Fascismo. Perché proprio in Italia?

Moltissimi sono i libri usciti in occasione del centenario della Marcia su Roma, molti con in copertina il mascellone di Benito Mussolini, che per vendere qualche copia in più, si sa, vale tutto. Del resto business is business. Uno in particolare ha attratto la nostra attenzione innanzitutto, dobbiamo confessarlo, per la sobrietà dalla cover. Si tratta di Perché il fascismo è nato in Italia di Marcello Flores e Giovanni Gozzini pubblicato per Laterza. Degli stessi autori, all’inizio del 2021, avevamo già recensito Il vento della rivoluzione.

Il libro parte dalla Prima Guerra Mondiale come elemento determinante per tutto quel che verrà dopo.
La guerra è un tema fondativo che, come sempre capita, esige scelte nette, senza nessuna possibile posizione intermedia: o di qua o di là.
Nell’estate del 1914 il richiamo della foresta nazionalista spazza via in pochi giorni i sogni dell’internazionalismo proletario.
Ed è proprio in quel momento che Mussolini fa la sua scelta: a favore della guerra. Tutto ciò che ne seguirà non sarà che una logica conseguenza di quella scelta.
Non è un caso infatti che nel 1918 il Popolo d’Italia non è più un “quotidiano socialista”, ma “quotidiano dei combattenti e dei produttori”. Quando si parla di produttori indistintamente c’è la certezza che ci si trova nell’anticamera di posizioni di destra.

La prima pagina del “Corriere della Sera” del 24 maggio 1915.

Con la Prima Guerra Mondiale la brutalità e il disprezzo della vita vengono sdoganati, con gradazioni diverse, in tutto il continente.
Se si va all’ultimo capitolo si può leggere un’efficace analisi comparata dove si può riscontrare che quasi nessun lembo di terra europeo è stato esente dagli sconvolgimenti causati dal grande conflitto: dall’Italia alla Germania, dalla guerra di indipendenza irlandese a quella civile in Finlandia, dal sanguinoso scontro tra Greci e Turchi all’affermarsi di uno stato indipendente polacco finendo al massacro della guerra civile in Russia. La costante accomunante di situazioni così diverse sembra essere il trionfo dei gruppi paramilitari che la fanno da padrona e il ritorno della ferocia contro i civili a livelli pari a quelli della Guerra dei Trent’anni di tre secoli prima che poi verrà dispiegata in massimo grado nella Seconda Guerra Mondiale.
Un altro dato che emerge con forza è che più gli stati sono deboli più non riescono ad ammortizzare le conseguenze nel dopoguerra.
L’Italia quindi vince la guerra, ma perde la pace. La sua parabola è più simile a quella di un paese sconfitto che vincitore.

Dai campi di battaglia ritornano in patria milioni di uomini, molti dei quali disadattati.
Alcuni di coloro che sono stati in guerra non vogliono tornare nella normalità e vogliono/possono credersi al di sopra di tutto e di tutti. Da qui il “me ne frego”. Si torna con una profonda sfiducia nell’umanità e con un manicheismo marcato che la divide in amici e nemici.
A gettare benzina sul fuoco il diffondersi di due malsane teorie, ma sarebbe meglio dire teoremi.
Quella della pugnalata alla schiena che è la base teorica della destra per cui la colpa è sempre e comunque di qualcun altro: una comoda teoria del capro espiatorio valida per qualsiasi stagione.
E quella della trincerocrazia: dinamica per cui solo chi è stato in guerra ha diritto di parola nella nuova Italia. Ma anche questa è una tesi piena di falsità e ipocrisia, perché dei milioni di fanti contadini mandati al massacro, della loro voce e desideri, Mussolini e i suoi non si occupano.

Nel libro la natura di classe del fascismo emerge in modo chiaro. Negli studi si nota la preponderanza, tra le fila dello squadrismo, del ceto medio urbano con una buona percentuale di possidenti e un 50% di studenti che, va ricordato, nella società dell’epoca dove la scuola era ampiamente elitaria e classista non erano certo figli di operai e contadini.

Il fascismo “di sinistra” sansepolcrista dura lo spazio di un mattino perché non conduce da alcuna parte.
Nell’assalto all’Avanti, il giornale del Partito Socialista, dell’aprile 1919 condotto da reduci, nazionalisti e primi fascisti ci sono già tutte le dinamiche che si proporranno in futuro.
Flores e Gozzini fanno notare come ci sia una sottovalutazione generalizzata della violenza fascista che non è un accidente o un semplice mezzo, ma un elemento fondante di quell’ideologia e di quella pratica.
Nella fase della presa del potere lo squadrismo fascista ha fatto più morti di quello nazista.
Il filo nero di violenza contraddistingue tutta la storia fascista: dallo squadrismo alle colonie, dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale fino al ruolo fattivo nella deportazione degli ebrei e nella guerra civile del 1943-1945.
Ed è proprio in questo che si vede la grande differenza tra la verbosa e parolaia retorica socialista per cui non basta parlare di rivoluzione per saperla e volerla fare, e il culto dell’agire qui e ora dei fascisti con un Mussolini capace di avere uno strepitoso senso del tempo e cogliere qualsiasi occasione gli si ponga davanti.

Nel 1919 è già evidente come il bolscevismo non marcerà sull’Europa. Esso ha già accumulato diverse sconfitte in Germania, Baviera e Ungheria, ma nonostante questo dato reale la percezione è diversa.
La violenza della sinistra spaventa perché di massa e con alle spalle un’idea rivoluzionaria che terrorizza molti.
La violenza del fascismo agrario è una violenza mirata, silenziosa e senza testimoni, ma è uno stillicidio continuo.
Ed è proprio nell’opposizione alle lotte dei contadini (soldati mandati a morire nelle trincee e fregati dalle promesse mai mantenute dopo Caporetto) che il fascismo trova la sua via e la sua identità.

I vincitori delle elezioni politiche del novembre 1919, i socialisti e i popolari, sono, per svariati motivi, impossibilitati ad allearsi. Il Partito Socialista prende alte percentuali di voto laddove la guerra aveva provocato un maggior numero di caduti. A dimostrazione del fatto che, nonostante la retorica e il mito, la guerra in Italia, la maggioranza non l’aveva voluta ed anzi, l’aveva subita. Un dato che ancor più smonta la retorica fascista sui socialisti “traditori della patria” è il fatto che nelle file dei socialisti i reduci erano moltissimi. Molti di più che in tutti gli altri partiti, fascisti compresi.

In quella fase le autorità italiane, già delegittimate dai deludenti risultati delle trattative di pace e dall’impresa di Fiume da parte di D’Annunzio, iniziano a sfarinarsi. E la parola sfarinamento è una vera e propria costante del libro.
Con la fine della Prima Guerra Mondiale la società italiana vive un doppio tradimento: da un lato la pace non mantiene le promesse con contadini e operai, dall’altro la piccola e media borghesia vive la vittoria come…mutilata.
I fascisti possono essere visti dunque come degli insoddisfatti e frustrati che invece che rivolgere la propria rabbia verso l’alto la rivolgono verso il basso con il ruolo fondamentale (e quasi sempre negativo) della debole e ignava borghesia italiana sempre pronta alla ricerca di un lord protettore capace di prendere le decisioni per lei e garantirne gli interessi.

Tra il 1919 e il 1920 la maggior parte dei morti la fanno le Forze dell’Ordine da sempre connaturate da un forte disprezzo antipopolare. Dall’autunno del ’20 subentrano i fascisti. Gli apparati periferici dello Stato delegano e spesso fanno comunella con i gruppi di destra. Lentamente, ma progressivamente, il ruolo della repressione passa dallo Stato agli squadristi.
I tre paletti che, per un periodo, rallenteranno il dilagare del fascismo sono la sindacalizzazione delle fabbriche del Nord, l’occupazione delle terre in Meridione e il mondo cooperativo nel Centro. La sinistra fallisce proprio nell’organizzare una rete pronta a reagire e difendere questi nodi di resistenza che, non a caso, i fascisti affrontano uno per uno cercando di distruggerli, disperderli o “svuotarli” di forza politica. Laddove questa rete si forma gli squadristi, quasi sempre, ne escono sconfitti.

Prima pagina de “La Stampa” del 3 settembre 1920.

Si arriva al 1920. Il duro scontro tra operai e industriali dell’autunno di quell’anno culmina con la serrata padronale delle fabbriche e con la conseguente occupazione operaia delle aziende. Gli industriali non vogliono riconoscere i consigli di fabbrica come strutture legittime. I due storici non vedono in quel momento una situazione prerivoluzionaria, ma individuano con certezza in quel momento l’inizio del declino della forza del movimento operaio organizzato. Toccata la punta più alta di conflittualità nel 1920, gli scioperi operai e bracciantili iniziano poi a a calare ininterrottamente.

Nel prosieguo del libro gli autori contestano con forza l’idea di Nolte sulla grande guerra civile europea durata dal 1917 al 1945.
Per loro, nella visione dello storico tedesco, mancano alcuni punti fondamentali:
-il ruolo decisivo della guerra e del nazionalismo.
-il ridurre fascismo e nazismo a “reazioni meccaniche” al bolscevismo.
-il ruolo fondamentale del disfacimento degli stati liberali.

E si arriva così al 1921; in qualche modo l’anno decisivo.

L’attentato al teatro Diana del marzo 1921 (21 morti e 100 feriti) è una vera e propria data spartiacque, come lo fu in Germania l’incendio del Reichstag nel febbraio del 1933. Non è un caso che qualcuno cercherà di imitare la situazione il 12 dicembre 1969 proprio a Milano.

L’immissione voluta da Giolitti dei fascisti nel Blocco Nazionale alle elezioni del maggio 1921 per “normalizzarli” è un errore dalle conseguenze disastrose:
-in questo modo i fascisti vengono legittimati istituzionalmente eleggendo un buon numero di parlamentari.
-per affermarsi i fascisti aumentano le loro violenze utilizzandole come arma politica.
-vista la legittimazione politica data dal potere (leggi Giolitti) agli occhi degli organi repressivi aumenta ancor di più l’impuntià per gli squadristi.

Il successivo patto di pacificazione coi socialisti è un esempio di politica del doppio binario tanto cara a Mussolini che serve a lasciarsi sempre diverse porte aperte.
I ras locali del fascismo sono contrari e così, il leader fascista può sempre dare la colpa a qualcun altro del mancato rispetto delle sue decisioni.

Mussolini sa che, nonostante la forza militare delle camice nere, non potrebbe sopravvivere allo scontro col combinato disposto di Stato e residui del movimento operaio, per questo cerca una strategia articolata di bastone e carota, minacce e lusinghe.
Non è un caso se il ’22 è l’anno in cui il fascismo fa mostra di sé con l’occupazione delle città e la cacciata delle giunte socialiste (tranne alcune lodevoli eccezioni di cui la più nota è Parma).
Mussolini, visto lo stallo a livello parlamentare, lascia briglia sciolta alla violenza fascista.

Il fallimento dello sciopero legalitario antifascista di agosto (ben descritto a pagina 201 del libro) da il la agli ultimi passaggi mettendo fuori gioco uno degli ultimi due paletti che potrebbe arginare il dilagare del fascismo. E’ dunque ora di marciare contro lo Stato.

La prima pagina de “La Stampa” del 30 ottobre 1922.

Le ultime pagine che descrivono la preparazione e lo svolgimento della Marcia su Roma sono terrificanti.
Marcia su Roma che, tra l’altro, avvenne il 30 ottobre e non il 28, quando tutto, ovvero l’affidamento dell’incarico a Mussolini, era già stato deciso nei corridoi della politica.
I fascisti, con intelligenza politica, avevano capito che non era importante avere l’esercito schierato con sé, ma era fondamentale non averlo contro. E così fu.
Tutti stettero a guardare lasciando ognuno a un altro attore l’onere della prima mossa.
Si può dire che lo Stato, dopo la sconfitta del movimento operaio di agosto, gettò la spugna e il fascismo vinse “per abbandono”.
Il fulcro è la mancanza di direttiva da parte dei più alti gradi del comando politico ovvero il re. Una mancanza di direttive in tutto e per tutto drammaticamente simile a quella dell’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio, che sarà la causa principale dello sbandarsi e sfaldarsi dell’esercito italiano, dell’occupazione nazista di quasi tutto il paese e della cattura di più di 600.000 soldati italiani mandati nei lager tedeschi in pochissimi giorni.

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