Il Carnevale elettorale e quello del nostro desiderio

maschere-politici-300x160Quest’anno il Carnevale dura una settimana in più. Fino al 24 febbraio giornali e televisioni saranno invasi dal carosello elettorale, che meglio delle peggiori telenovelas o dei più improbabili reality show ha l’obiettivo di inebetire le menti ed azzerare la discussione sui problemi del paese reale. Quest’anno salgono alla ribalta nuove e originalissime mascherine: dal magistrato Che Guevara al comico capopopolo, passando per il professore-banchiere vicino alle esigenze dei poveri, fino ad arrivare ai rivoluzionari fascisti del terzo millennio; in questo enorme show non poteva che riapparire lui – showman per eccellenza, che tutti davano per spacciato – il miliardario presidente-operaio.
Partiti che fino a qualche mese fa erano alleati di governo in nome dell’abbattimento dello spread, ora si rimpallano le responsabilità della crisi economica, spiegano come elimineranno le tasse e promettono nuove mirabolanti soluzioni alla disoccupazione e al precariato.
Un vespaio mediatico che, come tutti i carnevali, non può che essere preludio di una nuova quaresima, quell’austerità dettata da Unione Europea e BCE, che fa rima con un ulteriore attacco al welfare e che non potrà che essere la linea guida di qualsiasi governo post-elettorale, a meno che non si voglia sottoporre il paese a un nuovo attacco speculativo sul debito.

Proprio da qui occorre partire per una riflessione seria sullo stato di salute della democrazia: quali margini di iniziativa rimangono per i governi degli stati europei al tempo degli attacchi speculativi sui debiti degli stati nazione? Si può davvero affidare la speranza di cambiamento al sistema della rappresentanza e della delega, sapendo che di fatto esiste un commissariamento delle istituzioni finanziarie sulle scelte economiche e sociali dei singoli paesi? Oppure tutto ciò dimostra l’insufficienza del voto e la necessità dell’attivazione quotidiana di ognuno di noi per sottrarsi al ricatto della precarietà e del capitalismo finanziario?
Il governo tecnico dell’ultimo anno ha dimostrato ampiamente di essere stato uno dei governi più politici degli ultimi vent’anni, implementando le politiche di tagli e austerità dettate direttamente dalla Banca Centrale Europea, quella lista della spesa scritta di proprio pugno dall’allora presidente della BCE Jean-Claude Trichet e dal suo successore, nonché allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Una lista della spesa che elencava con minuzia cosa andare a saccheggiare del già traballante stato sociale italiano per produrre anche nel nostro paese una decisa svolta neoliberista che ponesse fine a quei diritti e quelle garanzie conquistate con le lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta – e dalle quali peraltro già un’ampia fetta della popolazione rimaneva tagliata fuori grazie alle mille forme di lavoro precario.
La riforma del lavoro e delle pensioni, i tagli all’istruzione e alla sanità ci parlano di una nuova fase di espansione capitalistica, nella quale ad essere saccheggiata è direttamente la sfera della riproduzione sociale e non solo quella della produzione. È attraverso questa chiave di lettura che troviamo la spiegazione del continuo aumento delle tasse universitarie, della chiusura di centinaia di ospedali in giro per il paese, delle migliaia di sfratti eseguiti quotidianamente nelle nostre città, del taglio dei trasporti pubblici e dei servizi sociali per indigenti e disabili. Si tratta, in realtà, di un processo avviato e portato avanti da tutti i governi degli ultimi vent’anni, di qualsiasi colore e schieramento, che però nell’ultimo anno ha trovato nuova verve favorito dal clima d’unità nazionale dettato dallo slogan “ce lo chiede l’Europa” sotto l’egida del monarca assoluto Napolitano.
Quello che chiede l’Europa è, a ben vedere, una vera e propria nuova accumulazione originaria necessaria al rinvigorimento del capitale, in questa fase nella quale la produzione ha le potenzialità per non essere più eterodiretta come al tempo della fabbrica fordista – pur venendo captata sempre più minuziosamente.
A tutto ciò difficilmente si può mettere freno affidando la propria speranza alle urne, piuttosto occorre immaginare e praticare nuove forme di mutualismo che sappiano dare concrete risposte per resistere alla crisi: occupazione di case, resistenza agli sfratti, studentati e ambulatori autogestiti, casse di resistenza contro la disoccupazione, ticket crossing, sportelli di consulenza per i lavoratori precari, sono solo alcune delle esperienze possibili, che necessariamente vanno messe in contatto e diffuse per far sì che diventino strumenti replicabili ovunque e da chiunque.

territori, dunque, dai quali ripartire sperimentando istituzioni del comune che sappiano dare risposte concrete ai bisogni di quella moltitudine di soggetti ai quali quotidianamente il capitale cerca di fare pagare la crisi, e l’Europa, come terreno nel quale mettere in rete le esperienze locali e assumere la sfida per una nuova democrazia radicale e un nuovo welfare universale.
I movimenti nell’ultimo anno hanno sicuramente intrapreso la direzione europea, da Blockupy Frankfurt ad Agorà99, fino al successo – in termini di partecipazione e anche di radicalità – dello sciopero europeo del 14 novembre; ma va sottolineato che per ora non si è stati in grado di superare la dimensione dell’evento, dando continuità alle lotte in questa nuova dimensione continentale. Non possiamo nasconderci dietro un dito, se vogliamo davvero tornare a trasformare l’esistente dobbiamo partire dalla constatazione che lo stato di salute dei movimenti in questo momento in Italia – e a Genova – non è dei migliori.
La sensazione è che manchi qualcosa per far sì che si mettano in moto quei processi di soggettivazione collettiva che altrove – come in Spagna – hanno funzionato dando vita alle acampadas prima e poi a processi virtuosi di partecipazione e mutualismo o che forse esistano identità troppo forti che impediscono di mettere in comunicazione le differenti lotte già esistenti.
Bisogna affrontare questa riflessione partendo dalla costatazione che in Italia i protagonisti delle piazze di quest’autunno sono stati soprattutto gli studenti medi, una generazione cresciuta e soggettivatasi nel pieno della crisi economica globale, che quindi ha ben chiaro come questa fase del capitalismo non fornisca loro alcuna possibilità di mobilità sociale né sicurezza, una generazione che quindi è in grado di riconoscersi collettivamente come povera, come quella moltitudine che non ha creato la crisi, ma che la crisi sta pagando cara.
Questo processo risulta enormemente più difficile per quelle generazioni formatisi ancora con l’illusione dell’ascesa sociale, con la retorica neoliberale secondo la quale ognuno è imprenditore di se stesso e se sufficientemente meritevole sarà in grado di emergere ed affermarsi grazie al proprio capitale umano, per tutti coloro per i quali la precarietà – spacciata col nome di flessibilità – sarebbe dovuta essere la giusta gavetta per giungere infine al lavoro nel quale trovare gratificazione e garanzie.

Il lavoro e i processi di soggettivazione, sono questi i nodi. Se al tempo del fordismo, il lavoro produceva anche soggettivazioni antagoniste al capitale, se proprio nel cuore della fabbrica la classe operaia condivideva spazi e tempi di lavoro, potendosi riconoscere reciprocamente come soggetto sfruttato e concatenando il desiderio di ognuno poteva costruire rivendicazioni e lotte condivise, oggi tutto ciò è assai più difficile. Non è certo una novità che la precarietà frammenti le esistenze, individualizzando le forme contrattuali e di conseguenza atomizzando ogni lavoratore nella propria condizione particolare, ma c’è altro.
C’è da combattere l’idea neoliberista dell’individuo come imprenditore di se stesso, c’è da distruggere la retorica meritocratica che impone la competizione come paradigma delle relazioni umane, bisogna saper riconoscere le nuove forme dello sfruttamento, c’è da costruire umanità e non capitale umano!
Nella forma contemporanea del capitalismo lo sfruttamento non riguarda più esclusivamente la nostra forza lavoro, ma ad essere messe al lavoro sono anche e soprattutto il nostro pensiero, le nostre disposizioni personali, gli affetti e il linguaggio; occorre quindi stare molto attenti a discernere fra tempi di vita e tempi di lavoro, saper riconoscere e rifiutare i meccanismi di autosfruttamento utili al capitale per imporre ritmi e tempi di lavoro che vanno ben oltre le canoniche 8 ore, bisogna avere la forza di rifiutare l’infinità di lavori non retribuiti che ci vengono spacciati per esperienze formative.
C’è poi un altro fronte, quello delle forme tradizionali del lavoro: nel nostro paese spesso le lotte in questi settori – egemonizzate dal sindacato confederale – finiscono per assumere fattezze corporativiste, in aperto contrasto con ciò che si muove e lotta al di fuori della fabbrica. Se negli anni Settanta erano proprio gli operai a teorizzare il rifiuto del lavoro e la nocività di qualsiasi forma di lavoro salariato, oggi ci troviamo a dover fare i conti con le tristi immagini degli operai dell’ILVA di Genova che esultano perché la produzione a Taranto può andare avanti a discapito della salute di migliaia di persone, oppure al sindacato degli edili che scende in corteo per reclamare la realizzazione di grandi opere dall’enorme impatto ambientale e cerca di attaccare il corteo degli studenti che, al contrario, si oppongono alla realizzazione del TAV – Terzo Valico.
Ciò che prima produceva soggettività antagoniste, oggi rischia di produrre solo identità corporativiste nelle quali ci si identifica col proprio lavoro e per le quali, quindi, il lavoro viene prima di tutto, siano pure la salute delle persone e dei territori.
Concatenare i desideri e le lotte delle soggettività precarie, riuscire ad abbattere le logiche corporativiste del lavoro e costruire rivendicazioni comuni è compito arduo e probabilmente per farlo bisogna partire esattamente da quei bisogni contro i quali il capitale sta conducendo la sua più recente offensiva: saperi, salute, casa, territori. Ripartire dando risposte concrete dal basso sul versante della riproduzione sociale sembra l’unica possibilità.
Ciò che dobbiamo avere ben chiaro, dunque, è che per uscire da questa impasse dobbiamo ripartire dai nostri bisogni, proponendo e agendo soluzioni condivisibili e replicabili a problemi concreti, senza però tralasciare l’aspetto della comunicazione e dell’immaginario: per mettere in moto soggettivazioni e desideri collettivi le lotte hanno bisogno anche di narrazioni ed immagini che creino fascinazione, sappiano diffondersi e moltiplicarsi, sappiano mobilitare i desideri delle persone.

Le elezioni incombenti suscitano un’altra riflessione: vent’anni di berlusconismo e, soprattutto, antiberlusconismo hanno fatto sì che, oggi, chi ambisce ad essere l’espressione più a sinistra dell’arco parlamentare sia un magistrato, che fa della retorica giustizialista la sua arma migliore.
Curioso – anzi pericolosissimo – proprio nel momento in cui assistiamo a un’inedita ondata repressiva che mira a colpire i movimenti sociali che negli ultimi anni hanno provato a dare risposte alla crisi e ad arginare il saccheggio dei beni comuni.
L’uso sempre più frequente del reato di devastazione e saccheggio per gli scontri di piazza – dieci condanne a oltre cento anni di carcere per il g8 di Genova e condanne ad oltre sei anni per i compagni coinvolti negli scontri di San Giovanni il 15 ottobre 2011 -, lo spostamento del processo degli attivisti No TAV nell’aula bunker del carcere delle Vallette – in passato riservata ai processi per mafia -, le migliaia di denunce che negli ultimi mesi stanno colpendo militanti in giro per tutta Italia, l’uso sempre più frequente dell’avviso orale e gli sgomberi di spazi sociali e abitativi come Bartleby a Bologna, Scup a Roma, Verdi15 a Torino, Giustiniani19 a Genova – solo per citarne alcuni -, tutto ciò ci parla dell’utilizzo della magistratura come arma per colpire le lotte sociali che nascono dal basso.
Non è un caso, che proprio durante l’ultimo anno di governo tecnico ci sia stata una così feroce ondata repressiva: un governo con queste fattezze, sorto senza una legittimazione elettorale e che nasce con il preciso intento di imporre tagli e austerità, ha la necessità di poter agire in un clima di pace sociale, sia pure imposta a colpi di denunce e manganello e per questo ha bisogno dell’intervento di altri tecnici, quei magistrati che in tutta Italia hanno il preciso compito di criminalizzare l’opposizione sociale.
Riteniamo molto preoccupante che nella nostra città ci sia un procuratore che da ormai 4 anni a questa parte si stia dedicando esclusivamente a perseguire chi fa attività politica: sono ormai centinaia le denunce ricevute dai militanti dei collettivi genovesi, per non parlare delle misure restrittive della libertà date per reati usualmente considerati di minore rilevanza penale come resistenza, ingiurie o lesioni. È probabile che questo clima asfissiante non si esaurisca, anzi: i sondaggi elettorali ci parlano di risultati molto incerti, in cui l’ingovernabilità potrebbe farla da padrone e una nuova larga intesa al servizio delle istituzioni finanziarie potrebbe palesarsi dopo il 25 febbraio.
In ogni modo, qualsiasi risultato esca dalle urne, sappiamo che il nostro compito non cambia: non ci piangiamo addosso, siamo solidali e complici con tutti coloro che, come noi, ogni giorno provano a costruire luoghi d’incontro per nuovi esperimenti di vita e immaginano nuove forme di resistenza alla crisi. Abbiamo scelto la strada di chi non confonde legalità e giustizia e sappiamo che necessariamente conducendo percorsi di riappropriazione ci troveremo nuovamente ad infrangere la legge, quella stessa legge per la quale una vetrina vale più della vita di un ragazzo.

Per concludere, una suggestione: il Carnevale, però, nella tradizione popolare sta radicalmente all’opposto di ciò che quotidianamente ci propinano giornali e televisioni in campagna elettorale.
Il carnevale è un momento in cui il popolo pratica una sovversione dell’ordine costituito, il tempo in cui con ironia si possono svelare le vergogne del potere e i suoi lati deboli, un momento di libera presa di parola e di azione in cui prendersi beffa delle gerarchie.
E allora quale momento migliore per ricominciare a prendere in mano le proprie vite?
Lasciamo sole le marionette dei talk show televisivi, concateniamo i nostri desideri, ritroviamo la gioia della partecipazione e dell’autodeterminazione, utilizziamola come antidoto alla miseria e all’austerità che vorrebbero imporci e come motore della costruzione di vite degne.

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