Le modalità con cui l’AfD ha lanciato il corteo riflettono l’aspirazione modernista di questa nuova destra, che ha tra i principali leader Alice Weidel, una donna lesbica sposata con una svizzera originaria dello Stri Lanka. In una società multietnica come quella tedesca l’imperativo “produzione e consumo” supera anche le più antiche discriminazioni, almeno nell’apparenza. Durante l’ultima campagna elettorale, accanto ai manifesti sessisti che invocavano “+ bikini – burka”, spiccavano slogan come “la Germania ai tedeschi” affiancati da “la Turchia ai turchi” (in turco). Nella città che ospita la più grande comunità turca al mondo dopo Istanbul, sono presenti la maggior parte dei gruppi sociali del paese d’origine, i lupi grigi (fascisti con legami paramilitari, islamisti conservatori) sono una realtà con cui anche i compagni solidali col Rojava devono fare i conti. Possiedono negozi, locali, una rete commerciale e malavitosa radicata. Sono stati anche obiettivo di gruppi d’azione antifa, così iniziamo a capire come mai diversi nazionalismi si strizzino l’occhio a vicenda. Alla parata per la sicurezza del 17 febbraio l’AfD ha radunato da tutto il paese circa 800 persone, il percorso previsto era molto lungo e partendo dal centro mirava ad attraversare diversi distretti per finire a Kreuzberg, cuore della tradizione operaia di Berlino, oggi fortemente multietnico, pieno di graffiti, arte di strada, negozi gestiti da compagni e compagne, reti solidali. Il corteo dell’AfD ha in realtà percorso solo un breve tratto, 3 presidi non autorizzati gli hanno chiuso la strada a nord, est e ovest all’altezza del check point Charlie. La polizei ha tentato senza successo di spostare con alcune cariche i blocchi formati dalla gente. Dopo circa 3 ore di stallo l’AfD è tornata a casa con la coda tra le gambe.

Durante l’ultimo anno e mezzo si erano verificati alcuni attacchi da parte di nazi, anche in quartieri solitamente inavvicinabili come Neukolln, dove il cafè kolletivo ha visto sfondate le proprie vetrine. In questo clima si è svolta anche la demo antifa del 26 marzo, per protestare contro un ufficio dell’AfD a Schöneweide, nella periferia est. Ha sfilato in una zona meno attraversata da compagni/e, fermandosi anche sotto casa di Tim W. un neonazi noto e condannato per attacchi a posti e possedimenti del movimento e intimidazioni verso compagn*. Le modalità per frenare questi nuovi rigurgiti della reazione sono varie, è anche attiva una campagna che tocca la sfera dell’informazione. Ovvero propone un approccio inclusivo tramite la richiesta formale a diversi punti di distribuzione di riviste di non vendere il giornale “Compact”, dai contenuti notoriamente antisemiti e islamofobici. L’obiettivo è quello di intercettare dei responsabili di reparto di sinistra che tramite degli escamotage rendano meno visibile e appetibile la rivista nazipopulista. Fatto questo passaggio sono stati organizzati presidi di denuncia davanti ad alcuni negozi che continuano a favorire la diffusione dell’odio xenofobo.

Rispetto al G20 invece, la campagna “United we stand” continua a promuovere iniziative per supportare le vittime della repressione. In Germania anche i media mainstream hanno parlato del G20 e alcuni giornali hanno avviato una vera caccia all’uomo e alla donna, pubblicando i volti di manifestanti “sospetti”. Questo schiaffo allo stato di diritto, dove vige la presunzione d’innocenza, ha scosso anche molti democratici contrari al clima da far west. “United we stand” organizza presidi 24h fuori dal carcere, subito dopo gli arresti, offre tutela legale, diffonde informazioni sulle condizioni dei/delle compagn*, organizza spesso iniziative per garantire un sostegno continuativo, moltiplicando le sue energie in occasione delle grandi contestazioni. Riguardo la rielaborazione del controvertice va fatta distinzione tra le due grandi reti nazionali presenti in Germania, Ums Ganze e IL, entrambe provenienti dallo scenario autonomo e da successive spaccature e ricomposizioni. Interventionistische Linke si caratterizza per un maggiore utilizzo tattico della comunicazione e un’attitudine al contatto istituzionale. Ha organizzato l’assedio della zona rossa, che tramite diversi blocchi ha violato al divieto di accesso nell’area più militarizzata di Amburgo. Scopo principale far emergere l’arroganza del potere, disposto a tutto per difendere i suoi capi. Infatti alcune delle strade bloccate erano i punti di passaggio previsti dal percorso di alcuni Presidenti per giungere al meeting. La riappropriazione di pezzi della città, la disobbedienza civile al controllo dispotico dei corpi. Ums Ganze, più vicino alla scena autonoma, ha improntato il suo percorso di avvicinamento al G20 con un’analisi del capitalismo come sistema di produzione di merci e riproduzione di capitale. I flussi per la circolazione del capitale sono i vasi sanguigni del sistema, se bloccati lo mandano in tilt. Da ciò la grande attenzione al mondo della logistica, punto nevralgico per una strategia del sabotaggio e settore con un numeroso compartimento di classe, l’emblema della corsa verso il profitto. Questa corsa però è stata disturbata e interrotta, per un’intera mattinata, il 7 luglio, in occasione dell’azione di blocco del porto di Amburgo, uno dei più importanti scali di merci d’Europa.

Il danno economico è stato misurato nei termini delle decine di milioni di euro. L’azione di Umz Ganze ha portato in strada migliaia di persone dalle prime ore della mattina. I manifestanti con i propri corpi hanno bloccato il punto nodale della rete di collegamenti del porto, che si sviluppa come il delta di un fiume. I tir incolonnati e l’accumulo dei container sono stati l’inizio di una paralisi del commercio a catena. Su una scala abbastanza importante, per un periodo di tempo limitato.
Umz Ganze ha rinnovato la sua riflessione su pratiche di conflitto e metodi di intervento politico, anche con una profondità di analisi non indifferente. Ma questo livello non risponde necessariamente a un radicamento nei settori sociali dove è stato individuato il terreno dello scontro. Infatti il blocco del porto è stato organizzato e messo in pratica principalmente da miitanti, attivisti, solidali di tante zone della Germania, non si tratta insomma di uno sciopero indetto da lavoratori e lavoratrici dall’interno. Ma il caso di Amburgo forse è particolare, dato che si tratta di un grande evento, e in un luogo centrale per l’economia europea, ma questo tipo di mancanza e difficoltà risulta una delle principali lacune effettive. Infatti per quanto riguarda il mondo del lavoro l’elaborazione teorica è accompagnata da rivendicazioni portate dall’esterno, alcuni presidi e picchetti nel settore della logistica in città non hanno visto la presenza dei diretti interessati. Il protagonismo della classe subalterna rimane quindi uno dei grandi limiti del movimento antagonista, emerso in particolare ad Amburgo. Un buon lavoro di coinvolgimento dei lavoratori/lavoratrici nelle lotte è fatto dalla FAU, storico sindacato anarchico. Criticato in qualche caso per la sua intransigenza nel seguire il proprio percorso, ha come presupposto base la partecipazione diretta e solidarietà con le altre lotte, riuscendo ad essere attivo in diversi settori. Una delle principali mobilitazioni sul lavoro, dove sono impegnati diversi soggetti, riguarda Amazon, che ha a Berlino una delle principali sedi. Questa azienda impone ritmi di lavori isterici, con contratti precari e paghe al limite del salario minimo. Le meraviglie della pubblicità dipingono con allegria la retorica del servilismo rinnovata, che vuole i consumatori coccolati e incantati e i dipendenti asserviti e ricattati. A novembre la campagna Make Amazon Pay aveva lanciato una settimana di azioni, dal 20 al 26. 

Ora, in occasione dell’arrivo dell’amministratore delegato Jeff Bezos il 24 aprile, è stata indetta una manifestazione. Una delle proposte è di partire dal luogo destinato alla costruzione del Google Camp, per intrecciare le due tematiche. Il Google Camp è un progetto di start up incubator in pieno stile Silicon Valley, un enorme Hub dove esporre le meraviglie della tecnologia al servizio del moderno sfruttamento. Questo complesso di ex-fabbriche ristrutturate diventerà la testa di ponte della nuova narrazione del lavoro, che ha già mostrato le sue brutture con le pessime condizioni offerte dai più noti Foodora e Deliveroo. A Berlino sono circa 30.000 le persone impiegate in questo tipo di lavori, quindi non sorprende che si mostri come punta d’avanguardia nella digitalizzazione dello sviluppo economico. Come ogni carognata ben fatta, deve esserlo a 360°, quindi il Google Camp sorgerà proprio a Kreuzberg, già soggetto a un intenso processo di gentrificazione. Questo quartiere tradizionalmente popolare sta vedendo aumentati progressivamente gli affitti, fatto di non poco conto nella zona più densamente popolata di Berlino. La contestazione del Google Camp sta riunendo soggetti diversi: la rete anti-gentrification già attiva sul territorio, collettivi, soggetti meno radicali, ma sensibili al tema, che si incontrano in occasione del loro No Google Cafè, e realtà strutturate attente alle vicende cittadine, come Top-Berlin ( della rete nazionale Ums Ganze). TOP-Berlin (Teoria, Organizzazione, Pratica) è a metà tra un partito autonomo e il collettivo di un centro sociale. Si divide in gruppi di lavoro, che seguono varie tematiche o settori dell’organizzazione. E’ inoltre uno dei gruppi più numerosi e presenti in città, pubblica un magazine e collabora con la maggior parte delle realtà seguendo varie campagne politiche. Come la gran parte dei collettivi organizza eventi nelle decine di spazi solidali della città, dalle feste techno alle presentazioni di libri. Una delle peculiarità di Berlino infatti è la grande diffusione di spazi che sono a metà tra un locale, negozio, ristorante, cafè, club e un centro sociale o circolo politico. Questi spazi svolgono una propria attività economica oltre ad ospitare iniziative o assemblee periodiche di diversi collettivi, anche molto diversi tra loro. Così un bar diventa anche un punto di ritrovo per compagni/e, si sostiene con un tipo di frequentazione ben precisa, ma è un luogo aperto, attraversato da tipologie di persone differenti, oltre ad essere uno spazio “neutro”, un po’ di tutti i gruppi. Fatta eccezione per gli haus-progekt, altro grande universo, non c’è un forte legame territoriale che parte dagli spazi. Tutto nasce dai collettivi, dai progetti. Inoltre, un’altra grande differenza con la realtà italiana è l’assenza di occupazioni. Successivamente alI’ondata di occupazioni registrata dopo il crollo del muro c’è stata una grande fase di regolarizzazioni, anche la maggior parte degli squat hanno dei contratti, spesso a bassissimi costi. Ora la fase in corso è invece quella repressiva, ogni occupazione è immediatamente punita e dopo 3 mesi di mancato pagamento di un affitto (riguardo le case) si rischia seriamente lo sgombero coatto. Il movimento berlinese è molto variegato e frammentato, la maggior parte dei gruppi lavora per conto proprio e si connette agli altri per singole occasioni, campagne o temi, anche se da diversi anni ormai non c’è particolare astio tra le varie realtà. Sabato 14 aprile da Potsdamer Platz è partita una demo contro il caro affitti, e Top è stato presente con uno spezzone contro il Google Camp.

Anche la rete dei critical workers è attenta agli sviluppi delle lotte in città, è stata creata per aumentare la collaborazione tra le realtà che si occupano di lavoro e intercettare nuovi soggetti precari. A Berlino il peso del lavoro migrante è di rilievo, a diversi livelli di formazione, nei più disparati settori, alcuni in particolare. Gli italiani sono presenti soprattutto nel settore della gastronomia, il collettivo Berlin Migrant Strikers, tra i promotori dei critical workers, tiene uno sportello all’interno dello squat Basta, a Wedding (nord), dove offre soprattutto supporto e informazioni sul Job Center a partire dalle esperienze personali, in un’ottica di trasmissione dei saperi e autoformazione. Le riunioni politiche e organizzative invece si svolgono in una rosticceria a gestione collettiva, a Neukolln (sud), usata per autofinanziare i progetti, in perfetto stile berlinese.

I Job Center sono uffici creati nel 2005 in seguito alla riforma Hartz IV che ha introdotto il cosiddetto ALG II, una protezione sociale di base, illimitata nel tempo ma rinnovata di 6 mesi in 6 mesi. Sono decentralizzati rispetto agli uffici di Collocamento e dell’Agenzia Federale del lavoro, che si occupano di erogare sussidi e indennità di disoccupazione e sono regolamentati nell’ALG I. Ricevono anche sovvenzioni private, da parte di agenzie di formazione professionale, sindacati, agenzie interinali. Questa separazione dalle tradizionali agenzie di collocamento si poneva l’obiettivo di diminuire la disoccupazione, fornendo sia supporto nell’inserimento lavorativo sia erogando welfare. La transizione verso il workfare è passata per i minijob e una forte precarizzazione, ha permesso un maggiore disciplinamento della forza lavoro ed è stata commentata da Hartz come “un sistema che disciplina e punisce i disoccupati.” Il dibattito sul reddito di cittadinanza in Italia, ha rapidamente assunto i toni del reddito minimo, simile alla versione tedesca di 15 anni fa. Anche la proposta di Salvini di erogare reddito come prestito, a tasso d’interesse, è già prevista nell’ALG II, nel caso si venga identificati come soggetti antisociali. Questo collegamento è importante per ricordare il doppio filo che lega gli sviluppi politici in Italia con l’agenda europea, anche e soprattutto su lavoro e reddito. Proprio per questo la conoscenza e connessione con realtà che operano in altri paesi è fondamentale. Il capitalismo ha creato un mondo a sua immagine e somiglianza, tutti gli stati vivono con sfumature e tempi diversi gli stessi processi, osservare chi sta combattendo le nostre stesse lotte può offrire utili spunti. Per colpire insieme il nemico comune, ognuno dal proprio fronte.

Davide Viganò

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