“Generazione voucher” – Piccolo viaggio nel mondo della precarità – Vol.2
Eccoci al secondo capitolo del nostro piccolo viaggio nel mondo della precarietà. Come dicevamo nel primo capitolo abbiamo sottoposto una serie di domande sulla propria condizione sociale e lavorativa a dieci intervistati. Ci interessava avere delle risposte da chi si è appena affacciato nel mondo del lavoro.
Per praticità ricordiamo anche qui le domande del questionario:
-Quanti anni hai?
-Da quanti anni hai finito le scuole superiori?
-Stai seguendo un corso universitario?
-Secondo te a Milano il lavoro si trova con facilità?
-Quanti lavori hai fatto?
-In che settori?
-Che tipi di contratto hai avuto?
-Sei mai stato pagato con i voucher?
-Cosa ne pensi?
-Hai riscontrato violazioni palesi?
-Cosa pensi della frase “meglio i voucher che la disoccupazione”?
-Secondo te quale sarebbe uno strumento utile ai precari per organizzarsi al fine di pretendere i propri diritti?
-Senti il sindacato come qualcosa di vicino o di estraneo?
-Pensi che la vostra generazione sopravviva anche grazie ai risparmi accumulati da quelle precedenti (nonni e genitori per intenderci)?
-Cosa pensi del Primo Maggio?
-Pensi che andrebbe innovato, se sì come?
Qui potete trovare le risposte complete.
Prima di addentrarci nell’analisi delle risposte per noi più significative ci sembra opportuno fare un breve riepilogo/quadro per delineare meglio l’identità degli intervistati
Si tratta di 6 ragazze e 4 ragazzi. L’età è compresa tra i 20 e i 25 anni. Hanno tutti terminato le scuole superiori ottenendo il diploma. Tutti (tranne una) stanno seguendo un corso universitario. E’ come se l’università, almeno il triennio, fosse diventato un supplemento di scuole superiori. Dalle risposte sulla facilità o meno di trovare lavoro nella nostra metropoli emerge con evidenza che a Milano il lavoro si trova, ma precario e a basso indice di professionalità. Tutti gli intervistati, seppur molto giovani, hanno già fatto più di 3 lavori. Qualcuno addirittura oltre i 6. Come settori di impiego più gettonati troviamo al primo posto la ristorazione/cameriere/catering, l’assistenza ai bambini (babysitting) e il volantinaggio. In netto declino i call-center, grande “must” della generazione precedente tra gli anni ‘90 e 2000. Le posizioni lavorative sono quelle caratterizzate dai contratti atipici: contratti a chiamata, somministrazione, lavoro intermittente. Il pagamento è quasi sempre con voucher. Altrettanto spesso in nero. Solo una persona ha raggiunto quello che, molto spesso, rimane solo un miraggio: il contratto a tempo indeterminato.
Entriamo ora nel “cuore” dell’intervista con le domande di maggiore rilevanza sociale e poltica. Di seguito una sintesi e i passi più significativi delle risposte che l’hanno determinata.
Il giudizio sui voucher è piuttosto impietoso. Se in un ragionamento articolato qualcuno accenna alla loro utilità per uscire dal lavoro nero o da altre forme di lavoro assimilabili, tutti lo descrivono come strumento di precarietà totale e ricattabilità.
Ecco le risposte alla domanda: “Cosa pensi dei voucher?”.
* Che forse è più dignitoso essere pagato in buoni pasto per fare la spesa.
* In nero si guadagna di più, aldilà del baby-sitting soprattutto in contesti a chiamata (come possono essere appunto i catering).
* Essere pagata in voucher non mi piace perché il guadagno non corrisponde alle ore di lavoro realmente svolte; permette al datore di lavoro di non farmi un contratto ma essere comunque tutelata; rende precari a vita, non sai se e quando verrai richiamato indipendentemente dalla tua prestazione lavorativa.
* Che sia uno strumento per portare il lavoro occasionale fuori dalle logiche del lavoro nero, ma che non essendoci delle particolari categorie lavorative a cui esso è dedicato fa si che diventi uno strumento di sfruttamento. Pensando alla mia breve esperienza lavorativa solo il lavoro di steward rientra nei “canoni” di un lavoro occasionale perché non è continuativo.
* Penso che la deriva del mercato del lavoro verso la tendenza nel “voucherizzarsi” sia il tentativo di rendere sempre piu precario un mondo a cui è già difficile avere accesso nelle modalità standard; in effetti per chi come me necessita di piccoli lavoretti per “arrivare alla fine del mese” può essere un compromesso a cui si può essere disposti a scendere, ma al contrario chi vive di voucher, ha la propria esistenza appesa ad un filo i cui capi sono la precarietà e la speranza, quest’ultima è la possibilità, un giorno, di poter avere un contratto di lavoro serio che emancipi la persona dal limbo dell’ignoto a cui spesso siamo sottoposti.
* Penso che siano una forma di sfruttamento simile a quando nel ‘900 si lavorava a giornata.
* Penso che i voucher siano strumento di un sistema lavorativo basato su un rapporto sbilanciato in favore del datore di lavoro e al contempo un estremo tentativo dello Stato di ‘tirar su spicci’ sulle tasche di piccoli imprenditori e lavoratori.
* Possono risultare utili per la tipologia contrattuale intermittente. Come spesso accade però, abusandone, si rischia che diventino l’ennesimo modo per sfruttare i lavoratori la cui gran parte della paga verrà data loro ‘in nero’ lasciandoli quindi senza tutele.
* Penso che sia il modo più semplice per fare accettare alle persone la dilagante precarizzazione. Al posto di assumerti, ti fanno lavorare lo stesso numero di ore per un salario inferiore. A questo punto preferisco lavorare in nero.
* Penso che i lavori che fai, solitamente venendo pagato in voucher, sono frustranti a prescindere dalle modalità di pagamento. Sono lavori che uno fa solo quando ha bisogno di soldi e non c’è altro modo di ottenerli. Chiaramente i voucher fanno schifo, è come lavorare in nero, però in genere questo tipo di lavori fa ancora più schifo a prescindere dal modo in cui ti pagano… Che sia voucher o contratto a tempo determinato resti comunque uno schiavetto da due soldi.
Per quanto riguarda la platea dei nostri intervistati le violazioni della disciplina sui voucher non sono state così frequenti, ma si sono comunque evidenziate con le seguenti modalità: ritardo nei pagamenti, versamento di meno voucher rispetto alle ore realmente lavorate, stipendi parzialmente versati in nero e mancato rispetto delle procedure relative alle informazioni da girare all’INPS.
Di fronte alla domanda. “Cosa pensi della frase ‘meglio i voucher che la disoccupazione?’” le risposte sono quasi tutte contrassegnate da un solido realismo. Quasi tutti ammettono che, di fronte alla scelta se dover rimanere senza lavoro e senza soldi e dover accettare i voucher, ci si rassegna e adegua accetando i secondi. Quasi tutti gli intervistati evidenziano comunque le forme di ricattabilità derivanti dalla precarità. Ci sono poi battute sarcastiche che si rifanno all’antico motto milanese: “Piutost che nient l’è mei piutost!” (“Piuttosto che niente, meglio piuttosto). Qualcuno dice che piuttosto che essere pagato in voucher preferisce il lavoro nero! Altri che scegliere tra voucher e disoccupazione è un po’ come dire ‘alle elezioni mi tappo il naso e voto Pd’…
Significativi alcuni spunti che emergono nelle risposte alla domanda che si concentra sulla soggettività precaria chiedendo quale sarebbe lo strumento utile per organizzarsi e pretendere i propri diritti.
Emerge la richiesta di un salario minimo comune che eviti la “guerra tra poveri” ovvero la corsa al ribasso sugli stipendi, così come quella di avere degli sportelli organizzati dal basso per lavoratori precari.
Una proposta interessante che emerge due volte è quella di organizzare dei gruppi di attivisti e precari capaci di andare a intervenire nei luoghi dove si vive la precarietà per rivendicare diritti. Una sorta di evoluzione di quella che nel 1977 era la “ronda proletaria” contro il lavoro nero. Questo perché il lavoro precario è frammentato e atomizzato. Il precario non può quindi “metterci la faccia” sul suo posto di lavoro rischiando di essere lasciato immediatamente a casa nel momento in cui cercasse di organizzare una lotta. Se però un gruppo “esterno” costituito sia da attivisti sociali che da precari che lavorano altrove intervenisse costantemente su quel luogo di lavoro rivendicando maggiori diritti forse qualcosa potrebbe cambiare.
Ecco le risposte alla domanda: “Secondo te quale sarebbe uno strumento utile ai precari per organizzarsi per pretendere i loro diritti”?
* Rifiutare tutti insieme di essere pagati in nero organizzando una ronda anti-sfuttamento quantomeno per i negozi/locali nel centro di Milano (quelli che sfruttano di più i giovani).
* 1 fare analisi 2 fare autocritica 3 narrarsi 4 mettere in crisi i poteri che ci confinano a una vita di precarietà e di “meglio…che…”.
* Servirebbe un’azione collettiva da parte dei precari attraverso il loro diritto di manifestare, guidati e spronati da un Sindacato (ma di quelli con la S maiuscola).
* Eh…domanda molto difficile, ormai con la “smart economy” si sta perdendo la figura del sindacalista e il metodo della contrattazione collettiva. I lavoratori sono spronati dal datore di lavoro ad una continua guerra tra poveri. Ne è un caso emblematico la categoria dei “food riders” perchè oltre a non avere nessun tipo di tutela né infortunistica né in caso di rottura del mezzo, con la conseguenza di non poter più lavorare per un determinate periodo, in caso di “sciopero” sarà molto facile per il datore di lavoro licenziare indiscriminatamente chi aderisce ad esso, visto la continua ed incessante offerta di lavoro da parte dei cittadini milanesi. Quindi purtroppo non saprei che forme di lotta utilizzare per evidenziare con forza il problema tutelando la vita dei lavoratori.
* Sicuramente aldilà della dimensione politica “astratta” alla quale ci rivolgiamo quando pensiamo ai diritti dei lavoratori e a come conquistarli, uno strumento utile potrebbe essere quello di creare uno sportello utile ai lavoratori pagati in voucher che spieghi in parole semplici come funziona in realtà il sistema lavorativo senza giri di parole.
* Mettere in rete le lotte dei precari e fornire indicazioni su come sostenerli.
* Nessuno strumento organizzativo potrà mai risolvere la questione del precariato finchè ci sarà una così grande offerta di forza lavoro a basso prezzo. I precari dovrebbero organizzarsi per la lotta su un salario minimo comune a tutti così che chi offre lavoro non possa giocare al ribasso sfruttando la disperazione.
* Prima di tutto conoscerli, non è scontato purtroppo.
* Se avessi la ricetta per fare la rivoluzione la condividerei. Sicuramente è necessario, ma non sufficiente, che siano tutti uniti su “un unico fronte”, nel senso che forse è meglio concentrarsi su obiettivi comuni mirati e precisi, senza che le varie rivendicazioni, giustissime senza dubbio, vengano confuse e perdute. Personalmente non credo che nella nostra “democrazia” occidentale (come nelle altre e quelle che le seguono) sia possibile estinguere il problema del precariato, tuttavia ritengo anche che queste lotte siano necessarie affinchè il presente possa essere più dignitoso.
* Penso che una delle caratteristiche dell’ultraprecariato di oggi, specie chi lavora in voucher, sia quella di non poterci mettere la faccia. Sei talmente ricattabile che se ti lamenti ti licenziano, figurati se scioperi. In più il precariato oggi, a differenza della classe operaia di ieri, è frammentato, lavora quasi solo nel terziario. Si condivide poco dei problemi l’uno dell’altro tra colleghi, ma si avverte tanto tra amici e coetani che vivono le stesse condizioni lavorative. Se prima si diceva che era utile intrecciare le lotte penso che ora debba essere una tattica che sta alla base di tutto. Nei miei viaggi utopici secondo me bisognerebbe fare che se io lavoro da Foodora e tu in una ONG dove ti sfruttano, io vengo fuori dalla tua ONG e tu vieni fuori da Foodora, una sorta di precariato anonimo dove, dato che chi lavora non ci può mettere la faccia, vengono gli altri al posto tuo a protestare, e tu al posto loro, con dei delegati che si occupano di gestire le vertenze. Una delle esperienza di sindacalismo sociale fatto da ultra-precari che mi ha stupito di più è stata in Grecia, dove in questo modo riuscivano a rompere le scatole ai datori di lavoro senza rimetterci la faccia e il posto di lavoro. Se poi ci metti che nel terziario quasi tutte le aziende investono sul marketing e sul branding perchè ormai quello è tutto, il danno di immagine diventa uno strumento di pressione che oggi più che mai può servire a raggiungere dei risultati. Spendono centinaia di migliaia di euro per rendere appetibile il loro logo, noi invece possiamo infangarli senza spendere un euro.
La domanda che ottiene risposte assolutamente univoche è quella relativa al ruolo del sindacato. Esso viene percepito come qualcosa di totalmente estraneo anche perché, molto probabilmente, i luoghi di lavoro attraversati dalla generazione under25 raramente vedono al loro interno la presenza strutturata del sindacato.
La domanda successiva è relativa all’importanza del sostegno economico dato ai giovani dalle generazioni precedenti. Siamo stati stimolati nell’introdurre questa domanda da uno spunto interessante sorto in relazione alle lotte francesi dell’anno passato contro la Loi Travail (ma si potrebbe parlare anche delle lotte contro il CPE del 2006). Qualcuno argomentava che il motivo per cui non c’è una ribellione generazionale in Italia sono legate all’esistenza di una sorta di “welfare familistico” che garantisce i più giovani nei momenti di difficoltà economica. Non è un caso che l’Italia sia uno dei paesi con il maggiore risparmio privato del mondo e in cui i giovani lasciano la famiglia in età molto avanzata. Qualcuno sostiene che ciò che non fa lo Stato, a livello di welfare, lo fanno le famiglie e questo sarebbe un freno all’esplodere della consapevolezza e quindi del conflitto. Ponendo la domanda le risposte sono state quasi tutte affermative. La maggior parte degli intervistati si dichiara d’accordo nel sostenere che i risparmi delle due generazioni precedenti sono ancora una garanzia. Emerge però forte la consapevolezza che i risparmi non dureranno in eterno e che questa generazione avrà una condizione lavorativa e di benessere sociale inferiore a quella dei propri genitori.
Arriviamo così alle ultime due domande: ”Cosa pensi del Primo Maggio?” e “Pensi che andrebbe innovato, se sì come? Molti ribadiscono l’importanza della data, sia per la sua valenza storica, che per la possibilità pratica di dimostrare come oggi il precariato sia un soggetto sociale gigantesco. Nelle risposte si nota un certo senso di smarrimento su come declinare nel futuro una data ritenuta ancora importante. Emerge che il percorso della Mayday Parade, iniziato il Primo Maggio 2001 è arrivato in qualche modo a conclusione col Primo Maggio NoExpo 2015, ma è difficile individuare una nuova strada. Qualcuno parla di maggiore radicalità, qualcuno di portare il conflitto nei territori quotidianamente attraversati dalla precarietà. Qualcun’altro di una giornata da utilizzare per “mostrare” alla metropoli le lotte più significative che si sono espresse sui territori nel corso dell’anno.
Nel prossimo capitolo approfondiremo gli spunti emersi dalle interviste.
(continua…)
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