L’insostenibile leggerezza (sul lavoro) dell’editoria

Negli ultimi anni ci è capitato spesso di scrivere del mondo del lavoro nel settore editoriale. Abbiamo seguito le lotte nel mondo della grande distribuzione, che hanno riguardato soprattutto il gigantesco hub di Stradella, e le numerose inchieste per caporalato e sfruttamento del lavoro che hanno coinvolto giganti come Ceva Logistics e Grafica Veneta. In piena pandemia, quando si è posto il problema delle riaperture delle librerie, ci siamo interrogati sull’ondata di retorica sulla “cura dell’anima” che spingeva alla ripresa delle attività, senza che nessuno si ponesse il problema di ascoltare le esigenze dei lavoratori.
Oggi parliamo di un ulteriore segmento della filiera del libro, spesso sottovalutato e circondato da una cappa di silenzio: quello composto da chi cura in ogni aspetto (contenutistico e spesso anche formale) l’uscita settimanale di centinaia e centinaia di libri. Lavoratori e lavoratrici per massima parte freelance che vivono una condizione di sfruttamento e svilimento professionale, assenza di tutele e retribuzioni vergognose. Riportiamo qui l’intervento di Redacta nell’ambito di WORKS IN PROGRESS, dibattito a cura di ACTA (l’Associazione dei freelance), AWI (Art Workers Italia) e la cooperativa di artisti Smart che si è tenuto giovedì 7 ottobre a Milano in occasione della European Freelancers Week 2021.


L’editoria è ancora oggi il primo mercato di intrattenimento in Italia (e lo è rimasto per un soffio anche durante i vari periodi di lockdown), nonostante a partire dal 2008 abbia dovuto affrontare la crisi economica e finanziaria da una parte e dall’altra la forte concorrenza di altri prodotti per l’intrattenimento, prima fra tutti la Pay TV.

Se volessimo descrivere questo mercato in poche e veloci parole potremmo dire: molti editori, moltissimi libri, pochi dipendenti. Dunque, la domanda sorge spontanea: i libri chi li fa?

E qui entriamo in gioco noi, i freelance dell’editoria: siamo correttori di bozze, traduttori, impaginatori, editor, a volte persino direttori di collana. Talvolta non ci sono nemmeno dipendenti all’interno delle aziende, che si reggono proprio sulle collaborazioni in partita IVA o regime di diritto d’autore anche con orari e mansioni quasi da lavoro dipendente.

Che nelle case editrici il lavoro sia sempre più esternalizzato è d’altra parte confermato dalle poche indagini quantitative esistenti. Nel 2012 l’indagine Editoria invisibile registrava appena il 7,7% di lavoro dipendente. Dai dati raccolti da Redacta nell’indagine relativa al 2019 risulta che l’88% dei lavoratori dell’editoria che ha risposto al sondaggio si qualifica come freelance.

Vediamo, allora, cosa significa nei fatti essere un freelance dell’editoria.

Innanzitutto, la gestione dei rapporti di lavoro è mirata alla riduzione massima dei costi, che segue alcune direttrici:

1) Contratti: i contratti esterni sono poco pagati e i pagamenti ritardati; diminuisce la remunerazione e si chiede sempre di più non solo in termini di attività svolte, ma anche in termini di flessibilità e adattabilità alle scadenze di consegna. I contratti spesso arrivano a lavoro concluso o non arrivano per niente. Dall’indagine di Redacta risulta che, escludendo il lavoro di traduzione, soltanto un quarto delle lavorazioni vede la stipula di un contratto.

In generale, quindi, il margine di contrattazione per i freelance è estremamente ridotto, sia per l’assenza di un vero e proprio momento di “contrattazione” (o, come si dice, “negoziazione”), sia perché mancano di fatto dei valori minimi di riferimento (e Redacta in questo senso si è subito mossa per raccogliere dati a riguardo, al fine di proporre un tariffario minimo equo).

Nell’esperienza di chi scrive – perché un’altra caratteristica del nostro lavoro è che le varianti individuali sono molteplici – quasi mai è chiesto al freelance quale sia la sua tariffa (oraria, o a pagina lavorata), ma sono perlopiù proposti dei forfait, cioè una cifra complessiva nella quale far rientrare tutte le operazioni di lavorazione su un progetto richieste a un singolo professionista. Prendere o lasciare. Manco a dirlo, questi forfait – ma in generale anche i compensi orari o a cartella specie se confrontati con quelli di altri Paesi europei – sono estremamente bassi e il loro scopo è proprio quello di abbassare la retribuzione delle mansioni più complesse (che finiscono in questo “pacchetto” non meglio definito).

Citando sempre l’indagine di Redacta, gli intervistati con più di dieci anni di esperienza confermano un calo sensibile dei compensi e oltre la metà dei compilatori del sondaggio che lavora per il settore tra le 25 e le 55 ore alla settimana (il 70% del totale) dichiara di avere un reddito annuo lordo inferiore a 15.000 euro.

Un ultimo aspetto che è necessario mettere in evidenza è che siamo tendenzialmente soli e sole. La contrattazione, laddove esiste, è fortemente individualizzata; spesso c’è omertà sulle retribuzioni e sulle altre condizioni contrattuali, perché tra noi aleggia sempre la paura di perdere una committenza e di essere sostituiti da un collega, che in questo modo diventa un competitor.

2) Mansioni: soprattutto per chi collabora con le piccole case editrici, si assiste alla concentrazione di più attività nella stessa figura professionale, spesso racchiuse in maniera non specifica in quel pacchetto di attività forfettario di cui si accennava.

Gli editor, così come i redattori, spesso devono provvedere a più attività: impaginazione, correzione bozze, riscrittura testi, ricerca iconografica. Per non parlare dell’ufficio diritti o della gestione e della partecipazione (mai retribuita se non con un rimborso spese a copertura delle spese di viaggio) alle presentazioni o alle fiere. In questo modo si risparmia anche sulle funzioni di coordinamento.

Svolgere ruoli di coordinamento, che in qualche modo portano il freelance a essere troppo “interno” (può capitare, con alcuni editori medio-piccoli, persino di essere messi al corrente dei conti per giustificare la retribuzione bassa ai limiti della vergogna) o a “rappresentare” la casa editrice in situazioni talvolta anche pubbliche, porta inevitabilmente a “identificarsi” con il marchio o quanto meno ad assumersi responsabilità che non trovano un riscontro in termini di retribuzione e, ricordiamolo, diritti (gli straordinari retribuiti, per esempio). Laddove poi queste responsabilità corrispondono a un vincolo di orario di lavoro o presenza in un determinato luogo, di fatto si assiste a un utilizzo improprio del lavoro autonomo: le cosiddette “finte partite IVA”. Inoltre, questa spinta all’identificazione con il marchio da parte del freelance preme su un altro tasto, che nel nostro caso risulta rilevante: il livello di autonomia e di responsabilità affidatoci dalla casa editrice è considerato spesso parte del compenso stesso. L’orgoglio dell’appartenenza, ti dice l’azienda, non è monetizzabile, ma sai che soddisfazione!

Ovviamente, questo non succede sempre: a volte accade esattamente il contrario e il freelance (anche nei casi in cui riceve un incarico nel ruolo di editor o ghostwriter per esempio) non sa assolutamente nulla delle dinamiche interne alla casa editrice committente, si relaziona con il suo referente su un titolo specifico e spesso una volta consegnato il libro non ne sa più nulla.

Tornando a noi, questo eccessivo coinvolgimento del freelance nella vita della casa editrice, così come i compensi troppo bassi e tutto quello di cui abbiamo parlato fino adesso, marcia su qualcosa che davvero accomuna tutti noi lavoratori e lavoratrici dell’editoria, e mi spingo a dire probabilmente tutti i freelance della cultura: la passione per il nostro lavoro. Questa passione che ci porta nei fatti ad autosfruttarci: vuoi perché un libro lavorato da noi non possiamo accettare che esca mal fatto, vuoi perché ci affezioniamo alla collana che dirigiamo e vogliamo che venda a tutti i costi (anche se a noi questo non fa alcuna differenza economicamente parlando) e quindi ci riempiamo la settimana di presentazioni serali insieme agli autori, vuoi perché ogni libro è un viaggio (non sempre quello che avremmo desiderato forse, ma pur sempre un viaggio).

Il problema, però, è che lavorare solo per passione non è qualcosa che tutti possiamo permetterci. Come Redacta, avendo molto presente il tema della “passione”, in occasione di Book City 2019 abbiamo cercato di mettere in scena la nostra vera Passione, attraverso una via crucis itinerante attraverso i luoghi dell’editoria milanese.

Siamo, quindi, in un contesto di vero e proprio sfruttamento del lavoro cognitivo e creativo, iperformato e spesso iperprofessionalizzato, quello di cui siamo qui a discutere oggi. Molti di noi sono anche working poor, e spesso per portare a casa uno stipendio sufficiente a sostenere le spese di vita (specie in una città come Milano che è sempre più invivibile sotto una certa soglia di fatturato checché ne dicano le statistiche ufficiali) ci troviamo a fare anche due o tre lavori contemporaneamente.

Per cercare di affrontare tutti questi aspetti che ho provato a evidenziare, nel 2019 alcuni membri di ACTA hanno costituito Redacta, un gruppo di lavoratori del settore da subito coinvolti in un’auto-ricerca (già citata) finalizzata ad approfondire la conoscenza dei propri problemi, a creare coalizione e a cercare nuove soluzioni. Un esempio recente di iniziativa da parte di Redacta riguarda il caso del Saggiatore, noto marchio editoriale che da tempo aveva esternalizzato buona parte delle attività redazionali, tanto che a una squadra di freelance formati appositamente attraverso stage era affidata la lavorazione della grande maggioranza dei titoli pubblicati. La direzione editoriale della casa editrice, da un momento all’altro, ha deciso di non rivolgersi più al gruppo di collaboratrici e collaboratori esterni, i quali si sono trovati privati di una fetta importantissima del loro fatturato. Attraverso Redacta, è stata scritta una lettera aperta alla casa editrice chiedendo spiegazioni su chi, a questo punto, si sarebbe occupato della lavorazione dei 120 titoli annuali pubblicati dal marchio.

Per concludere, uno dei principali problemi a cui Redacta sta provando a dare risposta a fianco di ACTA è l’invisibilità del nostro lavoro. E non ci si riferisce alla professionalità, e cioè al fatto che, come si dice, il lavoro redazionale deve essere “una mano invisibile e neurale”, ma al fatto, per esempio, che non siamo presi in considerazione nemmeno quando sono previsti investimenti statali mirati al nostro settore, e nei report annuali di AIE, l’Associazione Italiana Editori, sull’andamento del mercato editoriale non sono mai presenti statistiche che ci riguardano. Anche questo è un impegno che Redacta ha assunto fin dalla sua costituzione.

Parlando di dimensione locale, quello che possiamo dire è che esistono alcuni poli editoriali in Italia, e Milano è sicuramente uno dei maggiori, sia a livello storico che per concentrazione delle aziende più importanti e di lavoratori del settore. Negli anni sono state tante le iniziative legate al settore editoriale che hanno contribuito a quello che oggi è chiamato lo “storytelling” delle città. Pensiamo a Book City, a Book Pride, al Salone della Cultura. Book City, per esempio, è sostenuto dal Comune e da diverse Fondazioni private, ma non dimentichiamo che questo settore è retto da chi nei fatti con il suo lavoro quotidiano, un lavoro in buona parte sfruttato e sottopagato, fa sì che l’industria editoriale non collassi.

Pertanto non si può che insistere sulla necessità di interrogarsi sulla sostenibilità, o forse meglio sulla non sostenibilità, della prima industria culturale nazionale.

Sara Marchesi

Photo credits: Matteo Montaldo

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