Primo Maggio, su, coraggio – Una raccolta di contributi per il dibattito sulla #NoExpoMayDay2015
Abbiamo già detto che il Primo Maggio avremmo voluto vedere un altro corteo e questo è il nostro modo di stare dentro e vicini al movimento, incoraggiando a un’autocritica per noi essenziale. Per questo, di seguito, forti del fatto che tentare di restituire una complessità non significa rinunciare a prendere posizione, vogliamo creare dibattito raccogliendo i contributi critici che le varie realtà di movimento stanno elaborando in seguito alla giornata del Primo Maggio, selezionando accuratamente ciò che riteniamo dia spunti utili a gettare le basi necessarie per andare avanti ed evitando la banalità conservatrice e tutt’altro che rivoluzionaria di chi si erge a paladino e proprietario della rivolta, che – ahinoi – è al di là da venire. Lo abbiamo detto tante volte e lo ripetiamo: la radicalità non sta nel livello di saturazione del nero che si indossa. La radicalità sta nella profondità delle idee e nella capacità di penetrare terreni da cui raccogliere nutrimento e aprire spazi di agibilità. Che il dibattito sia ricco, severo, coraggioso, costruttivo. E ribelle.
La chiusura della diretta dal corteo di MilanoInMovimento
Chiudiamo qui la diretta di oggi.
Abbiamo iniziato la giornata raccontando una piazza che si riempiva di 50mila persone, di spezzoni pieni di gente e colori che hanno portato per le strade della città capitale della crisi le ragioni del proprio no a Expo e al modello di sviluppo che Expo mette in vetrina.
Il modello della deroga ai diritti di tutti per tutelare gli affari di pochi, il modello dei soldi pubblici finiti nelle tasche delle banche, degli speculatori, delle mafie che si aggiudicano gli appalti e finanziano il sistema, che sono parte integrante di un sistema al quale da tempo opponiamo le ragioni di un no che è fatto di contenuti, di costruzione di reti e percorsi di lotta.
Expo è stato, è e sarà per i prossimi 6 mesi la sperimentazione avanzata di quanto di peggio questo modello si sviluppo produce: nasconde dietro a un logo colorato e a un claim accattivante il finanziamento delle peggiori speculazioni, la cementificazione di ampie aree un tempo agricole a ridosso della metropoli, l’utilizzo di lavoratori sottopagati, stagisti, volontari (!), che devono lavorare in fretta perché la grande macchina è in ritardo e lo spettacolo deve andare avanti, sacrificando i diritti, la sicurezza, le vite di fasce di popolazione che già stanno pagando duramente la crisi e la disoccupazione, la mancanza case, di lavoro e di un welfare davvero universale.
Expo finge di parlare di alimentazione sana e cibo per tutti e poi costruisce partnership con i peggiori divoratori del pianeta, con le multinazionali dell’agroindustria, le catene di cibo spazzatura, i peggiori responsabili delle disuguaglianze del Pianeta. Parla di aiutare i Paesi poveri e fortifica chi sfrutta le materie prime e i territori delle aree povere del mondo, depredando popoli e natura, salvo poi cercare di respingerli quando bussano ai nostri confini affrontando viaggi nei quali forse moriranno, perché quel forse è tutta la speranza che gli abbiamo lasciato.
I media mainstream alimentano da mesi un immaginario di scontri e devastazioni a tutela della passerella di vip e politici piazzati nella vetrina dell’inaugurazione a chiacchierare di solidarietà abbuffandosi a spese dei soldi pubblici e dei beni comuni che diventano affari di pochi.
Noi crediamo nella contestazione, nel conflitto, nella radicalità dei contenuti e delle pratiche associati all’intelligenza, alla costruzione di consenso intorno ai contenuti. Crediamo nel conflitto agito da tanti e tante, nella costruzione quotidiana di pratiche alternative nel modo di vivere, intessere relazioni, fare politica nel territorio e nel mondo globale, costruire economie alternative e sostenibili.
Ci siamo trovati costretti, nostro malgrado, a raccontare un corteo che, bisogna che siamo sinceri, non avremmo voluto così. E ci vedremo costretti a raccontare di spazi di agibilità che si chiudono, di fermi, arresti e repressione, e questo frenerà la riflessione fra gli attori del movimento e farà sì che non ci esprimeremo, perchè di fronte alla repressione poi smettiamo anche di ragionare in nome della giusta solidarietà a chi viene colpito.
Noi crediamo però che qualche ragionamento dobbiamo pure farcelo. Perché anni di lavoro sui contenuti, di condivisione e di lotte oggi sono stati letteralmente spazzati via dalla scena pubblica, e se la stampa e la comunicazione mainstream hanno gioco facile a far vedere colonne di fumo nero che si alzano nel cielo della città e roghi di auto e negozi, e vetrine tirate giù, beh, qualcuno ‘sto lavoro di demonizzazione glielo ha reso davvero facile, e non abbiamo davvero niente da guadagnare dal totale isolamento nel quale ci ritroveremo, da domani, a fare politica nella nostra città.
E non ci interessano i commenti dei politici di turno o delle personalità dello stato, ci interessa la distanza che con questo immaginario scaviamo fra il corpo militante e la gente comune, fra chi ogni giorno mette il suo tempo e la sua fatica al servizio della costruzione di percorsi condivisi che ambiscono a diventare maggioritari e quel pezzo di cittadinanza che continuerà a pagare il prezzo della crisi, abbandonata dalla politica istituzionale e che tuttavia non capisce il senso di certe pratiche ed è sempre più lontana dal nostro mondo.
Abbiamo ripetuto all’infinito che la politica delle alte sfere non ha niente a che fare con la vita vera delle persone in carne e ossa e continuiamo a non essere capaci di costruire la connessione sentimentale con quei pezzi del Paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono di massa o sono condannate all’irrilevanza.
Non c’è riflessione a caldo che possa affrontare questi temi in modo approfondito e ampio, ma non possiamo chiudere questa diretta in un modo che sia diverso dall’esprimere la necessità di una riflessione sulle ambizioni, sulle pratiche e sugli immaginari, che già qualche tempo fa abbiamo provato a stimolare con un editoriale che aveva dato l’avvio a qualche ragionamento, e che dentro la redazione è tema di dibattito molto sentito.
Torneremo presto su questo tema con una riflessione più articolata, per oggi siamo davvero esausti, e chiudiamo qui.
La redazione di Milano in Movimento
Il comunicato di: Zona Autonoma Milano, Csoa Lambretta, Rete Studenti Milano, Casc Lambrate, Dillinger Project, Collettivo Bicocca
L’ATTITUDINE NOEXPO, NEL TEMPO E NEL FREDDO
DENTRO E OLTRE LE 5 GIORNATE DI MILANO.Si sono appena concluse “le 5 Giornate di Milano”: dal 29 Aprile al 3 Maggio, giorni intensi di lotta, scambio e autogestione, protesta, sconfitte e successi.
A distanza di alcuni giorni dalle mobilitazioni lanciate dalla Rete Attitudine No Expo, fra i comunicati che si susseguono, vogliamo prendere parola anche noi su alcune questioni che hanno segnato le piazze, cercando di uscire dallo steccato dei messaggi del movimento per il movimento, che non è stato e non sarà l’unica parte coinvolta nella lotta contro Expo. Abbiamo atteso questo tempo, perché ritenevamo importante affrontare prima un momento approfondito di restituzione e dibattito interno ai nostri spazi e collettivi, oltre che con la rete con cui abbiamo costruito, nel bene e nel male, tutto questo percorso.
Le valutazioni da fare non posso prescindere dal considerare già il 29 Aprile come apertura delle giornate di mobilitazione.
L’iniziativa antifascista nel settantesimo anniversario della Resistenza ha portato in piazza migliaia di persone. La determinazione e la chiarezza messi in campo dalla rete cittadina di “Fascisti e Razzisti no grazie” nel rifiutare chiaramente la parata fascista in ricordo di Ramelli, hanno creato una mobilitazione quanto più allargata e comprensibile possibile.Il 30 Aprile abbiamo visto una piazza studentesca animata a fine anno scolastico da duemila persone sulla tematica del rifiuto del lavoro gratuito. Per noi è necessario restituire alla giornata di mobilitazione studentesca l’importanza e il valore che ha avuto come prima data delle mobilitazioni cittadine contro Expo. E’ stata una mobilitazione interamente costruita da studenti, medi ed universitari, che ha saputo avere un respiro nazionale e anche internazionale, eterogeneo e trasversale. All’interno del corteo molte sono state le azioni dispiegate, tra cui ricordiamo il sanzionamento del Consolato turco per segnalare le vergognose politiche di Ankara nei confronti del popolo curdo, oltre ai comportamenti tenuti durante l’assedio dell’Isis di Kobane e un colorato intervento sulla facciata di Manpower, l’agenzia interinale che gestisce i “lavoratori gratuiti” per conto di Expo Spa. Queste e altre azioni nascevano e vivevano in un processo collettivo di ragionamento e condivisione.
Altro dato interessante che ci consegna la giornata del 30 è la presenza attiva, e segnalata da continui interventi dal camion, degli studenti di Berlino, Lipsia e Francoforte, segno che dopo Blockupy c’è una volontà comune fra molti in Europa di avere una maggiore convergenza e intreccio sul piano delle lotte. La giornata del 30 ha segnato un passaggio importante all’interno dell’opposizione ad Expo: in una Milano dove il marcio dietro al grande evento è stato occultato da una campagna propagandistica che ha tentato di sbandierare slogan senza sostanza, l’ampia componente studentesca rappresenta la possibilità di coinvolgere la cittadinanza attraverso la partecipazione dal basso e la costruzione di un agire politico comune.
Il mondo della scuola, sceso poi in piazza il 5 Maggio per una mobilitazione interna alla lotta contro la riforma della Buona Scuola, è ancora un terreno fertile per la creazione di mobilitazioni contro modelli di governo imposti dall’alto. Dalla mobilitazione nelle scuole, dal rifiuto del lavoro volontario e gratuito per gli studenti e le studentesse ripartiremo nei prossimi mesi di ExpoIl Primo Maggio Milano è il palcoscenico della ormai tradizionale della Mayday Parade, un corteo musicale e festoso che si è caratterizzato per la capacità di portare in piazza la voce dei lavoratori precari e non solo, in forme sempre nuove, conflittuali e inclusive. Negli ultimi due anni la natura di questa manifestazione è radicalmente cambiata. Con l’avvento di Expo2015 si è deciso di declinare questa manifestazione come momento di conflitto e contestazione al grande evento, oltre che alla precarietà delle vite di tutti/e.
Abbiamo deciso di opporci ad Expo perché rappresenta la fiera della cementificazione e predazione del territorio, della divulgazione di una tipologia di cibo che fa l’occhiolino agli OGM e alle multinazionali, del lavoro gratuito mascherato da grande occasione, della privatizzazione e del debito pubblico, della discriminazione dei generi, delle organizzazioni mafiose, delle tangenti e degli arresti dei suoi dirigenti.
Il Primo Maggio la nostra partecipazione si collocava all’interno di “Expo in ogni città” con lo spezzone “ScioperiamoExpo” con cui si intendeva mettere in questione specificatamente alcune dimensioni.
In primo luogo la vertenza sul lavoro ai tempi di Expo e quindi l’esposizione concepita non come un grande evento, bensì come paradigma che si impone confermando la precarietà come dato strutturale. Expo è promotore di quell’economia della promessa in cui i lavoratori accettano qualsiasi condizione nella speranza di un’esistenza più stabile.
Questo nei cantieri Expo si è tradotto in un aumento incessante dei ritmi di lavoro e nell’annullamento dei diritti, anche in relazione alla tutela.
Per questo abbiamo voluto ricordare Klodian Elezi, il giovane lavoratore morto a causa delle inesistenti condizioni di sicurezza sul lavoro nei cantieri della Teem.
Il percepire Expo come paradigma di un modello di governo del territorio non può non considerare la dimensione europea in cui si colloca. Expo rappresenta un modello di falsa crescita e sviluppo: mentre un comparto pseudo-industriale si arricchisce sulla devastazione della città e della sue dimensioni sociali e popolari, dall’altra parte aumenta il debito a causa dell’ingente investimento di soldi pubblici. Questo modello è pensato per abbattere la possibilità di uno stato sociale in grado di sostenere la popolazione: in un periodo di recessione come questo l’imperativo è tutelare la finanza a discapito dell’economia reale e del benessere collettivo, l’ordine è tenere in vita un sistema già fallito.Ci siamo diretti quindi al Palazzo delle Stelline sede di rappresentanza del Parlamento e della Commissione europea, obiettivo che si caratterizzava anche per un’urgenza di ordine morale: la messa in discussione delle politiche omicide dei governi europei che, in nome del consenso elettorale e dell’idea dell’Europa come una fortezza da difendere, abbandonano al proprio destino in mare migliaia di profughi e migranti. Si è collettivamente deciso di provare a raggiungere quella sede perché pensiamo che si debba costruire uno spazio europeo dei conflitti, che sappia mettere in crisi le politiche di austerity che stanno spazzando via un gran numero di diritti e conquiste sociali.
Abbiamo deciso di indossare le pettorine dei volontari Expo per raccontare il disastroso accordo fra confederali, Comune e Expo che sancisce la possibilità per una grande impresa privata di abusare di lavoro gratuito spacciandolo come volontariato.
Quest’azione è stata messa in campo in una cornice di condivisione e tutela del resto del corteo da parte di una pluralità di soggetti e collettività da tutta Italia e dalla Germania. Questo siamo noi e non smetteremo di portare con i nostri corpi il nostro dissenso, quando riteniamo calpestati i diritti.
Noi decidiamo con coscienza di colpire punti sensibili della città sede e simbolo di chi calpesta il bene comune per il profitto di pochi.
Lo facciamo con una presenza comunicativa che sappia coinvolgere e far immedesimare chi sfila in corteo per far sentire la propria voce.Se era doveroso dare conto di quanto le nostre collettività hanno messo in atto, non si può però omettere una valutazione più complessiva anche in merito a quella che è stata la dimensione più enfatizzata dai media. Innanzitutto, come già altri hanno scritto prima di noi, non riteniamo che quanto avvenuto nella piazza milanese sia ascrivibile allo stesso ordine di eventi di Baltimora, Ferguson o di una novella piazza Statuto. Non abbiamo visto una composizione sociale esclusa dalle dinamiche classiche organizzative prendere parola passando ai fatti.
Qualcuno parla di rabbia e rivolta, per noi non c’erano né l’una né l’altra.
Pochi mesi fa, come se non bastassero 7 anni di austerità, l’articolo 18 è stato abbattuto e il Jobs Act ha fatto ulteriore carne da macello dei lavoratori. Le reazioni, a livello di conflitto sociale agito quotidianamente, non sono state all’altezza del momento e purtroppo ci sembra che la situazione, in questi mesi, non sia cambiata in meglio.Quella che si è dispiegata in tutta chiarezza nel corteo milanese è un’opzione politica che da tempo si affaccia sulle piazze italiane. Chi ha deciso di praticare questa scelta politica ha deciso anche di sorvolare completamente il livello della costruzione condivisa e di agire, consapevolmente, al di là delle modalità che si era deciso collettivamente di tenere, usando come paravento e artificio retorico una presunta rabbia sociale che stranamente si palesa solo nelle piazze strutturate.
Questa “rabbia” è andata a sovradeterminare le impostazioni politiche e di metodo di una rete eterogenea e includente quale è la Rete Attitudine No Expo, snaturando così il significato di un corteo con l’attuazione di pratiche che hanno ipotecato in maniera identitaria il corteo.Il problema per noi non sono le vetrine o le macchine distrutte, non sono le pratiche in sé, ma i ragionamenti e le elaborazioni: difficilmente possiamo immaginare un immediato futuro in cui si possa trovare un elemento che garantisca la mutua esistenza nostra e di chi si fa portatore di queste tesi, perché questa opzione si pone in maniera di forte incompatibilità con la nostra idea di movimento. Noi crediamo nella partecipazione, nell’allargamento, nella contaminazione, nella divulgazione, nel conflitto radicale, che non si può tradurre sempre e soltanto con il riot di piazza.
La nostra idea di conflitto vive nella costruzione di legami che sappiano rendere la complessità e tengano insieme differenze.
Pensiamo che la tutela delle persone che decidono di compiere dei pezzi di strada assieme sia un elemento cardine e non possa essere subordinato alla pratica di obiettivi.
Chi ci conosce sa bene che non siamo allergici alla conflittualità di piazza, ma questa dovrebbe sempre cercare di aprire spazi, mutare i rapporti di forza, rilanciare. Gli ultimi anni di movimento hanno visto alcune giornate in cui questa potenza si è dispiegata a pieno, anche in una città difficile come Milano.
Quando si torna sui posti di lavoro, nelle scuole e nei quartieri dove si vive quotidianamente e la reazione maggioritaria (tranne poche sacche solidali “a prescindere”) è l’aperta ostilità, un’ostilità che altre volte non si era manifestata, è evidente che qualcosa non ha funzionato.La giornata del 2 Maggio, passata in sordina, ha in realtà regalato differenti momenti di soddisfazione e, nel suo piccolo, di ripartenza per quanto riguarda la lotta contro Expo. La pedalata verso il sito e il pranzo sociale davanti a Eataly, messo in campo dalla rete di Genuino Clandestino, sono due esempi della risposta tematica e di contenuto a Expo. Mobilità sostenibile, contro mega-costruzioni e svincoli autostradali immensi quanto vuoti, al secondo giorno dell’esposizione. In piazza 25 Aprile, invece, cibo a chilometro zero, rispetto dei produttori e della terra, dalla produzione al consumo finale. Spettacoli musicali e la presenza dissacrante della Clown Army, che ha saputo ridicolizzare l’apparato poliziesco disposto a difesa di Eataly.
Non crediamo con questo di aver espresso meno “rabbia” con queste iniziative, non crediamo che la rabbia sia un’emozione a completo appannaggio di alcun*, di chi la esprime in un solo modo e soprattutto non ci interessa tanto la rabbia in sé, ci interessa tradurla in azione politica, in proposta intelligente e collettiva di alternative reali.Il 3 Maggio avremmo dovuto chiudere le giornate di mobilitazione con una grande assemblea di rilancio del percorso No Expo e dei sei mesi che ci aspettano. L’assemblea non si è tenuta. In quel momento, infatti, mancava il clima necessario; e tanto ci basta,
Ma domenica 3 Maggio alcune vie di Milano sono state percorse da un corteo silenzioso, se non per i proclami legalitari e perbenisti, che ha espresso la propria indignazione per quanto avvenuto in piazza il Primo Maggio ripulendo i muri dalle scritte e ha voluto così rappresentare il suo orgoglio di appartenenza alla città.
Nessuno tocchi Milano? E’ particolarmente fastidioso se detto da chi non ha mosso un dito per ridiscutere le nocività che il modello Expo porta. Vedere la propria città devastata da opere pubbliche inutili, da cantieri con conclamate infiltrazioni mafiose, la sottrazione di denaro pubblico dovuta a spese esagerate, corruzioni e tangenti, la distruzione del sistema di tutele contrattuali e dei diritti dei lavoratori, l’attacco generalizzato al diritto alla città di giovani, famiglie, anziani, non scalfisce il muro di indifferenza della popolazione meneghina. Sicuramente anche la Rete Attitudine ha le sue colpe, noi stessi abbiamo certamente perso tante occasioni di aumentare la diffusione e la comprensibilità dei nostri messaggi, ma esiste una condizione oggettiva di distacco dei soggetti dall’interesse comune, dall’interesse per “il comune”.
L’atomizzazione delle relazioni sociali, l’individualismo capitalista si è radicato così profondamente nello spirito e nelle abitudini delle persone, nel dibattito pubblico, da generare un triste cortocircuito.
In quella piazza domenica c’erano anche tante persone che hanno affrontato le mobilitazioni migliori di questi anni, o che sono più volte passate nei nostri spazi, o che si spendono talvolta in iniziative di “sinistra” oltre e fuori dai partiti. Comprendere e ricomporre lo scollamento di queste persone dalle motivazioni più profonde del No Expo; ricreare e rafforzare la comunicazione; eliminare la possibilità che un silenzioso corteo del genere si verifichi dopo una qualunque altra manifestazione, saranno i punti principali da aggiungere alla nostra lotta contro Expo da ora in avanti. In virtù della condivisione dei contenuti
Per noi le alternative a questo paradosso sono l’affermazione, la ri-affermazione dell’autogestione, la creazione di una vita comune e di un’alternativa fatta di discorso collettivo, reciproco aiuto e cura.
Con orgoglio ben diverso diciamo che noi “tocchiamo” Milano quotidianamente, nei nostri spazi, nei luoghi dei conflitti.
Perché toccare e intervenire è la nostra modalità di amare e rispettare la metropoli. Noi mettiamo tutti i giorni le mani su e dentro Milano, nei nostri spazi occupati e autogestiti, nei nostri progetti dal basso, aperti e attraversabili da tutti.Inoltre si torna a parlare di restrizioni al sacrosanto diritto di manifestare, anche attraverso il reato di devastazione e saccheggio, rispolverato ad hoc per questo tipo di occasioni e la cui applicazione è usata come deterrente.
Rigettiamo questa strategia general preventiva inserita in una dimensione liberticida; esprimiamo solidarietà e chiediamo l’immediata liberazione degli arrestati, prime vittime del clima creato ad arte dalla stampa e dai tanti esponenti delle istituzioni cittadine e nazionali.Insieme alla Rete Attitudine No Expo, ripartiamo dal due Maggio, per proseguire la lotta nei sei mesi di Esposizione ed oltre, nella proposta di iniziative, eventi, manifestazioni che portino alla condivisione vera e reale di una sempre più larga fetta di cittadinanza. Per riconquistare quel consenso che, anche grazie al lavoro dei media e alla loro visione parziale, è stato messo a dura prova. Facendo in modo che i nostri contenuti possano arrivare sempre chiari e non travisati da chi ha il potere di manipolarli.
Ripartiamo dal 20 Giugno giorno della No Expo Pride che avrà luogo a Milano.
Nel tentativo di appropriazione al diritto ad una città frocia e queer, libera da identità releganti e vetrine costruite ad hoc da Expo,dove la differenza non sia rinchiusa ognuna nel proprio ghetto ma sappia vivere e confliggere.Ripartiamo dal festival degli studenti che animerà il Parco Lambro e ridarà la parola agli studenti per riannodare il filo della discussione.
…E nonostante tutto saremo ancora No Expo, nel tempo e nel freddo
Zona Autonoma Milano, Csoa Lambretta, Rete Studenti Milano, Casc Lambrate, Dillinger Project, Collettivo Bicocca
Il comunicato della Rete Attitudine No Expo
Dopo la NoExpo Mayday, verso #alterexpo
Nella giornata del Primo Maggio, nella Milano di Expo 2015, mentre la politica e le multinazionali celebravano l’apertura dell’esposizione, un corteo di oltre 50mila persone ha sfilato per le vie di Milano.
La MayDay parade 2015, il tradizionale I Maggio dei precari, è stata declinata quest’anno in una prospettiva di opposizione ad Expo: acceleratore di dinamiche di precarizzazione, rasponsabile di devastazione e saccheggio del territorio, matrice di debito pubblico.
Un corteo composito quello che ha attraversato le vie di Milano: l’internazionale delle bande musicali, i comitati che si oppongono alla predazione del territorio, i lavoratori e le lavoratrici della Rimaflow, la rete di produttori di Genuino Clandestini, i movimenti di lotta per la casa, gli studenti e le studentesse, i precari e le precarie che non hanno rappresentanza, uno spezzone ampio del mondo del lavoro, gli antispecisti, la rete NoExpo Pride, i sindacati di base, le opposizioni all’ interno delle organizzazioni confederali e le sigle della sinistra radicale.
Tutte queste componenti hanno portato a termine il corteo in forma organizzata, attraverso pratiche comunicative per segnalare le nocività di Expo. I sette anni che hanno caratterizzato la storia della Rete non possono essere ridotti alla strumentalizzazione mediatica e politica di alcuni momenti del corteo, che ne hanno sovradeterminato l’impostazione collettiva e che poco hanno a che vedere sia con un’espressione di rabbia spontanea, sia con lo stesso percorso No Expo.
Come abbiamo sempre fatto, ripartiremo dai nostri contenuti: lo abbiamo dimostrato con la pedalata di ieri, 2 Maggio, che ha portato gli attivisti a girare attorno al sito Expo, nella penuria dei suoi visitatori, e con il pranzo popolare davanti a Eataly, che ha riempito Piazza XXV Aprile con il cibo di piccoli produttori agricoli, il suono delle bande musicali e la clown army.
Non siamo né opinionisti né giudici: di fronte alle dichiarazioni che evocano inasprimenti repressivi fino all’introduzione di daspo per future manifestazioni, noi possiamo dire con fermezza che nessuno sarà lasciato solo.
Abbiamo aperto una stagione di sei mesi contro ed oltre il grande evento, che passerà dal No Expo Pride del 20 giugno, rivendicando il diritto ad una città femminista, frocia e queer, e dall’ assemblea nazionale prevista per la giornata del 3 Maggio che sarà riconvocata a breve.
Il comunicato della Rete No Expo Pride Milano
No Expo Pride: né normali né sfruttate, tantomeno strumentalizzate (tira sempre più un casco che un pelo di fica)
Siamo parte della rete NoExpoPride e numerose abbiamo partecipato al corteo che si è snodato nelle strade di Milano in occasione della MAYDAY NoExpo.
Abbiamo riempito quelle strade con le nostre parole e i nostri corpi, convinte che una visione non mainstream sui generi sia fondamentale all’interno di un movimento che si batte contro la
devastazione e saccheggio dei territori, contro la precarizzazione selvaggia, contro la negazione dell’accesso ai servizi e ai diritti fondamentali.Siamo state in piazza, quindi, con le nostre modalità, con i nostri corpi liberati e queerizzati, con boa fuxia e ombretti glitter, con vagine giganti di cartapesta che abbiamo fatto squirtare sui muri di alcune chiese, in un parossismo di tutto quanto ci viene quotidianamente negato: la libertà autodeterminata dei nostri corpi. Rivendichiamo e proponiamo una pratica orizzontale e condivisa di percorsi che si incontrano e
costruiscono insieme.Questo è il contenuto della nostra pratica politica e questo ancora una volta ci viene negato da Expo con la sua visione della donna funzionale solo a procreare e nutrire il pianeta, con il suo utilizzo opportunista e strumentale delle soggettività omosessuali a fini esclusivamente economici, e allo stesso tempo con il patrocinio alla predicazione omofoba leghista e fanatico-cattolica.
Per questo rivendichiamo la nostra rabbia, che si esprime anche con la forza erotica, gioiosa e passionale dei nostri corpi in corteo, riappropriandoci collettivamente delle strade e delle piazze della città, tessendo relazioni e costruendo legami, con cura e con l’attenzione di andare avanti insieme, senza lasciare indietro nessuna.
Oggi ci troviamo a fare un bilancio, sapendo che in quella piazza sono state messe in atto pratiche che come primo, e per ora unico, effetto hanno ottenuto quello di neutralizzare la complessità del nostro messaggio e del percorso che ha dato vita a quella mobilitazione, e in questo senso ci sentiamo di dire che l’ha sovradeterminata. Responsabiltà dei media? Si, certo. Ma anche di chi sapeva che sarebbe successo e ha agito ugualmente.
Noi froce lesbiche trans femministe rifiutiamo la riduzione del conflitto alla logica del “grande evento” da dare in pasto ai media nella società dello spettacolo o alla competizione tra ceti politici più o meno rivoluzionari.
Per noi, il conflitto è invece una pratica quotidiana che politicizza interamente le nostre vite e i nostri corpi, che tende alla costruzione di relazioni sociali diverse fuori e contro il sistema capitalistico, che si nutre di gesti che desiderano allargare il consenso e le possibilità di soggettivazione politica, invece che restringerlo a “stili di militanza” insostenibili per l’ecologia dei nostri corpi e per le nostre vite massacrate dalla precarietà.
Non sarà la sovradeterminazione di pratiche testosteroniche, né l’indignazione da divano di chi giudica senza partecipare a fermarci, né tantomeno quella dei media e del potere costituito che è andato a nozze con uno scenario amplificato e strumentalizzato.Andiamo avanti, e lo facciamo a partire dalla totale e incondizionata solidarietà alle/agli arrestate/i post corteo, perchè il carcere non lo auguriamo a nessuno, consapevoli che non può che devastare le vita e produrre sempre nuovo dolore. scegliamo di dissentire, però, riprendendoci quello spazio politico oggi oscurato dal fumo del machismo e dai media, continuando ad occuparlo e trasformarlo con i nostri peli, i nostri corpi e le nostre parole che hanno l’ambizione di partire da sé per iniziare processi di cambiamento che portiamo avanti sia all’interno dei movimento che della società, con costanza e pazienza.
Rilanciamo quindi con forza i prossimi appuntamenti che ci siamo date
da tempo:17 maggio: in occasione della giornata internazionale contro l’omo-transfobia: PASSEGGIATA GAIA e Assemblea Pubblica Milanese. Le strade saranno libere solo quando ce le riprenderemo. Attraverseremo delle strade rese insicure dalla politica securitaria e militarizzante del territorio. I nostri corpi queerizzati le libereranno con una presenza colorata e favolosa.
20 GIUGNO: NO EXPO PRIDE! Parata queer attraverso le strade milanesi. Il nostro diritto ad autodeterminarci rivendicato con un serpente queer. Contro il pink washing di women for expo, contro la gay street contro ogni ghetto e costrizione che ci impedisca di accedere a una vita libera e a diritti riconosciuti.
Froce, lesbiche, trans e queer della Rete NoExpoPride-Milano
Collettivo Shora
Collettivo Lucciole
Collettivo Ambrosia
Collettivo Bicocca
Il contributo del c.s.a. Pacì Paciana
Prima e dopo il Primo Maggio
Le giornate di Milano richiedono una presa di posizione pubblica dato il nostro forte investimento nella Rete Attitudine No EXPO, che ovviamente condividiamo.
Un assunto di base: la giornata del primo maggio non doveva ricadere nella stantia logica del controvertice, dell’opposizione chiusa in una giornata, nella famosa “precipitazione”. Non ci piace nemmeno la sterile dicotomia oppositiva tra la passeggiata pacificatrice e l’estetica iconoclasta del riot.
Proprio per uscire dalla reiterazione di questo schema, che l’esperienza ci propone come generalmente fallimentare, i nostri sforzi sono andati verso la costruzione di un percorso che si opponesse ad EXPO non solo in una giornata.
Dopo sette anni di critica e di iniziative dei movimenti contro il modello del grande evento, la nostra attenzione al primo maggio era ovviamente molta, soprattutto perché fosse chiaro che dovesse essere una tappa fondamentale di un percorso molto più ampio e significativo.Percorso che abbiamo contribuito a realizzare ponendo l’accento sulle resistenze territoriali e che si è concretizzato nella costruzione dello spezzone “No EXPO in ogni città”.
Uno spezzone composito, dove hanno trovato spazio i comitati Acquabenecomune, No Pedemontana, No Canal, No TAV e tanti altri, dall’autodeterminazione alimentare di Genuino Clandestino, alla riappropriazione di Ri-Make e Ri-MAFLOW e, a seguire il lavoro, lo sciopero contro EXPO: questi i solidi contenuti della manifestazione.Venerdì scorso invece il riot narcisistico che è scoppiato nelle retrovie ha portato ad una sovradeterminazione delle interpretazioni: la logica del “tutto in un giorno” ha finito per prevalere sul percorso. Esattamente il contrario di ciò che era stato posto come necessità dalla rete che si era data appuntamento in piazza (e che, con buona pace di alcuni, era la stragrande maggioranza della partecipazione).
La spettacolarizzazione del conflitto, atta alla saturazione della sfera mediatica, ha fatto regredire la lotta riportandola entro le categorie previste dal sistema: nessuna rottura o rabbia diffusa e spontanea, ma la semplice riaffermazione della narrazione massmediatica che ha preceduto i giorni della Mayday.Sia ben chiaro: noi non condanniamo assolutamente le radicalità delle pratiche in sé, spesso le abbiamo praticate e poi rivendicate, prendiamo però atto di uno scarto che c’è stato tra una determinata pratica della forza (e non della violenza, che è del capitale) e il contesto in cui veniva attuata. Lo scontro a tutti i costi contro i simboli del capitale non è un vestito buono per tutte le occasioni e parlare di inizio di processi rivoluzionari è tendenziosa miopia, come se bastasse colpire i simboli della ricchezza per far scoppiare un processo insurrezionale. Non ci sono divisioni tra buoni e cattivi o inutili dissociazioni, ci interessano solo le scelte: tra il contenuto e la pratica, noi scegliamo il contenuto e ad esso subordiniamo la pratica. Nella piazza di quella giornata abbiamo visto altre scelte, che per la loro irriducibile differenza hanno generato uno scollamento chiaramente percepibile e troppo ingombrante per essere ignorato.
Una strategia di opposizione al paradigma EXPO, che sappia assumere un ampio orizzonte sia in termini di tempo che di spazio, ad oggi non sa che farsene di una Mayday di questo tipo.
Non c’è stato spazio nella giornata del primo maggio per un percorso di uscita costituente dagli schemi imposti dal sistema, per la costruzione di un’opposizione reale e diffusa ai modelli di EXPO, oltre la materialità dei suoi padiglioni e dello spettacolo circense che li caratterizza (tra cui ricadono le auto incendiate e le vetrine infrante).Ad oggi EXPO rappresenta ancora debito, cemento e precarietà, è ancora laboratorio di modelli di predazione e come tale riceverà la nostra ostinata e tenace opposizione con tutte le pratiche che riterremo necessarie.
Continueremo quindi nel percorso di connessione delle resistenze territoriali, identificando i dispositivi predatori e costruendo meccanismi di riappropriazione e redistribuzione.
Lo faremo partendo dall’opposizione allo Sblocca Italia, rilanciando l’assemblea nazionale del 24 maggio, e dal 20 giugno in occasione del corteo Noexpo Pride, ma sopratutto continuando nella costruzione della piattaforma di mappatura delle resistenze ribelli.net, partendo con l’inchiesta sulle nuove forme di lavoro gratuito e su come
contrastarle.Il primo maggio è passato, alla conta i danni risultano relativi, a chi ne subisce le conseguenze repressive va tutta la nostra solidarietà, il conflitto era iniziato prima e non si ferma sicuramente adesso.
Si è No EXPO tutti i giorni, si è No EXPO in ogni città.
Il contributo di Macao
Mayday Mayday
È il grido di soccorso in mare, il segnale internazionale per identificare un’immediata necessità di aiuto.COLPO DI SPUGNA
Continuiamo a pensare che l’uso collettivo della forza possa essere uno strumento rivoluzionario e che invece la vuota riproduzione, la sola estetica della lotta, sia oggi una forma sempre più funzionale al potere e alla sua narrazione. In realtà, lo sappiamo da tempo.
Allo stesso modo, potevamo prevedere un inasprimento di dicotomie semplificanti, che ci schiacciano, ed approssimano le nostre vite.
Quello che alcune centinaia di persone hanno messo in scena il 1° maggio, all’interno di un corteo di circa 30.000 persone, è il triste spettacolo dello scontro per lo scontro, che cancella con un colpo di spugna le ragioni delle molte e dei molti che hanno lavorato in questi anni per ricollocare la realtà aldilà della retorica di EXPO2015; della vetrina – questa sì, infrangibile – di una città perfetta dentro a un mondo perfetto. Ma è anche, e da qui vogliamo ripartire, lo spettacolo della nostra difficoltà ad inventare parole e pratiche aperte, contagiose ed erotiche, capaci di trasformare il presente, di immaginare la forza.
E questo ci deprime più di tutto.Due giorni dopo, con un altro colpo di spugna, la città è stata ripulita dalla violenza subita. “I milanesi amano cancellare quello che non tollerano”: si sente ripetere come un mantra rassicurante sui media.
Se si tiene conto della numerosa presenza dei molti che erano scesi per le stesse strade poche ore prima, si può parlare di un doppio corteo: il primo dell’invisibilità (rispetto ai contenuti della manifestazione), il secondo della cancellazione (del conflitto).
Una cancellazione che non sa distinguere un’auto in fiamme dalla scritta “Carlo vive”.Sembra che non ci rimanga, quindi, che goderci questi sei mesi di festa per Expo2015, cancellando dalla memoria il “nuovo” modello di lavoro che ci viene imposto attraverso il contratto dei volontari; dimenticando gare d’appalto truccate, mafie, debito e colonizzazione del territorio.
Cancelliamo a questo punto anche il problema della sovranità alimentare e della sostenibilità ambientale del nostro modello di crescita e consumo, ché “il cibo è vita” e i guastafeste, d’altronde, non piacciono neppure a noi.Ma se è improrogabile per chi pratica spazi e luoghi di conflitto interrogarsi sugli eventi, lo è anche, per le nostre vite, continuare a farlo sul grande evento, oltre il grande evento, sulle forme affermative e alternative che da tempo non riusciamo a generare davanti ad esso.
Rischiamo di perdere il fuoco e la sostanza, di rimanere schiacciati in un meccanismo di costruzione del discorso dettato da un tempo e da uno spazio, quello del grande evento, che è reale, ma anche distante, se paragonato ai quotidiani tentativi di assoggettamento e disciplinamento, sempre meno visibili e più sottili.
Doverci muovere in questa polarizzazione, tra estetica della lotta e estetica del grande evento, tra moralità e trasgressione, non ci lascia spazio, né respiro. La questione non è riconducibile solo al rifiuto della valorizzazione della legalità, che già oggi le istituzioni mettono in campo come panacea del conflitto, o della violenza, nelle forme in cui è stata rappresentata il primo maggio. La questione è non cristallizzarci in uno spazio, reale e simbolico, determinato dall’assenza: degli interlocutori contro cui si rivoge il conflitto e delle intelligenze con cui lottiamo.
Forse, la composizione del corteo del primo maggio, è un altro indice di questa “assenza”.
“Mayday Mayday”, rioccupiamo il conflitto!INVISIBILI E CANCELLATI
In TV, qualche giorno fa, un gruppo di bambini di tutto il mondo cantava in coro per l’inaugurazione di Expo.
Ci sembravano altre contraddizioni mascherate: l’ultra esposizione dei loro corpi a fare da quinta al discorso di inaugurazione, facendo precipitare nell’invisibiltà centinaia di profughi rimasti per giorni in attesa di un rifugio, per strada, in Porta Venezia.
I numeri forse sono inutili: ci attraversano da anni, li sentiamo ai telegiornali, li leggiamo sulla carta stampata.
Dal 1988 sono morte, lungo le frontiere dell’Europa, almeno 21.439 persone.
Dall’inizio del 2015 i morti nel Mar Mediterraneo sono quasi 2.000.
La Stazione Centrale è da sempre rifugio dei migranti; rappresenta un luogo di passaggio e di viaggio; come il mare. Saliamo sui treni, così come potremmo salire su una barca, se solo fossimo nati altrove. Ma non siamo noi, non sono i nostri corpi a transitare a centinaia sui barconi, non siamo noi a rovesciarci in mare, non sono le nostre vite a passare da un desiderio di libertà alla clandestinità e alla carcerazione.
Non siamo noi ad essere in pericolo.
Fuori dal luna park di Expo, il mondo attraversa Milano in questo modo.
“Mayday Mayday”!Questa notte, la proiezione sulla Stazione Centrale di Milano e in Via Carducci e la diffusione del segnale morse “Mayday Mayday” è metafora della necessità di riaprire una riflessione in grado di comprendere le forme del potere, reinventare le pratiche del conflitto e contagiare i corpi che lo agiscono.
E godere!
Il contributo di BiosLab, FuXia Block e Di.S.C
Il movimento è morto, viva il movimento!
Siamo abituati a guardarci indietro solo e soltanto per trovare nuove traiettorie future e così vogliamo fare anche per quanto riguarda quello che è accaduto in piazza il primo maggio.
Per noi Milano rappresenta un punto di rottura che ci fa interrogare complessivamente su cosa voglia dire essere e fare “movimento” in Italia e nel farlo non possiamo che andare oltre all’analisi di singoli fatti. Non è certo qualche auto bruciata a turbarci, in ballo c’è qualcosa di molto più complesso e importante. Alcuni mesi fa, intorno a un ricco dibattito sui rapporti tra i movimenti e l’ipotesi di una possibile proiezione “verticale” delle istanze, qualcuno sottolineava la crisi o addirittura la fine dei movimenti per come li abbiamo conosciuti negli ultimi 15 anni. Sapevamo che la May Day ci avrebbe dato dei segnali in questo senso. I segnali sono arrivati, e ci sembrano inequivocabili. Crediamo che il movimento, per come lo abbiamo immaginato negli ultimi anni, con quella fisionomia a cui ci eravamo tanto abituati, abbia cessato di esistere. A comunicarci questo intervengono almeno tre livelli di ragionamento.
Il primo ha a che fare con la preparazione dell’appuntamento.
Siamo arrivati alla piazza di Milano senza un percorso politico di sufficiente condivisione tra le varie componenti del “movimento”, questo ci sembra davvero innegabile. Premettiamo, ci teniamo davvero a farlo, che i compagni e le compagne di “attitudine no expo” hanno svolto un generoso e difficile lavoro di preparazione che poneva delle buone basi politiche e organizzative. Cerchiamo di essere molto essenziali su questo punto, le componenti militanti di quella piazza non hanno una reale tensione a interloquire, a parlarsi, a trovare i minimi margini per mettere in scena azioni coordinate o condivise. Ognuno per sé insomma, nell’attesa, a tratti irreale, di vedere cosa sarebbe successo una volta lì nella strada. Con la differenza che noi, con lo spezzone di apertura “scioperiamo expo”, abbiamo detto in modo trasparente quello che avremmo fatto e nel farlo abbiamo dato la priorità a non mettere 30.000 persone in balia delle nostre scelte. Questo non è stato fatto da altri che hanno secondo noi tracciato un solco tra pratiche di piazza autoreferenziali e “sovra-determinanti” e le soggettività che quella piazza l’hanno riempita. Il tutto è stato poi tendenzialmente rivendicato, nascondendo quello che per noi non è altro che autoreferenzialità, dietro l’argomentazione insostenibile di una rabbia sociale che in quel frangente si sarebbe espressa.
Noi abbiamo animato uno spezzone mosso dall’intento di indicare il luogo simbolico del distaccamento della commissione europea come coerente obiettivo sensibile e poi ci siamo preoccupati di tutelare le migliaia di persone che erano con noi da quello che stava succedendo dietro. Lo abbiamo fatto e lo faremmo altre mille volte.
Il secondo livello, quello che ci interessa di più, ha a che fare con quello che da tempo definiamo “tensione maggioritaria del conflitto”.
Qui siamo davvero all’anno zero. Per rispetto della nostra intelligenza politica non ci soffermiamo a commentare il tentativo di accostare i riot di Milano con i fatti di Ferguson, Baltimora e piazza Taksim, oppure quello di individuare il “pirla” di turno come soggetto emblematico di una ricomposizione possibile. Fuori da ogni stucchevole moralismo che lasciamo volentieri a Saviano e soci, quella modalità di scontro si presenta per noi poco comprensibile per quelle soggettività che vivono ogni giorni, sulle loro vite, i segni violenti di un modello di sviluppo che sta impoverendo a vari i livelli le vite delle persone. La soluzione proposta ci sembra non soltanto dannosa per una moltiplicazione dei conflitti, ma la più semplice: nell’incapacità manifesta, di tutti lo precisiamo, di evocare fenomeni di autorganizzazione e rivolta moltitudinanria, deleghiamo la rappresentazione, tutta simbolica ed estetica, del conflitto, a gruppi militanti appagati del fatto che il day after tutti certamente parleranno di loro. Che sia chiaro gli scontri li abbiamo fatti tutti nelle nostre storie, non ci siamo mai tirati indietro, ma lo abbiamo fatto in modo virtuoso e produttivo soltanto quando sono stati connessi con una composizione sociale che come minimo era in grado di comprenderli, di individuarli come la giusta risposta verso l’attacco alla vita che il capitale mette costantemente in atto. A proposito di scontri e della immancabile violenza della polizia e dell’apparato della giustizia penale, chiediamo a gran voce la liberazione di tutti i compagni arrestati in quella giornata. La battaglia per la libertà di movimento e la denuncia dei dispositivi repressivi è per noi un terreno comune che va al di là di ogni tensione critica su discorsi, pratiche e strategie.
Il terzo elemento rispetto al quale i posizionamenti sul campo sono molto diversi ha a che fare con il senso stesso della militanza, con il senso stesso di fare politica a partire dall’autorganizzazione dal basso. Il senso stesso del fare movimento dunque.
Cambiano le strategie di governance del capitale e le forme di sfruttamento, cambiano le necessità, i bisogni e i desideri dei soggetti, cambia la strutturazione delle nostre città e dei rapporti di forza che le innervano e noi rischiamo di riprodurre noi stessi dentro cornici identitarie invece di essere all’altezza delle trasformazioni in atto. Incapaci troppo spesso di prendere parola in tanti, muoverci, cioè “fare movimento” dentro la società, riprenderci la scena e mettere al centro il tema della vittoria. Non è certo la giornata di Milano che introduce questo tema, ne stiamo parlando da molti mesi e, dentro ambiti come lo “strike meeting”, stiamo già sperimentando uno stile di militanza, un modo di fare movimento radicalmente in discontinuità col passato.
Parliamo di una nuova metodologia che sappia rifuggire ogni spinta resistenziale o di “trincea”, che ci faccia definitivamente uscire da quel blocco che da anni trasmette l’idea che ci si debba affidare soltanto alle “aree”, alle “strutture” e alle “famiglie” e, nella migliore delle ipotesi, ad accordi e negoziazioni tra queste.
Dobbiamo andare oltre a noi stessi per come ci siamo immaginati finora, strapparci con coraggio a tutte le nostre derive identitarie che garantiscono al massimo l’autoconservazione e la sopravvivenza e in questo sapere parlare e costruire azione politica con gruppi e soggettività diverse ( non soltanto italiane, ma anche europee) mettendo al centro la tensione forte alla condivisione dei percorsi.
In questo senso quella della costituzione di coalizioni sociali ampie, anche con alcuni componenti sindacali più virtuose e radicali, non può non essere un’importante ipotesi sul campo.
Certo tutto questo, anche la ricerca di una “verticalità” che sappia dare più peso alle nostre istanze, lo facciamo, come abbiamo scritto in un editoriale alcuni mesi fa, sempre e comunque ripartendo da noi: http://www.bioslab.org/il-basso-lalto-e-lobliquo/
Le giornate di Milano ci indicano insomma la presenza di diversi sguardi sulla realtà che ci circonda, diverse attitudini nel fare movimento che faticano a essere ricomposti oggi in un terreno comune. Di certo, in comune, viste le condizioni attuali, sarà difficile immaginare di condividere delle piazze. Per scrupolo ribadiamo ancora che siamo del tutto disinteressati a giudicare singoli episodi in sé, poco stimolati a cercare di capire se sia più politicamente utile spaccare le vetrate di una banca o di un comune negozio, non può essere questo il punto. Più in generale non ci appartiene il fatto di giudicare le scelte altrui, non è sulla legittimità di queste che ci vogliamo soffermare. Le prese di posizione di questi giorni riaffermano e purtroppo cristallizzano però una spaccatura di cui bisogna, anche serenamente, dare atto e da cui bisogna ripartire.
Da un punto di vista più generale, è intorno alla tensione tra “processo” ed “evento” che si consuma questa incapacità di parlarsi, intendersi, e organizzarsi insieme.
Quando gli eventi in cui si esprimono forme radicali di scontro e conflittualità e i processi di cooperazione e di composizione tra soggettività diverse smettono di intrecciarsi e coesistere, allora sentiamo l’irriducibile urgenza di fermarci e di mettere sul tavolo la necessità di percorre strade nuove, di gettare via dispositivi organizzativi inefficaci e sperimentare nuove strade.
Se la prospettiva è la trasformazione profonda dell’esistente, se l’intenzione è quella di favorire l’organizzazione politica delle espressioni frammentate di rabbia sociale, animati dalla ricerca di una “rottura costituente” capace di lasciare il segno, gli eventi non possono che essere espressione, punto di precipitazione, di processi ampi e condivisi. I processi di lotta, attraverso confronti, discussioni, negoziazioni, contaminazioni e mediazioni tendono a produrre immaginari, discorsi e narrazioni comuni e l’evento, a questo punto importa poco quanto “radicale” dal punto di vista delle specifiche strategie di piazza, deve appunto esprimere le diverse sfaccettature di questi processi ampi e articolati intorno all’individuazione di obiettivi comuni. L’evento deve scuotere lo spazio pubblico con forza e permetterci di riprendere la scena, ma deve, già mentre avviene, proiettarci verso nuove traiettorie di lotta, aprire nuovi processi ancora più avanzati dal punto di vista dei discorsi, delle pratiche e dell’organizzazione.
L’evento senza processo costituente è pura estetica del conflitto, facile scorciatoia per chi si rassegna alla sconfitta. Il processo non sostanziato negli eventi e non organizzato è altrettanto sterile perché si consegna a un pericoloso determinismo che vede i frammentati processi di soggettivazione che innervano silenziosamente la società come autosufficienti nel produrre trasformazione e rottura.
Capiamoci, non è criticando in se, gli scontri e le fiamme che possiamo garantirci quelle forme di legittimazione larga che posizionano alla giusta altezza la barra che oscilla tra consenso e conflitto. Quello che chiamiamo appunto “tensione maggioritaria del conflitto” può materializzarsi soltanto grazie all’intreccio tra evento e processo, soltanto attraverso l’invenzione di nuove formule capaci di essere immediatamente decifrabili e comprensibili, anche nel “riot”, da quella rabbia latente e da quelle soggettività precarizzate e impoverite di cui tanto parliamo.
Una macchina bruciata il 14 dicembre a Roma o una bruciata il 1 maggio a Milano non si può in nessun modo rappresentare politicamente nello stesso modo. Quel giorno c’eravamo tutti quindi sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Evitiamo però di guardarci troppo indietro. Oggi abbiamo sensibilità diverse su come si possa ricominciare a fare movimento.
Noi abbiamo più domande che soluzioni, ma sappiamo bene come ripartire.
Ripartiamo dallo “strike meeting” e dai Laboratori per lo sciopero sociale, dalla capacità di quei percorsi di mettere al centro uno sguardo sulla realtà all’altezza delle sfide che oggi il capitale ci lancia e di sperimentare nuove traiettorie di lotta allargate che mettono al centro il tema della precarietà e della messa a valore delle nostre vite. Ripartiamo immaginando che intorno al concetto e alle pratiche del cosiddetto “sindacalismo sociale” si possa fare un salto di qualità nella battaglia decisiva, appunto quella contro le nuove forme di sfruttamento del lavoro vivo. Ripartiamo dalla convinzione che ci sia la necessità di connettere tra territori diversi lotte come quelle per l’autodeterminazione, per il reddito, per il diritto alla città e per un nuovo welfare, ma che tutte questi claim debbano necessariamente posizionarsi in una prospettiva europea e transnazionale.
Ripartiamo infine da Milano. Lo spezzone “scioperiamo expo”, che abbiamo animato insieme a centinaia di persone e che ricordiamo era uno spezzone europeo, ha saputo muoversi bene dentro la confusione di una piazza complicata, ha saputo individuare un messaggio politico che lo contraddistingueva e, cosa per noi molto importante, ha saputo, anche quando ha deviato verso la Commissione Europea, mantenersi connesso con il resto delle persone che stavano alla testa del corteo, è risultato decifrabile dagli altri nei discorsi e nelle pratiche adottate. È anche a partire da quello spezzone che vorremmo ricominciare il nostro cammino rimettendoci in discussione, come sempre, nella ricerca delle traiettorie migliori per allargare i fronti del conflitto sociale contro l’austerity e la governance europea della crisi.BiosLab
FuXia Block
Di.S.C
Il contributo dello SPC all’indomani della manifestazione del Primo Maggio a Milano
Partiamo dai numeri, non per mero calcolo statistico, ma perché rappresentano un elemento preziosissimo sul piano politico. Trentamila persone hanno manifestato contro il dispositivo Expo, contro i nuovi paradigmi di sfruttamento e finanziarizzazione della vita e dei territori, contro il modello di metropoli gentrificata ad uso e consumo del capitale, contro l’idea che a nutrire il Pianeta siano le multinazionali dell’agricoltura industriale.
Trentamila persone che esprimevano una composizione transnazionale ed eterogenea, che non si è fatta intimidire dal clima di terrore imposto sul “movimento No Expo” da governanti e stampa mainstream e dall’ondata repressiva scatenatasi nei giorni che hanno preceduto la manifestazione.
Trentamila persone non sono piovute dal cielo, che al massimo ci ha regalato oltre quattrocento lacrimogeni. Sono il frutto di un intenso lavoro che da anni è stato messo in piedi dalle realtà milanesi e che negli ultimi mesi è cresciuto di intensità, ha coinvolto tante realtà organizzate di movimento sia a livello nazionale che a livello europeo, costruendo un contesto all’interno del quale l’evento non è mai fine a sé stesso, ma parte di un processo che cresce nella pratica della democrazia dal basso.
Un lavoro che aumenta di valore, se lo collochiamo dentro l’oggettiva difficoltà che negli ultimi anni c’è stata in questo Paese, salvo rarissime eccezioni, di attivare un’opposizione sociale credibile, continuativa e di massa.
Come Spazio Politico Comune siamo stati parte attiva della mobilitazione milanese, articolata in diverse giornate e partita il 30 Aprile con il corteo studentesco, costruendo lo spezzone “Scioperiamo Expo”. Lo abbiamo fatto insieme ad altre realtà organizzate di movimento italiane ed europee e soprattutto insieme a tanti precari, studenti, migranti e working poors che hanno animato il percorso di avvicinamento alle giornate No Expo nelle varie città. Uno spezzone composto da circa 5.000 persone, all’interno del quale vi era una presenza internazionale, a dimostrazione del fatto che la dimensione europea dei movimenti e delle mobilitazioni sociali è un processo già in atto e che si sta sempre più consolidando. Proprio per questo lo spezzone “Scioperiamo Expo” ha deviato verso la sede italiana della Commissione Europea, perchè la UE ci affama, ci toglie diritti, umilia il lavoro e ha ridotto il Mediterraneo ad un cimitero.
L’obiettivo della Commissione Europea crea una continuità simbolica e materiale con la grande mobilitazione del 18 marzo a Francoforte, proseguendo quel percorso di destituzione dal basso della troika e di resistenza alle politiche di austerità. L’azione inoltre, nel modo in cui è stata costruita, attuata e gestita, dimostra che è possibile praticare forme di conflitto che sappiano parlare a tanti e tante, che siano leggibili, comprensibili, riproducibili e che agiscano per il comune e non contro di esso.
Il problema delle pratiche, infatti, non è semplicisticamente riducibile al nodo “del conflitto e del consenso”. Il consenso è un concetto limitativo perchè descrive un’adesione esterna e rischia di ridursi ad una condivisione passiva. Il problema reale è quello del rapporto tra conflitto e legame sociale: una pratica degli obiettivi che non riesce a tradursi in una dinamica costituente di legame sociale non esprime alcun conflitto. Una pratica degli obiettivi che sacrifica a se stessa, alla propria visibilità ed alle proprie gratificazioni i legami sociali, il senso di reciproca appartenenza tra chi ha già maturato la scelta di scendere in piazza e chi ancora, per le mille variabili della propria esistenza, rimane chiuso nel suo appartamento gravato dallo sfratto o dal pignoramento, non solo non esprime alcun conflitto, ma si traduce in un ulteriore fattore di frammentazione sociale e marginalizzazione.
Nei luoghi fisici e politici che conquistiamo con le nostre pratiche di lotta, come è stato lo spezzone “Scioperiamo Expo” nel contesto della manifestazione milanese, la salvaguardia del legame sociale, la sua ricostruzione, la sua ricomposizione intorno al conflitto in atto costituisce non solo una priorità, ma la ragione stessa del nostro agire collettivo. Tutto ciò che dissocia consapevolmente le pratiche degli obiettivi dal legame sociale non ci appartiene perchè non appartiene ad alcun processo rivoluzionario. La consunta retorica sulla rabbia sociale è oramai solo un argomento utile al grande circo mediatico che si alimenterà sempre di più delle “aree di sfogo” predeterminate ad hoc dalla polizia: d’altra parte l’utilizzo dei “circenses” in funzione del controllo sociale non è certo una delle novità renziane.
La differenza che intercorre tra chi vuole ricostruire legame sociale e chi, invece, individua nella sua rottura il proprio strumento di espressione, non è la differenza che intercorre tra buoni e cattivi, ma semplicemente la differenza tra ciò che cambia e ciò che conserva: una differenza incolmabile. Tutto il resto, sia che si parli di streghe o che si parli di fate, che si racconti di gnomi buoni o di folletti cattivi, non conta niente perchè si tratta solo di favole: possono essere raccontate per avere il ruolo del più duro tutore dell’ordine oppure quello del più fedele interprete di fantomatiche istanze insurrezionali, ma restano sempre favole che non hanno niente a che vedere con le drammatiche condizioni di vita di milioni di persone. Ed è su queste vite e con queste vite che vogliamo e dobbiamo agire, ricomponendo quelle lotte sociali che ci vedono protagonisti ogni giorno, dai nostri territori al cuore dell’Europa politica e finanziaria.
Spazio Politico Comune
Il comunicato del Centro Sociale Cantiere
Il fumo di un modello Expo convocato in nome del “Nutrire il Pianeta” e nelle mani delle multinazionali che il Pianeta lo affamano.
Il fumo del maquillage last minute utile a coprire i cantieri dagli appalti miliardari non ancora finiti, e tra 6 mesi gia’ in disuso.
Il fumo dell’indignazione di una giunta che dopo avere mandato a casa la partecipazione oggi chiama la cittadinanza a pulire la città, come perfetta occasione per ripulirsi la faccia.
Il fumo delle colonne di fumo dei “leoni” in azione per una oretta di “gloria” concessa da potere e polizie, ed ovviamente altrettanto strumentalmente esaltata da media e commentatori.
La sostanza di un mondo in balìa di interessi multinazionali e di un neo-liberismo feroce e selvaggio in guerra con l’umanità e con l’ecosistema.
La sostanza dei miliardi di euro gettati al vento nella ennesima grande opera solo utile a produrre un po’ di precarietà per tanti, grossi affari per pochi.
La sostanza di una Milano tradita da un laboratorio sociale promesso, fallito un secondo dopo la fine della grande festa arancione di piazza Duomo con la giunta così solerte nel prodigarsi nella chiamata a “ripulire” Milano quanto nel prodigarsi nell’impresa Expo, una mafia di interessi opachi per cui erano semplicemente necessari timonieri presentabili.
La sostanza di costruire reti, laboratori di condivisione di analisi e pratiche e’ un percorso costituente, sicuramente cosa molto meno facile ed esaltante che una pratica di spuria e mediatica “estetica del gesto”.
Sentiamo parlare di “violenza” indicibile, quella che avrebbe subito Milano il 1 Maggio 2015. Ma pochissima indignazione per Klodian, ragazzo, caduto da un ponteggio mentre lavorava a une delle infrastrutture di expo l’ 11 Aprile.
Perchè morire nel silenzio e a 21 anni non fa notizia nelle deroghe dei cantieri miliardari, come giustamente ricorda indignato il noto rapper nel mentre tutti cercano di metterlo alla gogna e semplificare ragionamenti irriducibili ai titoli ad uso e consumo del circo mediatico, già in funzione della prossima campagna elettorale meneghina.
E altrettanto meno capacità di indignazione verso un debito che non abbiamo scelto di contrarre, una casta di fatto inamovibile dalle poltrone e sempre intenta a garantirsi e riconoscersi. O nei confronti di una guerra oggi davvero globale e permanente, che indigna oramai pochissimi essendo diventata “normalità”.
Ci permettiamo quindi di affermare serenamente che in una epoca così feroce la “violenza” ci risulta essere ben altra cosa. Delle vetrine del centro non ci interessa molto, se non in relazione al fatto che non ci voleva particolare sagacia a comprendere le immediate conseguenze, nel contesto del Primomaggio. Non possiamo che “plaudire” gli “eroi” che hanno imposto le loro pratiche su un percorso condiviso da anni, spezzando l’imponente serpentone della MayDay e mettendo migliaia di persone e la tutela di un intero corteo a rischio in un gioco di “guardie e ladri” e ripetute provocazioni cui non sono seguite reazioni. Utile pratiche di idiozia ed utili idioti, l’elogio alla “intelligente e responsabile” gestione delle forze di polizia ne è la dimostrazione.
Quanto costano quelle vetrine? Quanto 1 minuto di mantenimento della casta delle poltrone della politica italiana? Quanto 1 ora di interessi della voragine del debito pubblico? Il costo delle vetrine è poca cosa, ma vale molto in funzione elettorale, tanto quanto il green washing dell’Expo.
Le tantissime persone in piazza, data la fase e dato il contesto e il clima nei giorni e mesi precedenti la mobilitazione, dimostra che un altro mondo oltre che necessario è ancora possibile. Per questo vale la pena provare, anzichè restare in casa, giudicare, commentare. La relazione possibile in una grande data di mobilitazione è un fattore insostituibile della capacità di cooperare e cospirare assieme. Per questo è necessario scendere in piazza. Ma i percorsi di alternativa, sono prima ed oltre una mera “data chiamata”. E ora che questa data è superata possiamo finalmente tornare a lavorare per produrre relazioni e territori resistenti, piccole o grandi laboratori di alternativa tra i tanti che ogni giorno vedono impegnati fuor di notizia persone ed attivisti intenti a difendersi dalla crisi, dal basso.
Una sostanza di pratiche…altro che fumo!
Note tra “addetti ai lavori” :
Getta fumo chi va affermando o addirittura scrivendo affermazioni del tipo “il blocco nero era innegabilmente lo spezzone piu’ numeroso, dell’intero corteo”. Per noi è e sempre sarà centrale la scommessa della partecipazione, e in tal senso il Primo Maggio 2015 a Milano è stato un grande esempio di partecipazione con tantissimi giovani in particolare in piazza, a dimostrare che nonostante la depressione qui un movimento ancora c’è. Partecipazione ampia e determinata che nulla ha a che vedere con la residualità di numeri ed irrivendicabilità di pratiche di chi si è voluto “rappresentare” ed è quindi ora rappresentato come “blocco nero”. Lasciamo perdere i numeri al massimo utili a confermare il distintivo di “avanguardie” dei pochi che han deciso di imporre pratiche, e giocare a mettere in gioco la tutela dei molti.
In relazione a quanto scritto da penne amiche. Non pensiamo il Primo Maggio sia nè la fine, e tanto meno l’inizio.
Non pensiamo il “blocco nero” abbia “asfaltato i movimenti”, la desertificazione sociale della “società civile”, “americanizzazione” delle forme della partecipazione ma anche della politica, lavoro, scuola, relazioni, culture è questione già nota, e vera ben oltre le soggettività delle reti “di movimento”. Ancor prima questione più vera per i soggetti classici della “politica” della rappresentanza, partiti e sindacati in primis.
E ci spiace molto vedere come fraterni amici da bravi indiani (metropolitani), cercando giustamente “segnali” nel fumo, finiscano con il fumo negli occhi giudicando il “Primo Maggio di milano come un inizio”. Con affetto diciamo che in quella giornata non vediamo alcun inizio, se non di Maggio.
Milano come Ferguson, Baltimora? Nello “spettacolo” del Primomaggio vediamo il limite di una scelta di pochi molto più vicini all’essere ceto politico più che alle rivolte sociali. E in generale nel “riot per il riot” laddove legittimo in quanto frutto di spontanea e disperata rivolta, vediamo in ogni caso il limite di una società depressa, dove ogni dissenso e sfumatura sono controllati e nientificati. Nulla quindi che ci renda felici. I “sociologi del riot” che citano Baltimora, Ferguson non colgono nulla del contesto, alcuna sfumatura della sottile ma vitale differenza con una societa’ il cui dissenso e’ ridotto al diritto ad attraversare le strisce pedonali con il semaforo verde ed un cartello di carta in mano.
E allora Kobane?!? Ecco ci sembrano assurdi i tentativi di lettura pro o contro il primomaggio di Milano (e i piccoli avvenimenti avvenuti) quale lente da cui leggere le rivolte del mondo. E vergognoso anche solo il paragone. Non è sufficiente l’eco di due botti per portare qui quell’esperienza di resistenza (questa sì suo malgrado eroica) e di autorganizzazione che è il Rojava.
I territori sono di chi li vive. Lo abbiamo detto tante volte, così come lo abbiamo imparato dalla ValSusa. E quindi lo stesso vale per ogni territorio.
Il conflitto e il consenso sono nodo centrale, da indagare ogni giorno, per quanto ci riguarda. La degna rabbia, come dicono in Chiapas, si organizza, si riunisce, si parla, si rispetta: la rabbia degna costruisce le fondamenta di un mondo nuovo.
Infine, non siamo per nulla stupiti. Che il limite della fase lo conoscevamo gia’. Cercando di superarlo ogni giorno, occupando, resistendo, producendo. Dal basso provando a darci futuro seminando alternative, a questo mondo di merda.
Oltre l’ipocrisia, per noi il Primomaggio è stato una data “dovuta”, in un processo che purtroppo abbiamo constatato direttamente da tempo come poco interessante. Anche evidentemente nella noia e tedio delle assemblee “verso”, chiuse su piccole logiche e prive di quella energia, forza e potenza capace di dirompere verso qualcosa di “oltre”, utile e nuovo. Come invece accade nelle migliori occasioni, quando l’onda sale e travolge…
Una proposta “oltre”, “alter” più che contro ci pareva già da anni una strada più interessante. Ma tant’è le cose sono andate diversamente. E nulla è definitivo.
…to be continued…Siamo una comunità ampia e il dibattito è in divenire.
Il contributo di Dinamopress
Lo spazio dei movimenti e la guerra simulata
Alcune riflessioni a freddo sulla May Day No Expo del 1 Maggio. Tra 30mila persone in piazza e la guerra simulata con le sue conseguenze, è necessario ora più che mai aprire una discussione sulla ‘forma movimento’ e sul suo spazio pubblico.
Alfano chiede di vietare le trasferte per i cortei, a Milano e in tutta Italia è caccia ai black bloc, meglio ancora se stranieri, la procura milanese ha aperto un fascicolo per devastazione e saccheggio, i telegiornali mandano in loop le immagini degli incidenti. Arriva il coro unanime di condanna e indignazione. Qualche immancabile sociologo d’accatto non riesce a trattenersi dal dire la sua, Saviano tesse le lodi delle forze dell’ordine. Un film già visto, ma con l’ossessione per il decoro che diventa soggetto politico della Reazione. Con quella sorta di riedizione della “Marcia dei 40mila” guidata da Pisapia, con leghisti e “democratici” che “ripuliscono” insieme la città.
Del fallimento di Expo, dei lavori in deroga e in scarsissime condizioni di sicurezza, dello sfruttamento intensivo, dell’ipocrisia delle corporation che affamano il pianeta si preferisce non parlare. Non ora, adesso è il tempo di costruire il nemico interno per nascondere lo scempio che sta andando in onda nella realtà: corruzione, infiltrazioni mafiose, il pubblico piegato agli interessi di pochi, i ricchi che diventano sempre più ricchi.
Venerdì 1 Maggio abbiamo partecipato assieme ad altre 30mila persone alla May Day No Expo di Milano. Assieme a molte altre realtà nazionali, europee e milanesi abbiamo costruito lo spezzone “Scioperiamo Expo”. Perché l’Expo milanese è soprattutto, per quanto ci riguarda, il paradigma dello sfruttamento del lavoro contemporaneo. Lo scellerato accordo sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil, istituzionalizza di fatto il lavoro gratuito, legalizzando forme di neo-schiavismo salariale. Expo come paradigma dell’economia della promessa, quella che ripaga in “esperienza”, utile per allungare il curriculum e arricchire il capitale umano, lasciando intatta la miseria quotidiana con il miraggio di un domani migliore. Ma che resta sempre un domani. Abbiamo portato in piazza i percorsi di autorganizzazione sociale dei precari costruiti dall’autunno ad oggi all’interno dei laboratori per lo sciopero sociale, nella mobilitazione contro il piano Garanzia giovani, contro il lavoro gratuito e sfruttato dentro scuole e università.
Dal corteo abbiamo deciso di staccarci per andare verso la sede dell’Unione europea, con l’obiettivo di denunciare le politiche neoliberiste e di austerità garantite dalla Bce e della governance della Ue, come già avevamo fatto lo scorso marzo a Francoforte nei giorni della mobilitazione di Blockupy. Qui ci siamo scontrati con determinazione contro l’incredibile apparato di sicurezza che ha militarizzato la città, portando gommoni e salvagenti per denunciare le responsabilità della Fortezza Europa nell’aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero. Abbiamo costruito uno spezzone europeo perché siamo convinti che ogni rottura del presente possa ormai darsi solo a livello transnazionale, misurando a questa altezza ambiziosa la sfida dei movimenti sociali.
Crediamo, però, di dover affrontare i nodi politici che la giornata ci consegna. Perché di nodi politici si tratta. Proprio perché non crediamo che quanto accaduto possa essere letto con la categoria del “teppismo”, riteniamo che questo sia espressione di una strategia politica e come tale vada trattata.
Per farlo è necessario prima di tutto sgomberare il campo da equivoci: chi ha praticato l’assalto ai negozi, a filiali bancarie e dato fuoco alle macchine in sosta, lo ha fatto in maniera organizzata, praticando un’opzione politica assolutamente legittima ma che non condividiamo e che crediamo non debba essere confusa con altre forme di espressione. È francamente ridicolo chi intravede, ogni volta, la ripetizione di una nuova “Piazza Statuto”, l’irruzione plebea di nuovi soggetti sociali che farebbero saltare le vecchie logiche organizzative del movimento. Il Primo Maggio a Milano non ha visto nessun riot o tumulto, non era Baltimora e neanche piazza del Popolo a Roma il 14 dicembre 2010. Noi, che al corteo c’eravamo, non abbiamo visto alcun “evento”, alcuna “eccedenza” né, tantomeno, alcuna “destituzione”. Forse, per la precisione, tutto l’opposto: nessuno spazio politico è stato aperto, nessuna identità, sociale o politica, è stata messa in discussione. Ognuno può rimanere comodamente ai posti di partenza.
Un corteo partecipato e plurale è stato cannibalizzato da parte di un’opzione politica significativa ma di certo non maggioritaria. Non ci dissociamo, non condanniamo quanto avvenuto, rispediamo al mittente le criminalizzazioni mediatiche, chiediamo la liberazione di tutti gli attivisti fermati e che andranno a processo nei prossimi giorni rischiando di pagare per tutte e tutti. Tuttavia, tutto questo non può far dimenticare che la potenziale politicizzazione di un campo sociale è rimasta chiusa nell’ambito della «pura amministrazione» di un fatto di piazza, uguale nei codici e nei simboli, nel dibattito stesso che ha prodotto, ad altri che abbiamo già conosciuto e che continuano a ripetersi uguali a se stessi a prescindere dal contesto e dagli obiettivi contro cui si lotta. Proprio come il neoliberalismo, toglie di mezzo qualsiasi spazio di organizzazione collettiva dei precari e dei poveri, così l’opzione politica emersa a Milano assume la “folla solitaria” come unico agente della trasformazione. Nessuno dubita che questa sia, propriamente, un’opzione politica. Abbiamo invece più di qualche dubbio che essa possa dirsi rivoluzionaria.
È sotto gli occhi di tutti quanto le elité capitalistiche siano oggi disposte a congelare le contraddizioni e le spinte alla trasformazione in una logica di guerra, per conservare i rapporti sociali di potere che si stanno consolidando nella crisi. Solo una cosa è per il capitale è preferibile alla guerra: la sua versione simulata.
Conviene però non chiudere qui la questione. Se è utile partire da una considerazione critica della giornata di Milano, pensiamo che questa debba riguardare tutti i soggetti che, in un modo o nell’altro, hanno dato vita alla manifestazione. Tempo fa, su questo stesso sito, avevamo provato ad alimentare una discussione pubblica sui limiti stessi del movimento italiano e delle culture politiche che lo compongono. L’abbandono di qualsiasi prospettiva strategica e programmatica ci era sembrata l’altra faccia della riduzione della forma-movimento ad un confronto asettico e auto-referenziale tra famiglie e aree politiche. La definizione di nuove sperimentazioni organizzative, la coalizione fra differenti esperienze di “sindacalismo sociale”, l’individuazione di ciò che è “fuori” dal movimento organizzato come il terreno su cui intervenire, ci erano sembrate l’unico modo per superare questo stallo. Una parte consistente del movimento ha intrapreso questa sperimentazione negli ultimi mesi, nella consapevolezza che essa comporta, necessariamente, l’abbandono di qualsiasi logica delle “identità”: il rovesciamento dei rapporti sociali si può agire solo “dentro” la società. Suscitare empatia ed essere intellegibili per aprire delle contraddizioni.
Non è certo il Primo Maggio a Milano ad averci fatto scoprire l’esistenza di queste differenti opzioni in campo. Il corteo milanese ci ha solo reso maggiormente consapevoli della loro crescente incomponibilità. Su tutti gli altri, per un motivo fondamentale: chi agisce la “guerra simulata” ritiene che, oltre sé stesso e i suoi simboli, vi sia uno spazio sociale già completamente colonizzato dal capitale. Che fra se stesso e il bancomat non ci sia nulla, tranne la magra possibilità di esprimere simpatia per l’uno o per l’altro. Per questo se ne frega del consenso. Per noi, invece, quello spazio di mezzo è uno spazio aperto, l’unico che conta perché oggetto di una contesa continua fra poteri contrapposti. È sulla possibilità di spostare i termini di questa contesa, di espanderla e di radicalizzarla, che si misura l’efficacia di un’azione collettiva. Quello stesso spazio che per noi deve essere attraversato da processi di politicizzazione e organizzazione, è lo stesso che rischia ogni volta di essere prosciugato e consegnato ad un gioco delle parti senza alcun residuo. Quando non aprire dinamiche di politicizzazione a noi avversa, come quella capitanata in questi giorni da Pisapia.
La giornata milanese, dunque, lascia sul tappeto, e rilancia con maggiore forza, la sfida per una trasformazione di ciò che comunemente intendiamo per movimento. Superati i commenti e le prese di posizione, è attorno a questa sfida che conviene
Il contributo di Connessioni Precarie
Questioni di prospettiva. Un giudizio politico su Expo, Mayday e dintorni
Il Primo Maggio è passato, lasciando dietro di sé qualcosa di più delle macchine bruciate, delle vetrine rotte, degli abiti neri abbandonati per strada. Oltre all’Expo trionfalmente aperta, il Primo Maggio lascia dietro di sé l’immagine plastica di un movimento che, nonostante sia riuscito a mobilitare 30.000 persone per la Mayday, si scopre politicamente impotente.
Alla fine è successo quello che tutti prevedevano, anche se molti avevano detto di volerlo evitare: la logica dell’evento si è imposta su quella del processo, della costruzione, dell’accumulazione e della condivisione di forza. Ora scoprire che i media mainstream si comportano da media mainstream è quanto meno fuori luogo. Ora il botta e risposta contabile sui costi di Expo paragonati ai costi dei danneggiamenti lascia francamente il tempo che trova. Ora risolvere tutto facendo appello alle ragioni della spontaneità arrabbiata è quanto meno insufficiente. Ciò che è successo non può essere risolto grazie a un’estetica del riot che non riesce a coprire i limiti collettivi di progettualità politica, anche perché la definizione corrente di riot si avvicina sempre più pericolosamente a quella di una rivolta magari intensa, ma istantanea e destinata a essere riassorbita senza particolari problemi dall’oggettiva e dispotica supremazia militare e simbolica dello Stato. Se il riot esiste solo nel giorno in cui avviene, a cosa serve il riot?
Sarebbe però limitativo ricondurre i limiti di azione politica che si sono mostrati in piazza solo a ciò che è successo in piazza. Forse vale la pena ripensare l’intero discorso prodotto per l’occasione dell’Expo negli ultimi mesi. A noi pare evidente che se, di fronte allo slogan «Nutrire il pianeta», la risposta è il veganesimo coatto di certi centri sociali, difficilmente si riesce a opporre un discorso globalmente efficace alle chiacchiere edificanti che scorrono e scorreranno attorno all’Expo. Evidente è invece la difficoltà di produrre un discorso politico all’altezza dell’occasione. Il movimento italiano sembra pagare un suo specifico e presuntuoso provincialismo rispetto al quale non è riuscita a stabilire un contrappeso significativo nemmeno la presenza attiva all’interno di reti internazionali, come è stata per molti di noi l’esperienza di Blockupy per la contestazione della Bce a Francoforte. Sarebbe necessario, infatti, cogliere l’occasione dell’Expo, in modo da sollevare e far agire argomenti in grado di opporsi pubblicamente alla celebrazione del cibo come merce globale. Invece non siamo riusciti finora nemmeno a lasciar intravedere un punto di vista precario, migrante e operaio oltre che sullo sfruttamento del lavoro dentro all’Expo, anche su un tema che non riguarda solamente come si mangia in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto chi mangia, quanto e quando in molte altre zone del mondo. Sarebbe letale prendere sul serio i proclami altisonanti di Renzi, che vogliono a tutti i costi fare dell’Expo una questione italiana. Abbiamo invece assistito a proposte e dibattiti su come dovrebbe essere Milano in questi sei mesi, su come ci si dovrebbe comportare nel cortile di casa, sulla dieta politicamente più appropriata. Il tema della città è oggi certamente centrale, ma lo è nella sua scala globale, non nel qui ed ora delle singole identità cittadine. Il grande capitale multinazionale costruisce una vetrina mondiale, coloratissima e frequentatissima, per dire che sì, c’è magari qualche problema, ma che a breve darà da mangiare a tutti. Noi, che non abbiamo nemmeno approssimato un discorso realistico sulla questione globale della riproduzione materiale dell’esistenza di alcuni miliardi di poveri, precari, migranti e operai, scambiamo quattro vetrine del centro di Milano per le vetrine «simbolicamente» più rilevanti. Che poi le vetrine prescelte e le azioni compiute siano sempre le stesse da anni, la dice lunga sull’indifferenza per un’occasione che dovrebbe invece essere colta, proprio per la sua complessità e per il suo carattere immediatamente globale.
Non stupisce dunque che ora, dopo la Mayday, ci troviamo a cercare il giusto equilibrio tra conflitto e consenso, in un modo che però rischia implicitamente di separarli. Ci sono alcuni che praticano il conflitto, per una rabbia più profonda o per una maggiore intensità politica, e altri che non lo fanno. Non si capisce bene se questi ultimi si trovino in una sorta di anticamera della lotta, dalla quale possono imparare come ci si dovrebbe comportare, o se invece sono ridotti semplicemente alla platea che dovrebbe approvare i comportamenti altrui. Parlare di consenso e conflitto ha senso nella misura in cui si sovrappongono quotidianamente e non vengono evocati solamente quando riguardano i comportamenti di piazza. Riservare il conflitto allo scontro con la polizia, con le vetrine e con le macchine non restituisce nemmeno lontanamente il livello di violenza e i sordi livelli di conflitto che si dispiegano quotidianamente nei luoghi di lavoro, sulle vie delle migrazioni e nei quartieri. Una violenza e un conflitto che non sono solo subiti passivamente, ma anche praticati con intelligenza e continuità. L’idea che un po’ di violenza di piazza possa servire da innesco a chissà quale presa di coscienza collettiva, così come quella che l’insorgenza di piazza sia l’unica forma possibile di espressione collettiva per le esperienze esistenti, sono semplicemente infantili. Il conflitto nelle piazze non può essere la rappresentazione esemplare di una conflittualità che si considera altrimenti assente o insufficiente. In questo caso saremmo di fronte all’espropriazione della possibilità di azione di massa e anche all’impossibilità pratica di costruire forme di conflittualità condivise.
D’altra parte anche sostenere che chi rompe tutto lo fa per una spontanea e incontrollabile rabbia, senza la pretesa di rappresentare nessuno, non si accorge che una simile individualizzazione dei comportamenti finisce per essere il rovescio, l’opposto simmetrico, dei comportamenti assolutamente individuali che il neoliberalismo pretende da ognuno di noi. Non è forse il caso di rompere con la condizione quotidiana di isolamento, invece di rappresentarla fedelmente anche durante le manifestazioni collettive? Ma già ragionare a partire da questa spontanea individualizzazione non coglie tutta la portata del problema. Qualche mese fa, prima dell’assedio e dei blocchi di Francoforte, è uscito un documento che annunciava il fallimento del movimento no-global e l’inutilità di ogni tentativo di costruire reti organizzative transnazionali, declassate direttamente a «reti solidali», così come chiunque provava a organizzarle era bollato come burocrate e con il marchio d’infamia di voler essere «ceto politico di movimento».
Ecco, secondo noi la differenza sta esattamente qui. Ed è a partire da questa differenza che ognuno deve assumersi le proprie responsabilità politiche. Qui non si tratta di dividere i buoni dai cattivi e nemmeno gli arrabbiati dai pavidi. Qui si tratta di evidenziare, e in caso discutere, una specifica differenza di prospettiva politica. Qui si tratta di dire chiaramente che c’è chi pensa che sia necessario costruire quotidianamente connessioni dentro le lotte e le molteplici figure che in esse si esprimono, anziché replicare attivamente l’individualizzazione altrimenti imposta. Qui si tratta di stabilire collegamenti non tra la propria singolare quotidianità e il riot di un giorno, ma tra le molteplici e disomogenee singolarità che ogni giorno sono costrette dentro e contro il lavoro precario operaio e migrante. Qui si tratta di ribadire che tutto questo non è possibile su un piano locale e che ladimensione europea è il suo minimo piano di sviluppo. Qui non si tratta dell’espressione immediata di un’identità sovversiva, ma dell’assenza di ogni identità consolidata e della difficoltà quotidiana per trovare forme collettive di espressione. Qui non si tratta di far esprimere qualcosa che già c’è, ma di costruire lo spazio per qualcosa che ancora non c’è, proprio perché ancora non riesce a trovare una forma collettiva di espressione. Noi pensiamo che questo sforzo verso il collettivo sia il primo punto all’ordine del giorno. Altri non lo pensano e si comportano di conseguenza. Sarebbe perciò il caso di smetterla con la facile critica dei giornali, con gli opinionisti occasionali che sono bravi quando ti danno ragione e canaglie quando ti danno torto, con il gioco incrociato delle citazioni.Sarebbe il caso di parlare seriamente delle prospettive politiche che si vogliono perseguire. Tutto il resto rischia di essere poco interessante e persino indifferente per i moltissimi che condividono la nostra condizione.
Il contributo di Communia
Alla ricerca di un (reale) conflitto sociale
Alla Mayday milanese si è mostrata in piazza una parte importante, determinata e determinante delle soggettività politiche e sociali che si oppongono alle politiche del governo Renzi e alle narrazioni sulle “magnifiche sorti e progressive” che si aprirebbero davanti al nostro paese grazie alla “politica del fare”.
Trentamila persone, dipinte dal Presidente del Consiglio e da media compiacenti come “gufi” fuori e contro la storia, come un pittoresco residuo che non riesce a intendere il cambiamento in atto.
Al contrario i trentamila in piazza hanno compreso bene la direzione del “cambiamento” imposta da questo Governo. E hanno compreso bene come l’evento Expo – per certi versi episodio “marginale” di fronte a quanto succede nel mondo – sia al tempo stesso simbolo e acceleratore (sul piano politico, economico e ideologico) di tali politiche.La rete milanese NoExpo da sette anni lavora, con tenacia e intelligenza, per demistificare l’evento, rendere chiaro quale sia il suo significato e quali conseguenze sta producendo. Un lavoro che ha prodotto riflessioni, analisi, denunce e che ha provato anche a far circolare proposte alternative, non all’evento in sé, quanto alla narrazione e alle politiche che accelera.
Non si può non vedere però che questo lavoro non è bastato a produrre un allargamento significativo della superficie di contatto con i soggetti colpiti da quelle politiche e che in diversi modi avremmo dovuto coinvolgere in maniera diretta e comprensibile: promuovendo pratiche di opposizione e strumenti per l’autorganizzazione e la partecipazione su obiettivi specifici. Un po’ sul modello di quello che abbiamo visto in Brasile per le mobilitazioni contro le politiche prodotte dal Mondiale di calcio. Ma la dimensione dell’autorganizzazione dei soggetti è stata del tutto assente, o quasi. È questo il primo problema che tutti ci dovremmo porre, antecedente alla dinamica fuoriuscita dalla piazza e che in parte ne spiega anche la difficoltà: come si radica socialmente la lotta contro Expo?Il corteo – anche uno importante come questo della Mayday – non è mai il momento principale e nemmeno il più importante in cui si pratica il conflitto, ma deve essere un piccolo evento capace di parlare non solo a chi vi partecipa ma anche, in questo caso, di svelare alla città la realtà nascosta dietro la campagna martellante dei media. Per poter poi rilanciare il conflitto e l’autorganizzazione contro le politiche di precarizzazione, cementificazione e debito imposte da Expo.
Tale rilancio dalla may day è stato evidentemente reso più difficile dalle scelte di una soggettività politica organizzata che ha voluto fare di quel corteo un momento di estetica del riot, imponendo una pratica di piazza dentro e contro la volontà della maggior parte delle donne e degli uomini che partecipavano.Non prendiamoci in giro. Ciò che si è visto a Milano non è stata una rivolta spontanea di un conflitto reale, ma la semplice rappresentazione scenica della rivolta, la manifestazione di una forza organizzata che ha voluto spezzare il ritmo e il consenso che in questi anni la rete NoExpo ha cercato di costruire in maniera aperta alle diverse soggettività. Un modo come un altro per mettere il “cappello” ad una manifestazione, in maniera ormai piuttosto vecchia e scontata. Noiosa.
Sì, noiosa, perché i riot visti a Milano non hanno nulla a che vedere con quanto accade a Baltimora. Un conto è l’espressione di una rabbia diretta, autorganizzata e rivolta direttamente contro ciò che si contesta, altro è una pratica organizzata da una precisa soggettività politica, per di più senza un obiettivo comprensibile.Non ci interessa alcun discorso moralista sentito in questi giorni, né l’idea di dover educare a una presunta “giusta pratica rivoluzionaria”. Così come non ci interessano le tante sciocchezze sentite riguardo a infiltrazioni di vario tipo. A noi interessa l’autorganizzazione dei soggetti sociali, e la democrazia dei movimenti, e sono proprio queste le dinamiche del tutto assenti nei fatti della may day.
L’autorganizzazione non si organizza, produce le sue forme nelle dinamiche del conflitto, ma in una fase in cui il conflitto reale va ancora costruito le soggettività sociali e politiche devono sapersi coalizzare, mettersi in rete rispettandosi e arricchendosi l’un l’altra. Specie in una fase ben diversa da quella di 10 o 15 anni fa, in cui qualche soggetto, partito o area politica poteva dirsi egemone rispetto ad altre.Non ci interessa separare i buoni dai cattivi, questo giochino lo lasciamo ad altri. A noi interessa avere corrette relazioni nel movimento in grado di rispettarne l’eterogeneità, unico modo in questa fase per costruire reti di opposizione sociale e politiche più larghe e inclusive, in grado di saper allargare la partecipazione conflittuale.
Intendiamoci. La scelta della stampa di concentrare tutta l’attenzione sugli eventi e gli “scontri” – già presa nei giorni precedenti inventando inesistenti “assalti” a banche e ritrovamenti di fantasiosi armamentari – è volutamente strabica. Parlare di una città “devastata” e di Milano a “ferro e fuoco” per danni limitati ad un triangolo di vie, fa parte della narrazione tossica che volevano cucire sopra i no Expo, fomentando un’indignazione del tutto sproporzionata e fuori luogo sulla città “violata”. La manifestazione organizzata da PD e maggioranza arancione ha messo in campo un proposta moralistica del tutto ipocrita. Si fomenta l’indignazione per danni economici circoscritti e contenuti nei costi, senza aver provato invece la minima indignazione per i miliardi di euro sprecati da Expo, per quelli finiti in tangenti e corruzione, e senza aver sprecato nemmeno un commento per chi è morto nel cantiere dell’Expo lavorando in condizioni infernali pur di renderlo “fruibile” il Primo Maggio. Un’ipocrisia che serve solo a contrapporre una presunta “Milano città aperta e solidale” alla possibilità del dissenso, presentandosi di fatto come il solo cambiamento possibile.
Così come ci fanno venire l’orticaria le richieste di “condanne esemplari” e l’insistenza sul reato di “devastazione e saccheggio” (con pene che arrivano fino a 15 anni!), dispositivo letale reintrodotto per reprimere i fatti di Genova 2001 e da allora sventolato ad ogni manifestazione con scontri di piazza per criminalizzare il movimento intero, colpendo singole persone e tentando di affrontare una questione politica e sociale sul piano penale.Noi rivendichiamo fino in fondo di aver partecipato all’organizzazione della Mayday e la nostra internità alla rete Attitudine No Expo (che è chiamata ad una difficile e importante discussione, che comincia con il comunicato uscito ieri). Rivendichiamo la scelta di stare in un corteo difficile, per il quale segnali di possibili episodi che non avremmo condiviso c’erano tutti, ma pensiamo sia stata sbagliata la scelta di alcuni di porsi fuori, di subire il ricatto delle possibili “violenze”, di non tentare e inventare pratiche autonome, democratiche ed efficaci.
Oggi però si impone una riflessione sulle pratiche e sulla capacità di proteggerne il senso collettivo e la possibilità reale di raggiungere gli obiettivi che ci si è dati collettivamente – senza cadere nella scorciatoia (peraltro impossibile da realizzare) della costruzione di servizi d’ordine capaci di risolvere le questioni sul piano “militare”. La questione è politica e politicamente va risolta.
Una riflessione sulle pratiche che investa i modi con cui si esprime conflitto in un corteo, ma che sappia andare anche al di là interrogando la quotidianità dell’impegno sociale e politico, fatta di riappropriazione, percorsi politici capaci di essere credibili e aperti, relazioni dal basso e conflitto – per radicare socialmente le lotte e ottenere risultati, pur in un contesto non facile.Per questo vogliamo valorizzare quanto la rete ha fatto in questi giorni, oltre al corteo. Stiamo parlando del nostro contributo alla realizzazione della “tavolata popolare” davanti Eataly, insieme allo spazio Fuorimercato e Genuino Clandestino – momento che ha mostrato le alternative che esistono e che vanno costruite ogni giorno. Parliamo delle iniziative della e alla RiMaflow. Parliamo della nostra presenza nella rete NoExpoPride e così via…
Pratiche volte a promuovere, salvaguardare e consolidare percorsi sociali, con l’obiettivo di una politicizzazione collettiva. Ogni “coalizione sociale” può essere un terreno dove sperimentare e costruire questa politicizzazione collettiva, se è capace di produrre iniziativa e di includere conflitti, vertenze, pratiche dal basso.I prossimi sei mesi la sfida sarà riuscire a manifestare la nostra opposizione a Expo e a quello che rappresenta oltre la forma corteo e oltre la risposta ad ogni evento. E’ la sfida di saper costruire un conflitto sociale reale.
Quello che vogliamo e dobbiamo fare è consolidare le reti esistenti, allargare la superficie di contatto con chi è colpito dalle politiche renziane, costruendo spazi per la loro autorganizzazione e insieme capire davvero come quelle politiche incidono sulle nostre vite.
Expo esiste e continuerà a esprimere narrazione tossica, ideologia, circuiti di relazioni per il rilancio dei profitti. Noi dobbiamo essere in grado non solo di costruire una diversa narrazione, ma di saperla comunicare; non solo di costruire spazi di riappropriazione, ma di saperli aprire e rendere attraversabili; non solo denunciare le nuove schiavitù e sfruttamento del lavoro, ma di intercettare i soggetti reali favorendone l’autorganizzazione realmente conflittuale.
Expo: torna il partito della paura e ci affoga di debito, cemento e precarietà
Dopo qualche giorno dal 1° Maggio, prendiamo parola e lo facciamo a seguito di una condivisione collettiva della piazza milanese a cui, con determinazione, abbiamo partecipato. Una mobilitazione ricca e condivisa da migliaia di persone, frutto di un lavoro lungo e approfondito che i compagni di attitudine no expo – alcuni peraltro di vecchia data e di cui non abbiamo mai dubitato della generosità nell’incentivare percorsi di lotta virtuosi – hanno svolto nei propri territori e in lungo e in largo per tutta Italia. Nei loro occhi in questi mesi abbiamo visto la generosità, umana e politica, di chi prova a mettere a disposizione una data in un percorso più ampio e nell’ottica della collettività di tutti e per tutti.
Il grande e cospicuo lavoro della rete Attitudine No Expo ha fatto sì che sfilassero più di 30.000 mila persone. Un lavoro a partire dall’apertura dei territori, dove la sinergia tra i veri agricoltori a km zero si è fusa con le vertenze antispeciste e dove i ragionamenti sul lavoro gratuito e sull’economia della promessa – a cui i 18.500 volontari di expo stanno, purtroppo, credendo – si sono fusi con le tante esperienze che i movimenti per il diritto all’abitare stanno producendo a livello nazionale. Partiamo, quindi, dall’assunto che per noi questa pluralità di convergenze e istanze di lotta è una ricchezza che va coltivata, va preservata, va nutrita con intelligenza e responsabilità collettiva.
E’ inutile fare una ricostruzione in cui molti, sia nel movimento che dai pulpiti dei media mainstream, si sono già cimentati a fare; ci interessa, invece, riflettere su quelle che sono i risultati politici prodotti da quella giornata.
Due giorni dopo il Primo Maggio una manifestazione capeggiata da Pisapia, ha sfilato per Milano, non facendo altro che far regredire e diluire i contenuti della Mayday Noexpo, dando sponda a quell’attivazione di piazza che Renzi non avrebbe potuto immaginare o sperare. L’Expo2015 ha, così, trovato i suoi attivisti che si sono assunti la responsabilità di dare corpo a quello che fino ad oggi era rimasto solo nel virtuale dei social network. E alla 20.000 persone che hanno partecipato alla manifestazione di Pisapia, la cui chiave elettoralistica è chiaramente intellegibile, verrebbe da chiedere dove eravate quando Klodian, a soli 21 anni, è morto cadendo da un ponteggio dell’Expo? Dove eravate quando il 23 Luglio 2013 CGIL CISL e UIL hanno firmato l’infame accordo con Expo2015 SpA accettando di “ratificare, per la prima volta nel diritto del lavoro, il ricorso al lavoro gratuito” affossando definitivamente il futuro di migliaia di giovani? Dove eravate quando la Rete No Expo denunciava la gestione mafiosa ed affaristica dei finanziamenti pubblici?
Ma una cosa la dobbiamo dire con chiarezza, quando c’è spazio per la protesta della “maggioranza silenziosa”, significa che ci sono ancora molti vuoti da colmare da parte delle forze anticapitaliste, e quei vuoti vengono riempiti da opzioni conservatrici, quando non apertamente reazionarie.
Parlando di risultati, quindi, quello che rimane è un partito della paura, che sventola lo spauracchio dei “black bloc” e di “duri scontri” per celare l’ipocrisia di una città saccheggiata nella terra, nei diritti, nella dignità e nelle casse. Pensi anche a questo Pisapia quando sceglierà se ricandidarsi o meno, perché le bolle mediatiche sugli scontri si sgonfieranno, mentre la gestione mafiosa, il cemento, i debiti e la precarietà generata da Expo2015 rimarranno come fondamenta dell’area metropolitana di Milano e come caposaldo del nuovo reparto di geriatria che il ducetto Renzi sta costruendo.
E proprio a questo punto siamo fermi da almeno 7 anni, inizio della crisi, in cui una larghissima parte del tessuto sociale italiano rimane assuefatto a galleggiare, pronto a rincorrere la schiavitù di Expo con la promessa di conquistare un lavoro qualsiasi, e a guardare Renzi che riscrive l’inno (e la costituzione) italiana dichiarando la fine del capitalismo di relazione e inneggiando a quello ugualmente spietato e freddo delle meritocrazie multinazionali e della precarietà senza diritti e reti di salvataggio. Neanche quelle famigliari.
Conflitto senza o contro il consenso?
In questo contesto, da mesi una larga rete si è mobilitata, riuscendo ad organizzarsi, a prendere parola e costruire visibilità su queste tematiche, provando a costruire una complessa analisi di un altrettanto complesso e paradigmatico passaggio rappresentato da Expo.
E qui viene il bello. A che serve discutere e confrontarsi, trovare un terreno comune e provare a incentivare meccanismi di connessione? A che serve, se tanto l’orizzonte è rappresentato dalla morte del capitalismo o dalla vita specchiata in cui, comunque, vale la regola del più spregiudicato? Addirittura dove un gesto, a discapito delle parole e dei pensieri, diviene l’asticella sotto la quale si diventa inutili, riformisti se non direttamente pericolosi nemici?
In una gara costante a chi “ce l’ha più lungo”, noi tranquillamente rifiutiamo l’ansia da prestazione e né abbiamo voglia di dimostrare le nostre capacità. Chi ci ha conosciuto lo sa, chi sarà curioso lo scoprirà. Tutto il resto è, semplicemente, la parte peggiore di quello che qualcuno ha definito porno-riot ovvero pura estetica della distruzione.
Nel nostro agire politico, sia chiaro, le rotture sono considerate più che lecite, a patto però, che esse producano un reale grado di avanzamento nella lotta di classe, incanalando rabbia e conflitto in termini affermativi, creando consenso e processualità nei movimenti. La strategia di contenimento attuata dalla governance a Milano il 1° Maggio è stata utile, peraltro, a riabilitare le forze dell’ordine elogiate per la “gestione oculata della situazione” dopo la condanna della Corte europea per le torture realizzate a Genova 2001.
La giornata milanese, quindi, pone o ri-propone una vecchia questione sull’egemonia e sul consenso, oltre che, chiaramente, sulle pratiche. E ci sembra che la lezione, di gramsciana memoria, sia interpretata nel peggiore dei modi, per cui si fraintende la propria visibilità e la propria sovra-determinazione come un’opzione che convince. Se addirittura “la visibilità si conquista a spinta” a scapito di chi è al nostro fianco nelle lotte, anche radicali, a fianco, per mesi, nei processi decisionali, si produce un paradossale rovesciamento in cui l’alleato diventa lo sciacallo giornalistico. E in questo paradosso, il processo decisionale collettivo diviene un ostacolo sulla via della rivoluzione.
Il risultato finale, che prima o poi consigliamo di valutare con occhio distaccato e critico, è che il movimento è spaccato e il resto della prateria a cui si pretende parlare rimane, ancora una volta, in secondo piano.
Quindi la questione di consenso posta a Milano, non è tanto riscontrabile in quello mancante della società civile che i media mainstream prontamente strombazzano, ma quello contro cui ci si è attivati.
E’, infatti, con quel consenso minimo costruito in mesi di assemblee di movimento con cui si dovrebbe far i conti. In questo paradosso (o miseria?) quella dicotomia tra morte e vita, posta ad esempio da Berardi Bifo, diviene inutile e novecentesca quanto sfilare per diritti e costituzione, perché è un gioco a somma zero.
La pentola a pressione (pratiche e conflitto)
E lungi da noi aver trovato una qualche risposta, continuiamo a trovare, invece, molte domande.
Una delle prime riguarda le pratiche e il loro senso politico nella volontà di costruire movimento per il conflitto e la trasformazione. A tal proposito, ci interroghiamo da ormai diverso tempo, sul perché si continuano a costruire pentole a pressione in cui nessuno è comodo per scegliere le pratiche che preferisce.
Perché non pensare, come avviene sempre più frequentemente nelle esperienze più virtuose in Italia e in Europa, a lavorare per costruire un piano politico trasversale sui contenuti, che possa rappresentare ed essere condiviso come piano politico e sociale, riconoscendo cittadinanza a tutte le pratiche conflittuali? Perché non superare noi stessi in primis la divisione in “buoni” e “cattivi” scegliendo di costruire momenti differenziati in cui tutti, in un verso o nell’altro, siano costretti a confrontarsi per non sfuggire alle proprie responsabilità politiche?
E’ per noi necessario sprovincializzare l’Italia per connettersi ai movimenti e alle reti internazionali, costruendo spazi transnazionali di opposizione all’austerity, così come avvenuto a Francoforte nella giornata di mobilitazione di Blockupy durante i blocchi e la manifestazione contro l’inaugurazione della nuova sede della BCE. Per questo come Scioperiamo Expo ci siamo diretti verso la sede dell’Unione europea, con l’obiettivo di denunciare la violenza delle politiche di austerity imposte dalla Troika.
Probabilmente se riuscissimo ad evitare alibi del “troppo violento o troppo poco”, riusciremmo anche a costruire un processo politico centrato sui contenuti, da animare con differenti attitudini e senza agitare retoriche schermaglie. Avere il coraggio di intraprendere scelte in una chiara composizione politica di classe, a partire anche da questo.
Scioperiamo Expo
Dunque torniamo dall’esperienza milanese con la convinzione che un difficile lavoro ci attende e, ammettiamolo, con un discreto amaro in bocca. Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la rabbia sociale è solo uno dei parametri e spesso, purtroppo, è anche inesatto.
Sappiamo che molto si sarebbe dovuto fare, innanzitutto sul piano del lavoro precario e volontario, ma che, noi per primi, non abbiamo avuto la capacità di portare avanti fino in fondo. Eppure sappiamo che il paradigma di Expo è il paradigma – anche quello del controllo – con cui ci confronteremo da oggi in poi. A noi la capacità di intraprendere un percorso ambizioso, che non solo punti ad incendiare quella prateria, ma a costruire quella vita che vorremo contrapposta alla morte del capitalismo. Una vita che non vogliamo riempire di feticci, ma riempire di capacità attiva all’insubordinazione così come di riappropriazione di spazi decisionali diretti, oltre che alla costruzione di cooperazione sociale.
Non è più il momento di dare lezioni ma di imparare a costruire una sfera orizzontale che sappia produrre, a partire da quello e senza scorciatoie (tanto meno di tipo elettorale), eventuali verticalizzazioni.
Noi, nel nostro piccolo e per quel che valiamo in questa fase di movimento difficile, complicata e pesante, abbiamo deciso di aderire e portare il nostro contributo allo spezzone Scioperiamo Expo, insieme agli attivisti dei laboratori dello Sciopero Sociale. E lo abbiamo fatto perché da mesi, insieme a tante altre realtà nel territorio nazionale e reti internazionali stiamo cercando di ri-significare la pratica dello sciopero che in questa fase storica vediamo praticabile solo nelle forme di uno “sciopero sociale”. Ovvero un assioma linguistico in cui “la parola sciopero sottintende il fatto che è di forza di produzione di lavoro (precario se non addirittura gratuito) di cui stiamo parlando, mentre sociale implica che sono tutti gli aspetti ed ambiti della vita ad esserne coinvolti rendendo la condizione precaria l’elemento dirimente dello stesso sciopero”.
Uno “scioperiamo Expo” che allude ad uno sciopero dentro e contro la precarietà, contro lo sfruttamento intensivo, il business della disoccupazione giovanile (Garanzia Giovani) e la codificazione del lavoro gratuito imposta dai sindacati concertativi. Uno sciopero transnazionale, che blocchi realmente i flussi produttivi, contro tutte quelle forme plurali di lavoro gratuito che nell’era del capitalismo cognitivo siamo costretti a subire. Uno sciopero contro quel dovere imposto di mostrarsi sempre disponibili, flessibili e occupabili a costo zero come se fosse meglio essere schiavi a termine piuttosto che poveri senza un futuro e prospettive.
Noi scegliamo questo processo per costruire quei terreni comuni, di sperimentazione e confronto, uno spazio collettivo e sociale che sappia essere spazio politico, senza dover azzerare le differenze in un supposto soggetto politico.
Il nostro modo per continuare la nostra attitudine NoExpo.
Il nostro modo per affrontare un modello provando a costruire un tempo da battere, che sappiamo né veloce né immediato, ma che sia nostro.
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà agli attivisti arrestati, nessuno deve rimanere da solo, soprattutto in un momento in cui vengono richieste “condanne esemplari”, insistendo sull’infame reato di “devastazione e saccheggio”. Tutti Liberi/e.
Indicom – Indipendenti per il comune: Laboratorio Acrobax, Alexis Occupato
Di seguito pubblichiamo anche alcuni contributi a firma singola che riteniamo interessanti.
L’intelligenza strategica, di Cristina Morini (effimera.org)
«Ci avete visto lanciare sassi, oggetti e bottiglie incendiarie. Brandire spranghe e bastoni a mo’ di alabarde. Tendere nervi e muscoli in gesti improbabili e poi scappare, nasconderci, mimetizzarci, uscire dal niente e rientrare nell’ombra. Certo, vi piacerebbe sapere che siamo adolescenti ben pasciuti, pargoli di genitori separati, viziati dal logo e solo per cipiglio passati dall’altro lato della barricata. Vi piacerebbe credere che siamo la punta dell’iceberg di una generazione senza valori. Forse la vostra brutta sociologia vi porterà a vedere solo ciò che vorreste…».
Sono passati quasi 15 anni da quando, nel dicembre 2001, poco dopo Genova, uscì il libro Io sono un black bloc. Poesia pratica della sovversione. Appena conclusa la manifestazione NoExpo Mayday del 1 Maggio 2015 la tentazione di molti è stata quella di andare, ancora, proprio a cercare epiteti e definizioni per il cosiddetto “blocco nero”. Tutte sbagliate. Non sono adolescenti frustrati, non sono per forza stranieri, né figlie della borghesia con il rolex al polso (“siamo ciò che distrugge la merce, siamo ciò che volete che siamo”). Catalogarli, quasi a volerli esorcizzare per distanziarli da sé, è scorretto e infattibile. L’esempio più clamoroso di questa tendenza è stato forse l’intervista raccolta dalla solita informazione italiana, priva di stile e di decenza, al disgraziato ragazzo che dichiara di amare “il bordello”. Se vi va, condividetela, ridetene, mettetelo alla berlina.
A Milano noi abbiamo visto una componente del movimento, legittimamente interna al corteo. Ampia (non 30 persone, ma forse 1500), determinata e organizzata. Alle tesi complottiste sugli infiltrati non è il caso di dedicare parole. Ma, effettivamente, dentro a quello stesso corteo, in tanti e tante, (meno giovani e più giovani), in alcuni momenti non siamo stati “con agio”. Questo è un primo dato. Frutto del trauma che ci ha regalato Genova 2001, ma anche del fatto che non esiste un largo tessuto sociale, coeso, in grado di investire completamente su tali pratiche di “rivolta”, assumendosele, né, davanti alle vetrine che saltano o a una macchina che brucia, riesce oggi a esprimersi vero consenso.
Sappiamo benissimo che la “democrazia” è morta e il punto non è affidarsi al meccanismo di una rappresentanza svuotato di senso. Sappiamo ancora meglio come gravi su ciascuno di noi, sempre più precisamente, la radicale violenza degli effetti sociali della crisi perenne neoliberista con i suoi cascami ideologici. Ci dichiariamo infatti fuori dall’ideologia cittadina, quella dei cittadini “buoni” contro i “cattivi” potenziali criminali, che è ideologia della sorveglianza, la quale ieri, infatti, ha messo in onda, a Milano, una manifestazione “civica” per ripulire la città dai resti lasciati dai “violenti”. Detto questo, chiarito tutto questo, il problema politico ci resta. Ci resta da affrontare un nodo politico intorno al quale si gira da tempo, ormai.
Vogliamo guardare davvero, senza romanticismi, alla potenza e all’empasse dei movimenti nelle piazze, a queste eruzioni reiterate ma mai collegate? Come uscire dalla contrapposizione, tra l’affidarsi alle istituzioni da un lato o alla logica dello scontro dall’altro? Come possiamo trovare modalità per condividere pratiche dentro grandi cortei partecipati a livello internazionale e importanti, come era questo del NoExpo Mayday di Milano 2015? Oppure, ancora, altra domanda: queste forme nostrane di riot generano “immaginari” – e quando scrivo immaginari intendo qualcosa che costruisca tensioni che resistano, proiezioni capaci di replicarsi, traiettorie in grado di svilupparsi lungo una qualche strada? Immaginari, cioè, che mettano in moto desideri e si coalizzino intorno a progetti, a un’idea diversa del mondo? Come ben sappiamo, più della rabbia o della rappresentazione, anche gestuale, della sofferenza, è l’immaginazione quella che apre le porte, sempre. In realtà, oggettivamente, questi lampi metropolitani non vanno appiattiti affatto sulla casualità estemporanea del puro sfogo. Ma nemmeno sono capaci di rappresentare una risposta alla nostra collettiva difficoltà nell’incontrare e a organizzare le soggettività. Così, il rischio di marginalizzazione si mantiene elevato, mentre è altrettanto elevato il pericolo di una stretta repressiva che rischia di accompagnare giornate come queste. Perciò, era giusto ed è giusto far notare le difficoltà che potrebbero incontrare la rete NoExpo e il movimento milanese nella sua complessità dopo questo primo di M
aggio. Non per pavidità, ma per bisogno di concretezza, dentro questa nebbia che si taglia con il coltello, tra fumogeni e lacrimogeni, alla fine, dove andiamo?
Il tema della condivisione, dell’allargamento, della capacità di parlare a settori sempre più ampi della società resta il nostro problema e, con il passare del tempo, sempre maggiori dubbi genera l’idea che la strada giusta sia quella di pestare solo lungo contraddizioni insanabili, tanto meno pare possibile, a questo punto della storia, fare affidamento su un soggetto contrapposto al mondo (l’avanguardia) che lo spinge nella corretta direzione. Si tratta anche di evitare, se possibile, le coazioni a ripetere, perché le cose non si presentano mai sotto la stessa forma che hanno assunto nel passato.
Sul sito urge/urge c’è un testo assai interessante di Amator Savater, una lettura del libro A nuestros amigos del Comité Invisible, dal titolo “Riaprire la questione rivoluzionaria”. Nel finale si legge: “Forzare le cose dall’esterno: le rivoluzioni che si fanno da questo punto di vista finiscono in un disastro e bruciano i rivoluzionari nel volontarismo”.
E allora, “ci sarebbe un altro percorso: imparare ad abitare pienamente, invece che governare, un processo di mutamento. Lasciarsi trasformare dalla realtà, per poterla trasformare a sua volta. Darsi tempo, per imparare i possibili che si aprono in questo o quel momento […] . Il contatto è insieme quel che ci permette di sentire da dove sta circolando la potenza del mondo e di accompagnarla senza forzarla, con attenzione. Di questa sensibilità abbiamo bisogno più che di mille corsi di formazione politica”.“L’intelligenza strategica nasce dal cuore… incomprensione, negligenza e impazienza: il nemico sta qui”.
“EXPO, teppisti figli di papà e strategia della distrazione”, di Giovanni Maria Riccio (Nòva)
La prima regola di Chomsky sulla manipolazione e il controllo sociale da parte dei mass media è la strategia della distrazione: si inonda il pubblico con un’alluvione di notizie insignificanti per deviare l’attenzione dai problemi reali.
La storia è piena di esempi: chi non ricorda – in un periodo di revival di Mani pulite – il “decreto salvaladri” voluto dall’allora ministro della giustizia Alfredo Biondi? Eravamo nel luglio del 1994, all’alba del primo governo Berlusconi e nel pieno dei mondiali di calcio americani, alla vigilia della semifinale Italia-Bulgaria. Concentrati sul codino di Roberto Baggio, pensarono che avessimo già dimenticato il pool milanese.
La storia si ripete e ieri siamo annegati sotto le immagini di una città devastata dai manifestanti contrari all’Expo 2015. Vandalismo previsto e prevedibile, che ha confermato, ancora una volta, l’inadeguatezza di chi dovrebbe garantire l’ordine pubblico nel nostro Paese e ha avallato le tesi di chi sostiene che siano gli stessi governanti a godere di questi avvenimenti. L’inciviltà ripresa da ogni angolazione da mass media e social network e rilanciata all’infinito, ingigantendo e, al tempo stesso, svuotando di senso ogni messaggio.
Da una parte, i poliziotti (per tradizione poveri e malpagati), dall’altra – per usare le ricercate parole del nostro premier – i “teppistelli figli di papà”: il frammento di lotta di classe di pasoliniana memoria è un passpartout buono per ogni occasione. Una lettura elementare e lineare, ottima per un popolo allergico agli approfondimenti.
Siamo una nazione fondata su patria e famiglia: perché evocare i (figli di) papà e dimenticare le mamme? Ecco allora la mamma di Baltimora, nuovo idolo del popolo dei social network. Perché le nostre mamme non vanno a riprendersi i figli in strada invece di passare il tempo a farsi i selfie in bagno? E questi figli che hanno troppi soldi, troppi iPhone, troppe Playstation! Noi sì, la nostra generazione sì che aveva degli ideali! I fratelli Cervi, dove sono i fratelli Cervi? Un calderone senza confini, che ricorda più la madre di Robertino che quella di Baltimora.
Le immagini, condivise da tanti, stimolano l’emotività più che la riflessione, creano un “un corto circuito su un’analisi razionale” e sul “senso critico dell’individuo” (è questa la sesta regola di Chomsky). Aprono la porta ai sentimenti peggiori: qualcuno, la cui frettolosa impulsività scivola nella retorica reazionaria, invoca la Diaz, quasi che la pagina più buia dell’ultimo decennio della nostra democrazia possa essere elevata a modello.
Le posizioni si radicalizzano e, in un Paese ancorato ai Guelfi e ai Ghibellini, si può essere solo da una parte della barricata. Nessuna analisi compiuta, nessuna sfumatura; meglio i ragionamenti di panza che quelli di testa, meglio indignarsi per ragazzini incappucciati che, parafrasando Moretti, pensano, parlano e vivono male. Se non sei con noi (che siamo i buoni), sei un gufo, sei amico dei teppisti.
Improvvisamente cala l’oblio su Farinetti e sui discutibili appalti affidati a Eataly, sui ritardi nei cantieri, sui padiglioni di Coca-Cola e McDonald’s, sulla gestione inutilmente decorativa del nostro patrimonio culturale. Il palcoscenico è rapito da quella che, giustamente, è stata definita la pornografia della devastazione, dove il solo e unico tema di discussione diventano i teppisti, che rovinano l’immagine del Paese più bello del mondo, della capitale morale d’Italia. Viva la retorica, le maestre facciano ricopiare cento volte agli scolari le belle parole del nostro premier: “Oggi inizia il domani di un Paese che ha un passato straordinariamente bello da far venire i brividi ma che ha voglia di futuro”. Teniamoci per mano patriotticamente e, patriotticamente, intoniamo il nuovo inno d’Italia, nella versione che ci vuole pronti alla vita, giovani, belli, con un inglese un po’ stentato (ma quanto ci rassicura questo premier, nostro coetaneo, che ostenta le sue mediocrità?). Anzi, sostituiamolo questo vecchio inno: i leghisti, anni fa, proponevano “Va, pensiero”, io rilancio con il motivetto di Seven Nation Army. Forza Matteo, canta con noi: pooo-po-po-po-po-pooo-po!
E voi, amici di Facebook, follower di Twitter, seguaci e adepti, continuate pure a condividere il video di un ragazzino afasico, che prova a spiegare, tra mille cioè, i perché di un dissenso. In fondo, perché dovremmo sforzarci di capirne qualcosa di più e cercare la luna, nascosta tra tante nubi? Continuiamo pure a guardare il dito, è più vicino.
P.S. Noam Chomsky ha da tempo rubato a Marshall McLuhan il poco invidiabile primato di studioso citato a vanvera. In parte, anche nel post che avete appena letto. Capisco che siamo solo a Maggio, ma prometterci di leggere più Chomsky e passare meno tempo su Facebook potrebbe essere un buon proposito per l’anno nuovo. Anche per capire meglio i post dei nostri amici.
“Caccia alle streghe”, di Sandrone Dazieri
Uno degli effetti negativi di quanto accaduto venerdì al corteo è che puoi essere tacciato di fiancheggiare i violenti se non ti unisci al coro che chiede la tortura e la pena di morte per i black bloc. Se cerchi di dire che definirli tutti figli di papà è un’idiozia, se cerchi di capire le ragioni dietro la violenza, le sue cause – che per altro sappiamo e vanno dalla crisi endemica all’esclusione – se cerchi di dire che è un problema dei movimenti quello di gestire la piazza che non va delegato alla polizia, se cerchi di dire che si parla di Milano devastata solo quando si tocca il centro, e che la devastazione delle periferie non fotte a nessuno, diventi un fiancheggiatore. Il pensiero critico va azzerato, la discussione va allineata, altrimenti “anche tu sei come loro”, o “sei un intellettuale che gioca con il fuoco a spese degli altri” e così via. Che detto da Salvini è coerente, ma che detto da chi si ritiene “di sinistra” è una follia. A me è successo, incredibilmente, perché ho detto che gli stessi giornali che ora parlano di oscuramento delle ragioni dei No
Expo da parte dei violenti, sono gli stessi che avrebbero relegato la manifestazione a un trafiletto se non ci fossero stati gli scontri, diminuendo il numero dei partecipanti e ironizzando sugli slogan. Chiaramente una critica al sistema media, diventato un “appoggio strisciante” ai black bloc.
Guardate, a prescindere da me, chissenefrega di me, tutto questo sarebbe ridicolo se non fosse tragico, perché chi ha memoria si dovrebbe ricordare che questa è stata la strategia per tacitare le opposizioni negli anni Settanta, dando dei brigatisti a tutti quelli che contestavano lo stato di cose, per criminalizzare i centri sociali negli anni Ottanta e novanta e via così. Si crea un clima dove si scoraggia il dissenso se non dentro paletti definiti (da chi?), dove bisogna pensarci due volte prima di dire la propria perché puoi essere attaccato, strumentalizzato, denunciato. Lo ammetto: sono un po’ spaventato dal vedervi tutti allineati con il sasso in mano, pronti a lapidare gli eretici. Perché dalla caccia alle streghe alla prossima Diaz il passo è molto, molto breve.
Il contributo di MilanoX,di Cock Sparrer
Expo è iniziato, e le tanto attese cinque giornate, le prime a cancelli aperti, No Expo sono finite.
La complessità di quel che accaduto va molto oltre la cronaca spiccia di qualche ora del corteo NoExpo MayDay. Il segno resta e rimane, l’impressionante dispositivo mediatico che ha cancellato qualsiasi altra cosa che non siano stati gli “scontri” ha fornito a speculatori della politica l’assist perfetto per organizzare una triste e grottesca parata benpensate di “ripulitura” dei danni e delle scritte lungo il percorso del corteo del Primo Maggio. Triste e grottesca, ma allo stesso tempo reale.
Reale quanto la presenza di una modalità di concepire la manifestazione politica che giornalisticamente parlando ha preso il nome di “black bloc”. Che piaccia o non piaccia la componente “nera” non è solo reale ma è anche in crescita. Bisogna farne i conti. E’ una modalità di stare in piazza. Chi prova a derubricarla in “infiltrati” non ha capito nulla. Esiste, e si esprime in molte delle grandi occasioni di piazza in Italia e in Europa. Certo quello che è accaduto a Milano non è riot, non è rabbia spontanea. E’ però una nuova esplicitazione di una presenza anche importante, che comunque ha anche a che fare con un senso di rabbia generalizzato e rifiuto generalizzato. Non solo dei simboli del capitalismo, ma anche delle strutture e degli spazi politici. Non rispetta niente e nessuno. Modalità di stare in piazza e di espressione politica che diventa immediatamente mediatico e soprattutto immediatamente egemonico. Istanbul, Baltimore, Atene o le banliues francesi non c’entrano assolutamente nulla con quello che è accaduto il primo maggio a Milano. Quel che è successo nelle vie di Milano è accaduto lungo il percorso autorizzato dalla questura, cioè negli spazi “concessi” al corteo. Nessuno spazio guadagnato con le azioni. Alcune centinaia di persone hanno monopolizzato l’attenzione mediatica, tolto spazio a decine di migliaia di persone e spostato l’asse del discorso costruito in tanti anni di lavoro dalla rete Attitudine No Expo. Insomma una sorta di complessa rappresentazione del conflitto, non conflitto reale. Come scrive la stessa rete “i sette anni che hanno caratterizzato la storia della Rete non possono essere ridotti alla strumentalizzazione mediatica e politica di alcuni momenti del corteo, che ne hanno sovra determinato l’impostazione collettiva e che poco hanno a che vedere sia con un’espressione di rabbia spontanea, sia con lo stesso percorso No Expo” come invece si è cercato di fare. Non solo il Primo Maggio ma anche il giorno seguente quando lo stile, le scelte, e le modalità dell’agire politico della rete No Expo sono scese nuovamente in piazza con una critical mass che ha raggiunto i cancelli del sito espositivo e con un pranzo sociale davanti a Eataly per raccontare come cibo e food siano concetti diversi, conflittuali e nemici. E’ difficile parlare di contenuti. Mostrare macchine in fiamme da una parte fa vendere i giornali dall’altra rende meno legittima la voce oppositiva al grande evento a cui il premier Renzi s’appoggia per lanciare e rilanciare la sua idea d’Italia. Le regole dei media le conosciamo tutti, anche chi ha deciso di avere un estetica e un colore diverso da un corteo ampio, moltitudinario, creativo e radicale.
Il Primo Maggio alla NoExpo MayDay c’erano oltre 50.000 persone, un numero importante di uomini e donne che hanno deciso di dire no ad Expo in tante maniere differenti. Reti di cittadini, comitati, centri sociali, collettivi studenteschi, cittadine e cittadini, lavoratori, precarie, migranti, sound-system, hanno portato in piazza lotte e resistenze, alternative e conflitti. Questo è il dato reale della manifestazione. Attorno al grido “No Expo!” si sono riconosciuti una molteplicità di soggetti che ogni giorno lottano per un mondo diverso.A quello spazio politico costruito per sette lunghi anni hanno partecipato tanti soggetti, anche quelli che non solo non si sono confrontati con la rete Attitudine No Expo, ma anche non erano interessati alla storia e al futuro di quel percorso ma solo alla piazza. Expo è paradigma del neoliberismo, quindi il No Expo è il paradigma dell’alternativa. Questo grido faceva e fa paura. Oltre alle speculazione mediatica così è arrivata anche quella politica.
L’operazione politica e culturale promossa da giunta Pisapia e PD di ieri, domenica 3 Maggio, ovvero una sorta di pulitura collettiva dei danni generati da una parte del corteo, è grave e vergognosa. Cittadini benpensati che riparano i danni di una città offesa dalla “violenza politica” di un corteo rimarcando che l’unica modalità di manifestazione sia quella pacifica. Le grandi democrazie sono nate dai grandi tumulti, è giusto ricordarlo. Certo tumulti, rivolte e rivoluzioni sono una cosa seria. Hanno a che fare con gli obiettivi prima che con le pratiche. Divisione in buoni e cattivi, spostare l’attenzione dalla catastrofe Expo 2015 agli scontri del Primo Maggio è ad oggi uno dei risultati tangibili della Mayday. Dove i cattivi sono i “NoExpo”. Furti, sistemi di potere che legano politica ed economia, malavita organizzata, eventi nocivi e dannosi per la città hanno generato meno indignazione. Quasi come ci fossero endemicamente anticorpi ai grandi scippi del capitale vissuti con una normalità disarmante.
Il corteo del buonismo così va ad indicare l’opzione No Expo come nemica della democrazia e della convivenza, prova a tratteggiare i confini della protesta possibile e attacca l’organizzazione dal basso difendendo quindi lo status quo.
Non condividere alcuni episodi del corteo non significa che il conflitto e la sua pratica siano nemici dei movimenti e delle lotte sociali.
Ripartire da alcuni punti fermi è quindi necessario per guadagnare nuovamente spazi di legittimità e forza, denunciare con nettezza e decisione lo sciacallaggio mediatico così come le speculazioni politiche di caste,ceti politici (anche di movimento), sistemi di potere, una certezza e necessità.
I processi costituenti di una alternativa reale vivono, oggi schiacciati, tra le polarizzazioni del “riot per il riot” e della politica istituzionale nella ricerca e pratica di un’autonomia dal capitalismo fatta di conflitti e consenso. La rete No Expo non è morta, non è stata seppellita, sicuramente è più debole del 30 Aprile.
“La prova di forza che mima la rivolta che non c’è” (di Marco Bascetta e Sandro Mezzadra, dal Manifesto del 4 Maggio 2015)
Milano. Uno scontro giocato sul simbolico. E che non apre nessun spazio politico
Non sappiamo quali siano stati i motivi che hanno indotto la Rete No Expo a rinviare l’assemblea prevista per domenica 3 Maggio (l’assemblea, si legge nel sito della rete, «si riconvoca nei prossimi giorni»). Resta il fatto che, dopo quanto avvenuto in piazza durante la Mayday, un importante spazio di confronto politico si è chiuso.
E quelle che dovevano essere le «cinque giornate di Milano», preludio a sei mesi di «alterexpo», sono state fagocitate, non solo sui media mainstream ma anche nell’esperienza di migliaia di attivisti/e, da un paio d’ore di duri scontri.
Il risultato è un certo spaesamento diffuso, la difficoltà nel prendere parola e nel rilanciare la mobilitazione (cosa che comunque la Rete No Expo fa con un comunicato).
Meno di due mesi fa, a Francoforte, le cose erano andate in modo diverso. Il tentativo di blocco dell’inaugurazione della nuova sede della Bce era stato accompagnato da azioni e comportamenti non dissimili da quelli che si sono visti a Milano (pur in altre condizioni, dispiegandosi parallelamente a un insieme di blocchi appunto, e non durante il corteo che ha attraversato la città).
E tuttavia la coalizione Blockupy, sottoposta a duri attacchi da parte dei media e delle istituzioni, era stata in grado di riaffermare immediatamente le ragioni dell’opposizione all’austerity e della costruzione di uno spazio transnazionale di azione politica contro il management europeo della crisi. Le stesse iniziative «militanti» assunte da gruppi esterni alla coalizione avevano finito per illuminare quelle ragioni, o comunque non le avevano oscurate.
È quel che non è avvenuto a Milano. A noi pare che nella preparazione delle iniziative contro Expo siano convissute due prospettive piuttosto diverse: da una parte quella che individuava nella manifestazione espositiva un grande laboratorio sociale, in cui venivano sperimentate nuove forme di sfruttamento e di messa al lavoro della cooperazione sociale, in cui si forgiavano nuovi spazi urbani, nuove gerachie e nuovi immaginari (e se ne rilanciavano al contempo altri, niente affatto nuovi, come segnalato ad esempio dalla campagna contro «We-Women for Expo»); dall’altra quella che considerava l’Expo come la realizzazione paradigmatica di una «grande opera».
Ci sembra evidente che la prima prospettiva, attorno a cui in questi anni sono nate importanti esperienze di inchiesta e sono stati messi in campo generosi tentativi di auto-organizzazione e di lotta, è risultata completamente spiazzata durante la Mayday: non è cioè riuscita a imporsi come polo di aggregazione e di indirizzo politico. A prevalere è stata la seconda: assunta l’Expo come simbolo delle «grandi opere», il simbolismo è dilagato tra le fiamme e le bombe carta, con una serie di slittamenti che dalle banche e dalle agenzie immobiliari sono giunti a investire normali negozi e qualche utilitaria.
È un punto che va ribadito: a Milano tutto si è giocato sul piano del simbolico. Non v’è stata espressione di una rabbia sociale diffusa (che pure non manca), ma azione organizzata di soggetti che hanno scelto di attaccare i simboli del «potere» e del «capitale» perché convinti – almeno una parte significativa di essi – che non vi sia alternativa a una politica di pura distruzione, che non vi sia alcuno spazio per una lotta capace di distendersi nel tempo, di consolidare delle conquiste e di affermare nuovi principi di organizzazione della vita e della cooperazione sociale. Davvero il paragone con Ferguson e Baltimora, con movimenti di rivolta sociale che attraversano, coinvolgono e dividono intere comunità, è fuori luogo, a meno che non ci si voglia fissare esclusivamente sulle apparenze, sulle forme e sulle immagini dello scontro!
Si potrà poi dire che qualche vetrina infranta, qualche banca e qualche automobile in fiamme non sono nulla di fronte alla violenza quotidiana della crisi, della povertà e delle guerre, che il disordine e la violenza che regnano nel mondo si sono palesati per una volta con segno rovesciato.
Si potrà aggiungere che il riot milanese ha rovinato lo spettacolo della città tirata a lustro per l’Expo, ha offerto un controcanto alle fiamme tricolori e agli orribili pennacchi dei carabinieri in tenuta di gala, alle penose retoriche del «futuro che comincia adesso» e dell’«aspirazione di rimettersi all’onor del mondo». A noi sembrano, nel migliore dei casi, magre consolazioni: nelle strade di Milano, il primo di Maggio, abbiamo visto piuttosto l’immagine della nostra impotenza, della nostra incapacità di mettere in campo forme efficaci di azione politica orientata alla destrutturazione dei rapporti di sfruttamento e alla trasformazione radicale dell’esistente.
Abbiamo sempre pensato che l’esercizio della forza da parte dei movimenti debba essere commisurato prima di tutto a un principio: quello degli spazi politici che è in grado di aprire, dell’effettivo avanzamento del terreno di scontro che determina, delle conquiste e delle mediazioni che garantisce e consolida. Difficilmente questo principio può essere applicato a quanto abbiamo visto a Milano: il simbolismo dello scontro è stato esasperato fino ad assumere forme iperboliche, secondo una logica della messa in scena e della rappresentazione (mai troppo lontana dall’aborrita rappresentanza) di una rivolta che continua a non manifestarsi nella quotidianità.
Ripensare forme conflittuali espansive e condivisibili, radicarle nei rapporti e nelle lotte sociali in modi capaci di moltiplicare la partecipazione, il consenso e il «contagio» torna a essere un problema politico fondamentale.
Non auspichiamo certo piazze e manifestazioni pacificate (del resto, la «nuova etica» della polizia celebrata dai media, si è estinta nel giro di due giorni spaccando le teste senza casco nero di chi fischiava Renzi a Bologna): si tratta piuttosto di costruire collettivamente, e dunque politicamente, le condizioni perché la stessa espressione di antagonismo e rabbia trovi forme di canalizzazione affermativa, al di là di ogni estetica della distruzione.
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