Cariche della polizia al funerale di Shireen Abu Akleh
«I poliziotti ci colpivano con i manganelli e poi hanno lanciato granate assordanti solo perché qualcuno sventolava la bandiera palestinese. A un certo punto ho visto la bara vacillare, sul punto di cadere. Ho chiuso gli occhi temendo il peggio». Fares Attias ieri Sheikh Jarrah raccontava la carica degli agenti al corteo funebre di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese della tv Al Jazeera uccisa mercoledì in Cisgiordania durante un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin. Scene che sui social hanno fatto il giro del mondo. Assieme a quelle delle ali di folla formate da decine di migliaia di persone che hanno accompagnato il feretro lungo tutto il tragitto da Sheikh Jarrah fino alla chiesa e poi al cimitero cristiano nella città vecchia di Gerusalemme. Immagini indelebili che dimostrano l’affetto sincero dei palestinesi nei confronti di una reporter che da oltre 20 anni, girando in lungo e in largo la Cisgiordania, riferiva la realtà dell’occupazione militare. Shireen Abu Akleh ormai è un simbolo e modello da seguire per tutti i palestinesi, donne e uomini.
Non si vedeva a Gerusalemme tanta partecipazione ai funerali di un palestinese dalla morte 21 anni fa di Faisal Husseini, storico leader di Gerusalemme e figlio dell’eroe nazionale Abdel Qader Husseini caduto in combattimento nel 1948. Le esequie di Shireen Abu Akleh sono state un raro momento di unità nazionale in cui i palestinesi si sono riscoperti un unico popolo e non più cristiani e musulmani, come invece vorrebbero le forze esterne, ma anche interne, che puntano a tenerli divisi. «Il tributo che una folla tanto ampia ha dato a Shireen è allo stesso tempo la celebrazione della sua vita e il motivo di una grande rabbia per il modo in cui è stata uccisa. Shireen è entrata in ogni singola casa palestinese. Ogni casa araba. Attraverso di lei il mondo ha capito cosa significa essere un palestinese», ripeteva ieri ai giornalisti l’esperta di diritto internazionale Diana Buttu.
Intanto proprio le indagini avviate dall’esercito israeliano cominciano a sgretolare la certezza assoluta espressa dal premier Naftali Bennett, da esponenti del governo e da rappresentanti diplomatici israeliani, che la responsabilità dell’uccisione di Abu Akleh sia da attribuire soltanto ai palestinesi che mercoledì avevano aperto il fuoco contro i reparti militari entrati a Jenin. Gli accertamenti svolti non offrono conclusioni definitive sull’origine dello sparo che ha colpito la giornalista, ma tra le ipotesi c’è che il proiettile possa essere partito dai militari israeliani. «Rimane la possibilità che sia stata colpita dagli spari delle forze armate contro i terroristi (i palestinesi, ndr)», è scritto nel rapporto preliminare secondo cui la giornalista era a circa 200 metri dai soldati. Questi risultati contemplano naturalmente la possibilità che uomini armati palestinesi impegnati «a colpire i mezzi delle forze israeliani con decine di proiettili in modo incontrollato, abbiamo sparato nella direzione in cui si dirigeva la giornalista». Israele vorrebbe sottoporre il bossolo a una perizia balistica ma i palestinesi hanno confermato di non voler consentire a Israele di esaminare il proiettile che ha ucciso la donna e respinto la richiesta del governo Bennett di indagini congiunte.
A Jenin e nell’area circostante, l’esercito e i reparti speciali della polizia ieri hanno portato a termine una nuova incursione, volta ad arrestare un palestinese ricercato dall’intelligence israeliana. L’uomo, un giovane, si è arresto quando l’abitazione in cui si trovava è stata presa di mira da razzi anticarro. Gli israeliani però hanno dovuto fare i conti con un intenso fuoco di sbarramento palestinese. Gli scambi di raffiche sono andati avanti per ore e un ufficiale dell’unità speciale della polizia Yamam, Naom Raz, 47 anni, è stato ucciso mentre con i suoi uomini stava effettuando incursioni in case palestinesi a Burqin. Almeno 13 palestinesi sono rimasti feriti – due sono in condizioni critiche -, tra i quali Daoud Zubeidi, fratello di Zakaria Zubeidi ex comandante delle Brigate di Al Aqsa a Jenin e protagonista lo scorso anno di una clamorosa fuga dal carcere israeliano di Gilboa. Diciannove israeliani sono stati uccisi in attacchi palestinesi nelle ultime settimane. Più di 30 invece sono i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano, in prevalenza nell’area di Jenin: tra di essi una donna disarmata e almeno due passanti.
Intanto quindici paesi europei tra cui Italia, Francia, Germania, hanno chiesto a Israele di fermare il progetto appena annunciato per la costruzione di più di 4.000 case nei suoi insediamenti coloniali in Cisgiordania. «Occorre revocare questa decisione», hanno scritto chiedendo agli israeliani anche «di non procedere con le previste demolizioni o espulsioni (di 1300 palestinesi, ndr), in particolare a Masafer Yatta».
di Michele Giorgio
da il Manifesto del 14 maggio 2022
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