Coloro che cento anni fa, per vent’anni, seppero opporsi

Grandi promesse,
la Patria e l’Impero,
sempre più donne vestite di nero.
Allarmi che suonano,
in macerie le città
(La fabbrica, Stormy Six, 1975)

Molto abbiamo scritto, nelle nostre recensioni, di antifascismo e fascismo concentrandoci soprattutto sulle vicende del biennio 1943-1945. Ora, a pochi giorni dal centesimo anniversario della Marcia su Roma, sommersi da pubblicazioni che raccontano le presa del potere da parte dei fascisti (e i gravi errori di chi si opponeva al loro dilagare) e nel momento in cui l’erede di quella tradizione politica è in procinto di diventare Presidente del Consiglio dopo aver vinto le elezioni del 25 settembre, scriviamo dell’opposizione al fascismo nei vent’anni di dittatura recensendo Il dissenso al fascismo, gli italiano che si ribellarono a Mussolini 1925-1943 di Mario Avagliano e Marco Palmieri.

Non volendo approfondire i tanti errori che spianarono la strada ai fascisti, ne citiamo solo tre per poi passare al succo del libro:

-La responsabilità dei liberali che in ben due elezioni, l’ultima libera del 1921 e la prima non libera del 1924, si prestarono a presentarsi in lista con gli uomini di Mussolini prima nel Blocco Nazionale e poi nel cosiddetto Listone.
-Il massimalismo parolaio dei socialisti che dimostrarono che non basta parlare continuamente di rivoluzione per saperla fare.
-L’impotenza a cui si condannò la secessione dell’Aventino dopo l’omicidio Matteotti aspettando un intervento di Vittorio Emanuele III che mai arrivò.

 

L’universo repressivo del fascismo

Andando diritti al cuore della narrazione è impressionante il dettagliato elenco di tutte le misure repressive legali e operative messe in campo dal fascismo sin dal celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 in cui egli “rivendicò” l’omicidio Matteotti e con il quale, per convenzione, si identifica l’inizio della dittatura. Il Ministro dell’Interno Federzoni ordinò alle autorità locali di entrare in azione e in 48 ore vennero chiusi 95 circoli, 150 esercizi pubblici, 25 associazioni, 120 gruppi di Italia Libera (associazione politica repubblicana e antifascista), effettuate 655 perquisizioni e arrestate 111 persone.

Al di là della minuziosa analisi, singolo provvedimento per singolo provvedimento, delle leggi fascistissime che in pochissimi anni fecero terra bruciata della democrazia nel paese, grande attenzione viene data a tutti gli apparati repressivi del regime. Tra queste il famigerato Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato dove, il maggior numero di imputati furono operai e contadini (giusto per capire qual era ed è sempre stato il primo nemico del fascismo). Vi è poi la descrizione di tutti gli strumenti polizieschi incaricati di annichilire qualsiasi opposizione con un’ampia scelta che va dagli Uffici Politici Investigativi alla Milizia passando per l’OVRA e arrivando al Casellario Politico Centrale con le schedature di massa dei cittadini (destinati spesso e volentieri a perdere il lavoro). C’è poi il ventaglio delle cosiddette “misure di Polizia” molto più rapide ed efficaci dei lunghi procedimenti penali. Qui si va da quello che viene chiamato ammonimento (in tutto e per tutto simile all’attuale sorveglianza speciale) a quello che il celebre antifascista Lussu definì il “capolavoro del regime” ovvero il confino. Una misura amministrativa che coinvolse circa 18.000 persone (tra cui molti omosessuali) e che aveva tali e tanti margini di genericità, discrezione e arbitrio da risultare spesso e volentieri la via preferita dalle autorità per punire gli oppositori.

Oltre che l’essere allontanati dal luogo in cui si viveva, con il confino, per tanti antifascisti e antifasciste si aprirono per molti anni le porte delle carceri dove le condizioni di detenzione erano molto dure, ma dove, paradossalmente, sembrava esserci più agibilità politica che fuori nella vita di tutti i giorni.

Nonostante questa coltre plumbea ci furono diversi tentativi riusciti di fuga dalle grinfie delle autorità fasciste (dal paese, dal confino e dal carcere) e quando questi furono coronati da successo come quella di Turati nel 1926 o quella di Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti  e Carlo Rosselli dal confino di Lipari nel 1929, i capi fascisti andarono su tutte le furie come su tutte le furie andarono per i due raid aerei antifascisti coronati da successo: il primo su Milano nel 1930 e il secondo su Roma nel 1931.

Tutto ciò mette in evidenza come, a differenza di quanto sostiene una vulgata storica giustificazionista e riduzionista, l’Italia è il primo stato compiutamente totalitario. Prima ancora dell’Unione Sovietica staliniana e della Germania nazista.

La celebre vignetta del popolarissimo giornale satirico “Il becco giallo” sulle responsabilità di Mussolini nell’omicidio Matteotti. Il giornale fu chiuso dai fascisti nel 1926.

L’emigrazione politica

Dalla presa del potere di Mussolini l’emigrazione politica divenne un fenomeno consistente. Gli antifascisti e le antifasciste costretti alla fuga spesso si paragonavano ai patrioti delle prime fasi del Risorgimento tracciando un parallelo tra due forze minoritarie, ma estremamente determinate e convinte delle proprie idee.

Il fascismo reagì con durezza al fenomeno degli esuli togliendo loro la cittadinanza e tentando più volte di bloccare l’emigrazione.

Vi è nel libro una descrizione dei tanti paesi che come per l’emigrazione economica dei decenni precedenti hanno accolsero i rifugiati italiani. Prima tra tutti la Francia che ne ricevette circa 25.000. La Francia divenne il luogo dove avvennero i passaggi politici decisivi per l’alleanza delle forze politiche antifasciste italiane. Gli Stati Uniti furono invece meta prima delle fasce intellettuali e poi, a partire dal 1938, della diaspora ebraica. Anche l’Unione Sovietica accolse diverse migliaia di oppositori. In URSS si passò rapidamente dalla libertà d’azione degli anni Venti alla repressione sotto Stalin determinata da due fattori principali: la diffidenza del potere sovietico verso gli stranieri visti come possibili spie e le terrificanti purghe nel PCUS dalla metà degli anni Trenta costate la vita anche a molti comunisti italiani.

 

Gli intellettuali antifascisti

Il Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925 fu un momento molto importante di opposizione a un totalitarismo non ancora completamente dispiegato. I numeri di adesione furono buoni, ma si trattò comunque di una reazione al dinamismo fascista. Fu una risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti ideato da Giovanni Gentile.

Con margini di agibilità sempre più ristretti nel giro di pochi anni si arrivò all’obbligo di giuramento al regime per i professori universitari voluto sempre da Gentile nel 1931 (giusto per ricordare le responsabilità del filosofo poi ucciso dai partigiani nel 1944 spesso descritto come un’anima candida). Solo 12 su 1.225 non giurarono. Vennero tutti destituiti. Gli autori dedicano a ognuno di loro delle doverose note autobiografiche.

Tra le case editrici, quelle “ribelli”, furono la Laterza di Bari e la Einaudi di Torino. Allineate invece Bompiani, Mondadori e Rizzoli.

 

La crisi del 1929 e l’inquietudine sociale

La crisi economica del ’29 scoppiata a Wall Street e diffusasi rapidamente in tutto il globo creò malcontento specie nelle classi popolari. Ci furono episodi che la storiografia ha rimosso come numerosi scioperi al Nord e delle vere e proprie jaquerie al Sud. Nella versione apologetica del Ventennio è stata totalmente espunta la durezza della vita per le classi più povere e come il corporativismo in realtà abbia quasi sempre favorito la parte padronale a discapito di lavoratori e lavoratrici.

In questo quadro va sottolineata la capacità del Partito comunista (nonostante i continui cambi di strategia voluti da Mosca dove divampava lo scontro interno nel PCUS) di ampliare la propria rete di militanti nei primi anni Trenta anche grazie al dato oggettivo della crisi economica. Ne conseguì una dura repressione poliziesca. L’orizzonte della lotta armata seppur concretamente praticabile da una rete clandestina di circa 10.000 militanti era ancora lontano. Ci volle la Seconda Guerra Mondiale a renderlo anche solo immaginabile.

Una nota particolare, così come un capitolo del libro va dedicato all’humor sotto il regime. In un popolo scettico e ironico come gli italiani le barzellette contro la dittatura si diffusero rapidamente. Nell’opera di Avagliano e Palmieri si trova un divertente rendiconto delle battute più diffuse. In questo c’è però un rischio concreto: far prevalere gli aspetti grotteschi e ridicoli del  Ventennio rischia di sminuire e ridurre la memoria della sua ferocia totalitaria e della tragedia storica che il fascismo ha significato.

 

Impero e apogeo. Spagna e ripensamenti

La guerra d’Etiopia di metà anni Trenta fu il vero apogeo di consenso del regime fascista che ebbe l’intelligenza politica di spostare all’esterno le tensioni che covavano sotto la cenere  già all’epoca nella società italiana inventandosi un’avventura esotica e lontana per “riscaldare” i cuori (il che ricorda in tutto e per tutto l’invasione delle Falkland voluta dalla dittatura argentina in crisi di consensi nel 1982 e trasformatasi dopo un’iniziale vittoria nella tomba dei generali). Al resto ci pensarono le sanzioni e quello che venne percepito come ipocrita accerchiamento internazionale fatto da paesi come Regno Unito e Francia che, dal punto di vista di prepotenze coloniali, non avevano proprio nulla da insegnare.

Se il punto più alto fu la proclamazione dell’Impero già con la guerra civile in Spagna. sempre nel fatidico 1936 la situazione cambiò. Migliaia di italiani combatterono nelle fila della repubblica spagnola (anche in questo caso in gran parte provenienti dalle fasce più umili della popolazione). E nella battaglia di Guadalajara del marzo ’37 che vide contrapposti italiani antifascisti contro italiani fascisti con la vittoria dei primi si ebbe un momento simbolicamente importante. La guerra di Spagna gettò un primo seme di dubbio e di riflessione tra moltissimi giovani che potremmo definire “fascisti di sinistra” e che, essendo nati e cresciuti sotto la dittatura, non avevano mai potuto immaginare né sperimentare qualcosa di diverso.

 

Leggi razziali, alleanza con la Germania nazista ed entrata in guerra

Le vergognose leggi razziali contro gli ebrei del 1938, all’epoca più dure della legislazione nazista, se furono un momento di frattura per una minoranza, furono vissute con una certa indifferenza dalla maggior parte della popolazione nella quale prevalsero, se andava bene, sentimenti di pietismo impolitico.

Va detto che dallo scetticismo per l’alleanza coi tedeschi e un’inziale opposizione silenziosa al conflitto nel 1939, nella primavera del ’40, grazie alle travolgenti vittorie naziste su tutti i fronti, si arrivò a un certo entusiasmo per la guerra. E’ quindi oggettivamente falso dire che quando Mussolini dichiarò guerra dal balcone di piazza Venezia il 10 giugno 1940 egli fosse solo. Il leader del fascismo non aveva fatto altro che interpretare e amplificare all’ennesima potenza un connaturato difetto degli italiani: il salto sul carro del vincitore.

 

1940-1943, di disastri in disastro

Da quel momento si ebbe un’impressionante collezione di disastri e sciagure che andarono dalla Grecia all’Africa (sia settentrionale che orientale) passando per la Russia e per le città italiane bombardate. Tutto ciò servì definitivamente a far aprire gli occhi a molti italiani. Ci si rese contro della distanza siderale tra il mito e la retorica dell’Italia guerriera e la sconfortante realtà quotidiana. La roboante retorica fascista non resse più alla prova dei fatti diventando ancor più insopportabile. La triste verità marciò sulle gambe delle centinaia di migliaia di soldati mobilitati e sulle onde delle radio nemiche, prima tra tutte Radio Londra.

Il momento simbolico in cui le campane a morto per il fascismo iniziarono a suonare fu il 5 marzo 1943 con gli scioperi operai a Torino che coinvolsero più di 100.000 lavoratori per poi estendersi, da metà marzo, anche a Milano e ad altre città del Nord. Scioperi che, alcuni come Renzo De Felice, minimizzano per portata politica commettendo però a nostro giudizio un grave errore interpretativo. Lo sciopero sotto un regime totalitario è un gesto quanto mai politico. Non parliamo poi dello sciopero sotto un regime autoritario in stato di guerra!

L’uno-due finale che portò al rapido collasso del fronte interno fu lo sbarco alleato in Sicilia e il bombardamento di Roma il 19 luglio 1943.

I tempi erano maturi per la notte del 25 luglio 1943 quando il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini poi destituito dal re il giorno successivo. Da lì i festeggiamenti popolari e la distruzione dei simboli del regime nei giorni successivi e lo sciogliersi come neve al sole di tutti gli apparati della dittatura fascista. Fascisti che tornarono, molti di meno, ma molto più rabbiosi e con voglia di vendetta, solo con la nascita della RSI e lo scoppio della guerra civile. Il peggio infatti doveva ancora arrivare.

L’antifascismo e l’opposizione ne escono come un fenomeno per lungo tempo minoritario, ma ancor più nobile e coraggioso. Capace di tenere accesa una fiammella di libertà delle coscienze anche nei momenti più bui quando si era circondati da una vastissima zona grigia punteggiata di spie e delatori in servizio permanente effettivo. Aspetto ancor più meritevole in un paese come l’Italia dove, più che un cieco fanatismo, vinsero un consenso determinato da quieto vivere e squallido conformismo. Elementi validi anche in questo ottobre 2022.

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