15 febbraio 2003, i tre milioni in piazza contro l’invasione dell’Iraq
La fase storica che va dal 2001 al 2003 (con una coda lunga negli anni successivi) è una fase di grande partecipazione politica e mobilitazioni di piazza. I fattori determinanti sono diversi e vedono intrecciarsi, nel nostro paese, questioni globali a questioni squisitamente locali. Si va quindi dall’onda lunga del movimento no-global che incrocia il movimento pacifista che si oppone alla Global War on Terrorism dichiarata dal Presidente americano George Bush jr. l’11 settembre 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle alla schiacciante vittoria di Berlusconi alle elezioni politiche del 13 maggio 2001 e alla potente reazione avvenuta nella società a seguito di questo evento, soprattutto su tematiche sindacali ed economiche con la battaglia campale del 2002 a difesa dell’articolo 18 (che poi verrà cancellato, giova ricordarlo, dalla “sinistra” di Renzi nel 2014).
Se nel ventennale del G8 ricordavamo le mobilitazioni di Genova l’anno scorso avevamo dedicato un articolo che ricordava proprio l’appena citata lotta vittoriosa in difesa dell’articolo 18 col corteo dei tre milioni del 23 marzo 2002 e il successivo grande sciopero generale del 16 aprile (l’ultimo sciopero generale degno di questo nome in Italia). Il 2003 è invece un anno caratterizzato da gigantesche mobilitazioni a livello planetario contro l’annunciata (e poi iniziata) invasione americana dell’Iraq. Ma qui serve un passo indietro di almeno un paio d’anni.
L’11 settembre 2011 la rete terroristica di Al Qaida guidata da Osama Bin Laden mette in campo una serie di terrificanti attacchi terroristici mandando a schiantare degli aerei di linea dirottati contro le Twin Towers di New York e il Pentagono a Washington. L’attacco causa un numero di vittime spaventoso. Si calcolano circa 3.000 morti. E’ la data d’inizio simbolica del revival dell’Islam politico radicale che oltre che a portare gli attacchi sul suolo occidentale causerà la maggioranza di morti proprio tra cittadini e cittadine islamici. Dopo Al Qaida diventerà famigerata un’altra sigla, quella del Califfato di ISIS. Ma torniamo ai giorni di settembre di 22 anni fa. La reazione americana è immediata e scomposta. Obnubilata dalla retorica neocon dell’esportazione della democrazia e della War on Terror, l’amministrazione repubblicana americana lancia già a ottobre un attacco militare all’Afghanistan avendo la meglio in poco tempo del regime dei Talebani. Le voci che si levarono contro l’attacco all’Afghanistan non furono moltissime. Tanti dei soloni dei media mainstream che ora si stracciano le vesti contro l’invasione russa dell’Ucraina erano all’epoca allineati e coperti. Nonostante il clima di conformismo dilagante si riuscì a organizzare comunque delle grandi piazze contro la guerra come quella dimenticata dei 100.000 a Roma il 10 novembre 2001. A raccontare quanto sciagurata sia stata quella decisione parlano le immagini dell’ignominosa fuga da Kabul dell’agosto 2021 da parte del contingente americano che ha permesso ai Talebani che avevano resistito nella profonda provincia afghana per vent’anni di riprendersi il paese. Per la serie: “Come tornare al punto di partenza dopo migliaia e migliaia di morti provocati e miliardi e miliardi di dollari spesi”.
L’amministrazione Bush imbottita com’era di falchi come i vari Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Walfowitz (giusto per citare i più noti) non si accontentò della guerra i Afghanistan e già a inizio 2002 faceva coniare al Presidente americano la teoria strampalata del cosiddetto Asse del Male che faceva il verso all’Impero del Male di reaganiana memoria. Un’Asse del Male che teneva insieme paesi diversissimi tra loro come Iraq, Iran e Corea del Nord… Si iniziava a preparare il terreno per quella che sarebbe stata l’invasione dell’Iraq. Gli americani avevano sostenuto il sanguinario regime di Saddam Hussein in funzione anti-iraniana per tutti gli anni Ottanta (proprio di quel decennio è la terribile guerra Iran-Iraq) salvo poi ricredersi quando il dittatore di Baghdad, nel 1990, aveva invaso il Kuwait commettendo l’errore di mettere le mani su pozzi petroliferi molto cari a Washington. Bush padre, con un inarrestabile lavorio diplomatico, aveva messo in piedi una grande coalizione transnazionale che comprendeva anche alcuni paesi arabi e all’inizio del 1991, con la benedizione dell’ONU aveva fatto partire un’offensiva contro le truppe irakene in Kuwait cacciandole in pochi giorni, ma lasciando l’opera a metà. Bush sr., da navigato diplomatico ed ex capo della CIA qual’era, decise di lasciare Saddam al suo posto comprendendo come il suo rovesciamento avrebbe destabilizzato l’intera area mediorientale. Bush jr. fu più avventato.
Che la guerra sarebbe stata quasi inevitabile lo si era capito già chiaramente a inizio anno. A rendere però la sensazione di disastro imminente fu il famigerato discorso dell’allora Segretario di Stato americano Colin Powell all’ONU del 5 febbraio. E’ il celebre “discorso della fialetta” che rimane un’immagine incancellabile nella memoria di chi vuole ricordare e una macchia indelebile del curriculum dell’ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito americano. Il diplomatico americano sventolò davanti all’assemblea una fialetta di “antrace irakena” per dimostrare il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq e per giustificare la guerra imminente. Una discreta parte dell’opinione pubblica occidentale si bevve (perché voleva) quella sceneggiata, media mainstream in testa.
E’ proprio in quel momento, a un passo dal precipizio, che l’opinione pubblica globale si mobilita per scongiurare il peggio.
Il 15 febbraio viene convocata una giornata di mobilitazione internazionale contro la guerra con cortei praticamente in ogni angolo del pianeta. I dati statistici dell’epoca riportano che furono coinvolte circa 600 città in giro per il mondo e scesero in piazza più di 100 milioni di persone. Una cosa mai vista prima e che non si è ancora vista dopo. Il corteo più grande fu proprio quello di Roma (di cui parleremo a breve) con più di 3 milioni di persone nelle strade. Una mobilitazione così grande, quella italiana, da finire nel libro del Guinness dei Primati del 2004. Una piazza enorme, sicuramente superiore al milione di persone, si vide a Madrid, in Spagna. Piazze moltitudinarie anche a Berlino e a Londra, la capitale di uno dei paesi, il Regno Unito che sarebbe stato secondo per coinvolgimento militare dopo gli Stati Uniti e con l’allora premier, il laburista Blair che in molti avrebbero dispregiativamente iniziato a chiamare Tony B-Liar: Tony il bugiardo. Anche il fronte interno americano fu scosso da grandi manifestazioni la più grande delle quali fu a New York, città ancora ferita dall’11 settembre, ma contraria alla guerra.
Il racconto della manifestazione di Roma non può che partire dal fenomeno delle bandiere arcobaleno.
Era iniziata a girare l’idea di rendere palese e visibile l’opposizione al conflitto imminente. Chi era contro avrebbe esposto una bandiera arcobaleno al balcone, e se non aveva il balcone a una finestra. Una bandiera arcobaleno con al scritta PACE al centro. Inizialmente si trattava di timide presenze che poi, via via, come per un passaparola sotterraneo e un effetto domino erano diventate una presenza sempre più forte. Quasi potente. Sorte come funghi ovunque. Non vi era una singola via di Milano (ma probabilmente di tutto il paese) indenne dal fenomeno. E così capitava di percorrere vie sconosciute, neanche troppo lunghe o grosse con decine e decine di drappi arcobaleno appesi ovunque. Un fenomeno di attivazione e di rivendicazione di identità mai più visto in quelle dimensioni.
Il cuore delle partenze per Roma da Milano era la Stazione Garibaldi, all’epoca luogo di partenza di ogni buon treno speciale che avrebbe condotto i manifestanti in giro per l’Italia per le mobilitazioni più disparate. Garibaldi si era già trasformata in una sorta di hub militante nei giorni del luglio 2001 ed era tornato a esserlo nel marzo 2002 per la manifestazione romana della CGIL in difesa dell’articolo 18. Ma la ressa, la concitazione e l’energia che si respirava la sera del 14 febbraio erano una cosa indescrivibile. La stazione si era trasformata in qualcosa a metà strada tra un campeggio, un centro sociale, un suk e l’ingresso di un megaconcerto rock. Gente accampata ovunque. Transenne che non reggevano la ressa. Tanti treni speciali da far partire per la capitale. A questo scenario andavano ad aggiungersi decine di pullman. Il tutto per un totale di circa 10.000 milanesi in viaggio per Roma. Per chi non era risucito a scendere a Roma Radio Popolare aveva organizzato al Pini un’iniziativa, anche quella partecipatissima dove sarebbe stato formato un gigantesco simbolo pacifista visibile dai satelliti!
I treni per Roma, partiti uno dopo l’altro lungo la nottata, erano strapieni in ogni ordine di posti tanto che chi scrive si era trovato a dormire abbarbicato sul portabagagli a due metri d’altezza dal corridoio.
La manifestazione del 15 febbraio non è raccontabile perché, nei fatti, non era una manifestazione. Era un fiume in piena di popolo che esondava ovunque. Con il seprentone che sfilava nel percorso ufficiale e decine di cortei spontanei che percorrevano le strade secondarie per scomporsi e ricomporsi. Gruppi e gruppetti di manifestanti con le bandiere arcobaleno erano ovunque, anche in luoghi distanti molte centinaia di metri dal corteo.
Così scriveva il Corriere della Sera:
“‘Siamo oltre tre milioni, è la più grande manifestazione pacifista mai avvenuta in Italia’ ha detto nel pomeriggio un’organizzatrice del Forum Sociale Europeo, Andreina Albano, mentre fiumane di gente convergevano verso piazza san Giovanni. (…) La Questura sostiene che troppi manifestanti hanno sfilato fuori dall’alveo del corteo principale e che è quindi difficile fornire una cifra, ma stima comunque che i partecipanti siano stati 650mila. Lungo una decina di chilometri, il percorso concordato non è riuscito a contenere tutti i partecipanti che hanno invaso in decine di rivoli il centro della capitale”.
Il ritorno a casa era stato caotico e gioioso per tutt*. Si viveva però un sentimento duplice e contrastante: da un lato la fierezza di aver dato una dimostrazione di forza e di opposizione concreta all’ingranaggio bellico; dall’altro una strisciante consapevolezza e paura che, anche dopo una dimostrazione di dissenso del genere, la macchina infernale messa in piedi da Bush&soci non si sarebbe fermata.
I 33 giorni che ci avrebbero separato dalla giornata contro la guerra allo scattare dell’invasione, avvenuto il 20 marzo 2003, sarebbero stati densissimi di iniziative: dalle manifestazioni contro le basi americane a Camp Darby e Camp Ederle al blocco dei treni che trasportavano armi di inizio marzo fino all’ultimo grande corteo, tenutosi proprio a Milano, il 15 marzo (un giorno prima dell’omicidio di Dax) e che avrebbe visto scendere in piazza circa 700.000 persone. Il tutto però con un senso d’angoscia e disperazione crescente verso quello che era ormai l’ineluttabile.
Ci avrebbero pensato le edizioni straordinarie di telegiornali e giornali radio a dare l’annuncio dell’inizio dell’invasione il 20 marzo. Le mobilitazioni sarebbero proseguite possenti nelle settimane successive con però un progressivo sfrinamento e un diffondersi di senso di sconfitta. Una sconfitta che si è pagata duramente nei decenni succesivi, ma che non basta a far dimenticare, in un paese che vive un eterno presente come il nostro, l’incredibile giornata del 15 febbraio di vent’anni fa.
P.S. Inutile dilungarsi sul massacro provocato dall’invasione dell’Iraq e sul disastro causato nell’intera area. Basta avere curiosità e andare sui siti d’informazione per informarsi. Basti dire che, a 20 anni dai fatti narrati l’Iraq non ha mai più e non ancora trovato pace. E che il numero dei morti è sconosciuto. Le stime più prudenti vanno dal mezzo milione al più di un milione…
Tag:
15 febbraio 2003 2003 armi di distruzione di massa bandiere arcobaleno corteo george bush jr. guerra invasione iraq medioriente mobilitazioni morti pace pacifismo pacifisti roma saddam hussein