“A taxi driver”, una perla del cinema coreano da conoscere
Quando si pronuncia la parola Corea, quasi automaticamente, emergono due immagini. Una agli antipodi dell’altra.
La prima riguarda Kim che sghignazza mentre i suoi generali eseguono l’ennesimo test balistico. La seconda è invece associata a K-pop e K-drama/K-series.
Sì, perché la Corea è ufficialmente divisa in due dall’armistizio (non pace) che ha posto fine ai tre anni di tremende ostilità tra il Nord comunista e il Sud filoccidentale. Con tanto di intervento americano e poi cinese a favore dei due contendenti, che ha tra l’altro registrato la folle (e dimenticata) proposta del Generale McArthur, comandante delle forze alleate in Corea, di usare le bombe atomiche contro la Cina di Mao.
Nel tempo abbiamo quindi sviluppato due idee ben distinte e separate della Corea, tra loro totalmente incompatibili e, soprattutto, apparentemente immutabili. Se questo può valere per il Nord, da sempre Paese quasi irraggiungibile e insondabile, altrettanto non vale per il Sud, che non ha sempre vissuto della democrazia liberale iperefficiente di cui fa sfoggio oggi. La storia della Corea del Sud è stata infatti per lungo tempo quella di regimi militari mascherati con qualche orpello di finta democrazia, conflitti sociali durissimi e ripetuti bagni di sangue causati dai militari. I quali, al ritmo della consueta scusa della “minaccia comunista” (vi ricorda qualcosa?), hanno agito violentemente contro qualsiasi tentativo di turbare l’ordine costituito anche da parte della popolazione civile. Basti pensare alla mattanza dell’isola di Jeju subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, alla repressione della Rivoluzione d’aprile del 1960 che riuscì comunque a cacciare il primo presidente Syngman Rhee e, infine, al massacro di Gwangju del maggio 1980.
Proprio di quest’ultima tragica vicenda parla il film A taxi driver (da non confondere col quasi omonimo successo di Scorsese degli anni Settanta), il film coreano più visto nel 2017 e che, secondo molti coreani, avrebbe meritato l’Oscar ben prima di Parasite.
Kim Man-seob, il protagonista assoluto, è un taxista di Seoul, vedovo con una figlia piccola da mantenere ed eternamente in bolletta. Il suo vecchio taxi, insieme alla figlia, è una delle poche cose cui tiene nella vita, essendo stata la moglie morente a suggerirgli di acquistarlo per garantire la sopravvivenza della famiglia. Poco interessato alla politica, lo si potrebbe definire un “coreano medio”, che tendenzialmente non ama il disordine e se deve scegliere con chi schierarsi non esita ed allinearsi, insieme alla famigerata maggioranza silenziosa, con le autorità. Questo all’inizio della narrazione.
Kim Man-seob trova la sua personalissima gallina dalle uova d’oro nella figura del giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter, intenzionato a raggiungere con ogni mezzo possibile la città di Gwangju, nel Sud del Paese, dove è in corso una rivolta (prima studentesca e poi popolare). La città è isolata dal resto della Corea da una imponente cintura di posti di blocco dell’esercito e nessuno sta documentando quello che succede nelle sue strade, perché la stampa coreana è sottoposta a censura e quella internazionale non è presente. Le uniche fonti di informazione sono i telegiornali di regime (“tutta colpa dei comunisti!”) e le voci che serpeggiano tra la gente. Hinzpeter vuole vedere in prima persona cosa sta succedendo in città ed è disposto a pagare 100.000 won (tantissimo nel 1980) per raggiungerla. Grazie alla soffiata di un amico, Man-seob riesce a ottenere il lavoro. Da qui inizia un avventuroso viaggio nel corso del quale si assiste non solo al cambiamento del modo di pensare del protagonista, ma anche a un avvicinamento umano tra il taxista coreano e il giornalista tedesco, all’inizio separati da un muro di freddezza, diffidenza e differenze culturali, nonché da caratteri diametralmente opposti: caciarone e menefreghista il primo, freddo e perfezionista il secondo.
Il contatto, dapprima guardingo e sospettoso, poi via via sempre più aperto con i ribelli di Gwangju, con la loro umanità e i loro gesti di eccezionale solidarietà, unito all’assistere in prima persona alle feroci azioni dell’esercito contro i suo cittadini, avvierà il cambiamento interiore di Man-seob. Il quale, all’inizio suo malgrado e poi per riflessione e scelta, finisce per dare il suo contributo diretto alla rivolta, in un immaginario percorso parallelo a quello del nostro Alberto Sordi di Tutti a casa.
Il film, pur con alcune licenze narrative, è basato su una storia vera. Unico limite: alcune escape scenes risultano eccessive rischiando, a tratti, di farlo diventare forzatamente un action movie. Ma, appena la cinepresa torna sui personaggi, sui loro volti e sulla mattanza in corso a Gwangju a opera di un esercito che spara sul suo stesso popolo, queste criticità vengono immediatamente dimenticate.
Da vedere.

Prigionieri legati vengono fatti sfilare dall’esercito dopo la soppressione nel sangue della rivolta.
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