L’Aja: «Occupazione illegale e apartheid: Israele deve ritirarsi subito»
Da sei mesi a questa parte, dalla storica sentenza della Corte internazionale di Giustizia sul genocidio plausibile in corso a Gaza, lo scorso 26 gennaio, il diritto internazionale è stato scongelato. Considerazioni finora confinate al mondo degli invisibili (il popolo palestinese) e all’associazionismo internazionale (Amnesty, Human Rights Watch, B’Tselem) rimbombano dentro il tribunale più importante del pianeta. Ora far finta di non ascoltare diventa pratica complessa.
Ieri il presidente della Corte Nawaf Salam ha letto le 32 pagine di un parere consultivo che è un terremoto: l’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est è illegittima. È un’annessione di fatto che ha generato un regime di apartheid e segregazione razziale. E deve finire, subito: «Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza nei Territori occupati palestinese il prima possibile».
I giudici buttano fuori una sentenza (chiesta nel dicembre 2022 dall’Assemblea generale dell’Onu) che disegna la complessa rete con cui dal 1967 Israele ingabbia e soffoca l’autodeterminazione palestinese.
Una rete che mescola – e che tenta di istituzionalizzare – militarismo, burocrazia, colonizzazione e pulizia etnica. Costruzione ad libitum di colonie e trasferimento della propria popolazione nel territorio occupato, riconoscimento degli insediamenti messi in piedi dai coloni, doppio standard legale, confische di terre e demolizioni di case palestinesi, trasferimento forzato della popolazione occupata (con «uso della forza fisica ma anche non lasciando alle persone altra scelta che andarsene»), furto di risorse naturali: tutte queste misure prese a esclusivo beneficio del paese occupante e a detrimento della popolazione palestinese devono cessare, «as rapidly as possible».
Non solo: «Israele ha anche l’obbligo di fornire una piena riparazione per i danni causati dai suoi atti illeciti a livello internazionale a tutte le persone fisiche o giuridiche interessate. La riparazione comprende la restituzione, il risarcimento e/o la soddisfazione». Ovvero la restituzione di proprietà (immobili e culturali, dunque terre e case ma anche libri e archivi), lo smantellamento del muro e delle colonie, la fine di tutte le politiche volte ad alterazioni demografiche, il ritorno dei palestinesi il cui diritto all’autodeterminazione non può essere soggetto ad alcuna condizione, perché «inalienabile». Dove la riparazione non fosse possibile, deve risarcire dei danni.
Perché, scrive la Corte, l’occupazione militare dei Territori palestinesi «è illegale» e viola il diritto internazionale da 57 anni. Un atto narrato come temporaneo è ormai agli occhi israeliani permanente, un’annessione di fatto in cui le autorità occupanti non distinguono più tra territorio occupato e Stato di Israele, quello riconosciuto 74 anni fa dalle Nazioni unite. Un’annessione di terre che non è un’annessione di cittadini e che ha tramutato l’occupazione in un regime di apartheid e segregazione razziale: la stessa autorità governa due popoli, ma solo uno ha pieni diritti di cittadinanza. L’altro di diritti non ne ha.
Non ce l’hanno i palestinesi in Cisgiordania, né quelli residenti – da apolidi – a Gerusalemme Est. E non ce l’hanno nemmeno i palestinesi di Gaza. Qui la Corte risponde indirettamente a chi dal 7 ottobre sui giornali occidentali e negli uffici di governo va dicendo che no, Gaza non è più occupata dal 2005, quando l’allora primo ministro Ariel Sharon smantellò le colonie israeliane nella Striscia: Gaza è occupata, perché – pur senza presenza militare e civile, almeno fino al 7 ottobre – Israele mantiene il controllo totale su elementi chiave per una vita libera: confini terrestri e marittimi, tasse, importazioni ed esportazioni, libertà di movimento.
I tre territori, scrive la Corte, vanno considerati «come un’entità singola le cui unità e integrità vanno preservate e rispettate».
Un messaggio che, in conclusione, la Corte internazionale rivolge a tutti gli Stati del mondo, su cui pesa l’obbligo di non riconoscere tale illegittima presenza e di non fornire alcuna assistenza che permetta a Israele di preservarla.
Le reazioni al parere dell’Aja sono state immediate. L’ambasciatore palestinese alle Nazioni unite Riyadh Mansour si è detto «grato» per una decisione che dà «nuova forza per continuare a resistere a questa occupazione illegale» e ha promesso una risoluzione da presentare all’Assemblea dell’Onu, mentre il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas ha parlato di «vittoria della giustizia».
Nel governo israeliano si è materializzato lo scudo ormai noto, un mix di contro-accuse e minacce di fare di peggio. L’ambasciatore all’Onu Erdan promette ritorsioni contro le Nazioni unite, dalla chiusura del quartier generale a Gerusalemme alla deportazione dei capi delle agenzie. La Corte è antisemita, il commento del ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir; «tutte bugie», quello del premier Netanyahu.
I due vanno oltre. Netanyahu, nel suo comunicato, afferma che «il popolo ebraico non occupa la sua stessa terra, compresa la nostra eterna capitale Gerusalemme né Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr)», di fatto confermando le conclusioni della Corte: per le autorità israeliane non c’è spazio per i palestinesi, l’annessione è reale ed è giusta. Non è una novità: un paio di giorni fa la Knesset ha votato compatta per negare la legittimità presente e futura di uno Stato palestinese, con buona pace degli alleati che vanno ripetendo da anni il mantra di una soluzione a due stati (come Italia e Stati Uniti che ancora blaterano di negoziati politici, fingendo di non vedere che Tel Aviv non ne ha alcun interesse).
E poi Ben Gvir, principale esponente dell’ultradestra razzista e messianica israeliana: è tempo di affermare la sovranità sui Territori, ha detto in risposta al parere consultivo. È in tale contesto che vanno letti gli ordini militari emessi il 18 luglio, come riporta l’associazione israeliana PeaceNow: alle autorità civili israeliane è trasferito il potere di amministrare le questioni civili dell’Area B della Cisgiordania (secondo gli accordi di Oslo spettanti all’Anp). Significa “legalizzare” quanto accade già: demolizioni di strutture palestinesi, divieto a costruire se non con permessi-fantasma, nuove confische di terre e nuove colonie.
È l’annessione di fatto, è l’apartheid. Come in Sudafrica, fino a trent’anni fa: allora il regime di segregazione razziale mobilitò contro di sé una rete eterogenea di forze, civili e governative. Ma il razzismo di Stato esiste ancora.
di Chiara Cruciati
da il Manifesto del 20 luglio 2024
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