I (nuovi) miserabili

Diciamoci la verità, quando abbiamo sentito che era il nuovo Odio avevamo già un piede al cinema (Covid a parte), mai come questa volta, senza aver visto neanche la locandina!
La Heine, un cult per molte e molti di noi: le banlieue, gli slang, la violenza della Polizia, le rivolte e quel “le monde est à nous” che è diventato simbolo di più di una generazione.
Dobbiamo andare un poʼ indietro però, perché il quartiere che vediamo, quel Montfermeil, è il luogo della locanda dei perfidi signori Thénardier e dellʼincontro tra Cosetta e Jean Valjean, protagonisti del romanzo Les Miserables di Victor Hugo ed è anche il centro delle rivolte delle banlieue del 2005 che scossero la Francia come non si vedeva da anni.
In quel quartiere miserabile è cresciuto il regista, Ladj Ly, lì ha partecipato ai disordini nel 2005, e lì è stato denunciato per oltraggio alle Forze dellʼOrdine (in merito consigliamo un suo documentario, 365 jours à ClichyMontfermeil), non le ha studiate quelle realtà, le ha negli occhi e nella pelle e questo diventa il punto forte di tutta lʼopera.

De I Miserabili però non cʼè solo il nome, cʼè il senso: un racconto di persone che vivono in condizione di miseria, umana quanto economica, che siano delinquenti o onesti cittadini, che siano leader o semplici bambini, sono tutti costretti ad una vita di miserie, di compromessi, di abusi, di sopravvivenza.
Ma questo film non è un riadattamento del romanzo né un remake del LʼOdio, è un film lontano da qualsiasi stereotipo, che comincia con la vittoria dei Mondiali, con una piazza collettiva, con sorrisi e abbracci che diventano presto pugni allo stomaco, grida di rabbia e tensione crescente.

La storia ruota attorno a tre poliziotti che pattugliano ogni giorno le vie del quartiere dellʼhinterland parigino, periferia degli ultimi, dei ghetti razziali, degli edifici popolari fatiscenti. Il quartiere viene fuori attraverso i rapporti umani e religiosi che si intrecciano in esso: ci sono i poliziotti, cʼè la “paranza dei bambini”, cʼè il “Sindaco”, boss che gestisce i rapporti fra polizia e abitanti nonché i traffici del quartiere. Poi ci sono gli imam, pacifici finché è possibile, cʼè un ex-jihadista, Salah, che ora vende kebab e dispensa consigli e che tutti temono e rispettano e ci sono i rom di un circo ambulante, lo “Zeffirelli”.

Proprio da questo circo viene rubato un cucciolo di leone e questo darà origine ad una crescente tensione tra gli abitanti del quartiere e le Forze dell’Ordine che avrà epilogo nella, tragicamente meravigliosa, mezz’ora finale.
La tensione viene raccontata in modo magistrale; scattante senza essere frenetico, realista senza essere palese.
La camera a spalla è usata solo quando serve e i punti di vista diventano la chiave stilistica del film: lʼauto di pattuglia, le strade, lʼinterno dei decrepiti palazzi, il drone che ha visto troppo, da qualsiasi angolazione la si guardi, quella periferia feroce non ha speranza. È una qualsiasi, feroce, periferia del modo.
Il film non cade nel dualismo dei buoni e cattivi, non dà colpe univoche seppur riconosca palesemente le responsabilità e si conclude con un finale aperto. Questo non vuol dire che non ci siano cattivi o che non ci siano colpe, ci sono entrambi ma la realtà è più complessa e questʼopera ne rispecchia perfettamente la difficoltà: non ci sono linee rette, è la vita.

Il tema trattato ci riporta molti paragoni, oltre il già citato LʼOdio, ripensiamo a Fa la cosa giusta, Training day o Los olvidados di Buñuel, proiettato, per la categoria “Cannes classique” lo scorso anno, nello stesso festival in cui I Miserabili incendia Cannes e vince il premio della giuria. Sono racconti di società corrotte, di ingiustizie che fanno rabbia, di abusi di potere e di finali per nulla lieti; sono francesi, spagnoli, americani ma potrebbero essere di qualsiasi paese, il sistema è sempre lo stesso, i miserabili li riconosci subito. I colpevoli non sono poi così diversi.
Come diceva Hugo, 150 anni fa:
“È la società che compra una schiava.
Da chi? Dalla miseria, dalla fame, dal freddo, dall’isolamento, dall’abbandono, dall’abbiezione. Mercato doloroso. Un’anima per un pezzo di pane. La miseria offre, la società accetta”.

Regia magistrale. Ottima fotografia di Julien Poupard. Musiche che virano su sonorità elettroniche dei Pink Noise per niente scontate.
Assolutamente da non perdere.

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