State a casa! No andate a lavorare! – Le contraddizioni dell’emergenza coronavirus
“Perché le scuole chiuse e i centri commerciali aperti?”.
Questa è la battuta (simile a decine di altre declinate a seconda del settore in cui si lavora) che gira nel mondo del lavoro dal 23 febbraio, giorno in cui il governo ha emesso le prime misure di contenimento del coronavirus.
Dopo un primo momento di panico databile attorno ai giorni tra il 22 e il 24 febbraio (quelli in cui a Milano si è assistito a un parziale assalto ai supermercati) si è fatta strada un’interpretazione più rassicurante e sostanzialmente bipartisan di cui il video #milanononsiferma promosso dal Comune è stata la perfetta espressione. Libero, che fino al giorno prima accusava il governo centrale di “prove tecniche di strage”, senza temere il ridicolo titolava: “Virus, diamoci tutti una calmata”. Zingaretti, ora in quarantena, si andava a fare un aperitivo sui Navigli, mentre Salvini ripeteva in una delle sue tantissime dirette Facebook quello che a breve potrebbe diventare il mantra di un qualche remix: “Aprire, aprire, aprire!”. Il mondo dell’economia spingeva per abbassare i toni con comunicazioni rassicuranti: i “Consigli per trascorrere le giornate nonostante il coronavirus” di Confcommercio rimarranno negli annali.
A essere sinceri, bisogna ammettere che siamo stati in molti, sia nei sindacati che nei movimenti, ad assumere posizioni contraddittorie prima del precipitare della situazione. Si è scontata sia la non conoscenza del tema che lo scontro, che avviene in ogni persona, tra la parte in cerca di rassicurazioni e quella che tende a farsi prendere dalla paura. Va riconosciuto anche che una parte del mondo medico e di militanti (o entrambe le cose) ha capito e segnalato subito la gravità della situazione, evidenziando che il problema principale era il rischio di collasso del sistema sanitario italiano debilitato da 30 anni di tagli.
Ma torniamo al mondo del lavoro. Nonostante l’alternarsi di panico e sottovalutazione, ha continuato a permanere la perplessità sulla contraddittorietà delle misure adottate. Perplessità che si palesava nelle forme più svariate: ironia, irritazione, fatalismo e riassumibile nella domanda: “Perché alcuni sì e altri no?”. Girando nei centri commerciali, nei supermercati o anche nei bar era facile incrociare capannelli di lavoratori intenti a discutere sulla situazione e far battute del tipo: “Ma noi siamo immuni al virus?”. “Ma il virus prima delle 18 non è contagioso?” e simili.
Ciò che è saltato immediatamente all’occhio di tutte le lavoratrici e i lavoratori è che la chiusura delle scuole avrebbe pesantemente messo in difficoltà sia l’organizzazione che le risorse economiche delle famiglie, e così è stato. Ugualmente, tutte le attività commerciali, ricreative, sociali più piccole e dunque più fragili hanno da subito iniziato a tremare.
La fase di – a questo punto potremmo dire – auto-rassicurazione è durata poco e, con il continuo crescere dei contagi, paura e insicurezza sono tornati a dilagare. A quel punto, i lavoratori sindacalizzati hanno iniziato a premere perché fossero adottate misure più restrittive e presidi sanitari nei posti di lavoro e una proposta come quella del reddito di quarantena ha iniziato a farsi largo nel dibattito.
Un altro elemento importante da non tralasciare è che, in un paese dove per anni si è sdoganata la precarietà e dove ci sono milioni di precari (tra cui tantissime partite IVA), il fatto di non lavorare significa mancanza di reddito senza nessuna copertura o tutela.
Nell’ultimo fine settimana la situazione è precipitata a seguito del decreto di sabato 7 marzo che ha causato una vera e propria “fuga dal Nord” e quello che ieri, il 10 marzo, ha esteso le limitazioni a tutto il paese, ma…
Ma nonostante questo una delle poche eccezioni consentite al divieto di movimento è proprio quella di andare a lavoro!
Stridente e gigantesca la contraddizione tra gli appelli del mondo medico a restarsene a casa propria e l’esigenza di andare a lavorare sia per portare a casa lo stipendio che per obbedienza alle decisioni aziendali. È come se, nonostante la situazione d’emergenza straordinaria, l’idea di continuare a generare profitto fino all’ultimo secondo utile fosse profondamente ancorata in tanti. Il tutto alla faccia dello sbandierato diritto alla salute. D’altra parte, come già ricordato, un’immensa fetta di italiani ha le spalle completamente scoperte ed è dunque comprensibile il tentativo di molti di trovare un modo per garantirsi una minima entrata mensile. Restiamo tutti in attesa, in tal senso, di vedere se sarà approvata l’estensione del sussidio di 500 euro mensili per i liberi professionisti non iscritti a un Ordine. Ovviamente con la speranza che anche gli Ordini in questione si facciano carico dei loro iscritti.
In questo martedì 10 marzo 2020 girano con sempre maggiore insistenza voci su un’imminente chiusura totale di tutte le attività lombarde non strettamente necessarie, mezzi pubblici compresi. Anche i sindacati stanno facendo pressioni in questo senso.
Il dato reale è che in 20 giorni di emergenza milioni di persone hanno raggiunto quotidianamente il loro luogo di lavoro rischiando di far aumentare il contagio e nonostante lo stato d’emergenza, a oggi, i luoghi del profitto non sono ancora chiusi.
L’altro reale e gigantesco problema è dove si troveranno le risorse per farsi carico del disastro di questi giorni.
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