La repressione del movimento antispecista

Dedichiamo questo contributo al dottor Muath Abu Rukba,
veterinario del rifugio per animali Sulala Animal Rescue,
l’unico veterinario nel nord di Gaza, nella zona di Jabalia.
Pochi giorni fa era ritornato alla propria abitazione
distrutta dai bombardamenti per recuperare alcune cose,
e lì è stato ucciso durante il cosiddetto “cessate il fuoco”.

L’antispecismo contemporaneo è un movimento di liberazione con una componente fortemente politicizzata e per sua natura presente in ogni piazza a contestazione di quelle che considera oppressioni storicamente intrecciate: capitalismo, specismo, razzismo, patriarcato, imperialismo, colonialismo, abilismo. Nonostante sia rumoroso, presente e diffuso, non di rado viene mediaticamente invisibilizzato o confuso con l’animalismo qualunquista, sia nella portata delle sue rivendicazioni, sia nell’estensione delle azioni messe in campo, sia nella gravità della repressione che subisce. Lungi dal costituire un tema di (sola) natura morale e filosofica, l’antispecismo è eminentemente politico e rivoluzionario in quanto riguarda l’assetto di una società giusta  al di là dei confini di specie; è storico   in quanto intende agire sui meccanismi economici, storicamente determinati, che hanno condotto allo sfruttamento e alla reificazione sistemica di individui umani e non umani. Mette al centro la contestazione del diritto del più forte che – come spesso accade anche per categorie umane – prende a prestito giustificazioni e teorie improntate a superiorità intellettuale e morale. Anche in questo caso, il meccanismo che emerge è quello della naturalizzazione dell’oppressione. L’antispecismo è liberazionista in quanto, citando Assata Shakur, mai nulla è stato raggiunto appellandosi al senso morale dell’oppressore. In questo senso, la componente politicizzata del movimento di liberazione animale è consapevole che le “democrazie” occidentali sono guidate dal potere economico e il margine di azione dei cittadinə nell’agone politico è ridottissimo. È questo il motivo per cui oggi, al fianco del popolo palestinese, a fronte di un genocidio, si è deciso di bloccare tutto, scioperando, occupando porti, stazioni, scuole, strade, con equipaggi di mare e di terra, portando avanti azioni dirette e di disobbedienza civile a vario livello parlando l’unica lingua conosciuta dagli oppressori e dai loro complici, ovvero quella del profitto, minandolo. Il movimento antispecista, come ogni altro movimento di liberazione, non conosce il tabù della proprietà privata e considera legittimo schierarsi al fianco della resistenza animale. Le lotte antispeciste, dunque, mirano almeno dai primi anni duemila a bloccare materialmente e non solo simbolicamente gli ingranaggi del sistema di produzione specista, ponendo i corpi dellə attivistə davanti al coltello del macellaio, entrando nei luoghi di reclusione e liberando i soggetti prigionieri. Come ogni movimento, dunque, non sono immuni alla risposta repressiva degli apparati di potere.

La repressione è da sempre durissima

Il movimento più radicale in Italia si sviluppa nei primi anni duemila a partire da un’ondata che monta dall’UK (e, successivamente, dagli USA) e che propone pratiche di azione diretta e di mobilitazione in aperta rottura con l’associazionismo più moderato che, fino a quel momento, era egemone nel nostro paese. Sono gli anni in cui nel Regno Unito l’ALF (Animal Liberation Front) aumenta vertiginosamente il numero delle azioni contro la caccia, gli allevamenti e, soprattutto, i laboratori di sperimentazione su animali. Il tema della vivisezione è in Italia quello più “caldo”, come testimoniano le prime due grandi iniziative che inaugurano questa stagione, le campagne “No RBM” e “Chiudere Morini”. In entrambi i casi nascono dei coordinamenti dal basso che propongono un metodo, più che un’organizzazione: colpire gli interessi economici di singole industrie dello sfruttamento, rendendone sconveniente l’attività. Nel primo caso, la risposta repressiva porterà a diversi processi fra cui una condanna per diffamazione con risarcimento particolarmente oneroso per la portavoce della campagna.

Nel 2002 era nata la campagna “Chiudere Morini”, che aveva messo sotto i riflettori uno dei maggiori allevamenti di animali destinati ai laboratori scientifici. La campagna cresce rapidamente e, accanto alle forme di protesta pubblica, genera di fatto un grande volume di azioni dirette, che includono danneggiamenti e liberazioni di cani dalla struttura. La repressione non si fa attendere, e in primo luogo cerca di colpire a livello giudiziario singoli esponenti della campagna, senza troppo successo. Ai divieti di manifestazione si accompagna l’uso del foglio di via. La strategia repressiva culmina negli eventi del novembre 2004, quando un corteo nazionale di 1.500 persone da tutta Italia viene caricato in modo particolarmente brutale, tanto da far parlare di una nuova “Genova in piccolo”: caccia all’uomo, persone con bambini in braccio manganellate, persone disabili picchiate selvaggiamente. Tutto l’armamentario che lo Stato dispiega quando le lotte, dal versante simbolico e di mera espressione del dissenso, prendono una piega in grado di incidere sui rapporti di forza vigenti.

Questi anni sono quelli in cui si intensificano anche in Italia le azioni dell’Animal Liberation Front, con sabotaggi e liberazione di animali quasi quotidiane. Anche se l’Italia, in questo ambito, sembra venire risparmiata dalla repressione più intensa, altrove i processi per azioni di sabotaggio e liberazione sono numerosi e anche particolarmente gravosi, con condanne fino a 20 anni. Non solo: in UK e USA vengono varate delle vere e proprie leggi speciali, come l’Animal Enterprise Terrorism Act del 2006 negli Stati Uniti, che definisce “terrorista” qualsiasi azione politica che arrechi disturbo al processo produttivo di industrie coinvolte nello sfruttamento animale. In questo paese, le organizzazioni animaliste radicali vengono definite dall’FBI come la principale minaccia alla sicurezza interna, alla pari delle organizzazioni armate del fondamentalismo islamico.

La campagna che attira maggiormente le azioni repressive è SHAC, che nasce nel Regno Unito per combattere HLS, una delle più grandi industrie della vivisezione, i cui committenti sono enti privati e pubblici sparsi per tutto il mondo, un’azienda che uccideva in quegli anni 500 animali al giorno. Le strategie sono analoghe a quelle di Chiudere Morini: proteste pubbliche, mail bombing, azioni dirette illegali, sabotaggi, e anche investigazioni sotto copertura. Si tratta però di azioni che assumono un respiro internazionale, adeguatamente al carattere multinazionale dell’azienda. Il volume di azioni dirette e proteste è impressionante, e spinge HLS sull’orlo della chiusura, anche grazie alla pressione sui suoi partner finanziari, assicurativi, e commerciali in generale. Le azioni di intimidazione e contrasto alla campagna sono costanti e tendono a intensificarsi, con decine di arresti dal 2007 e condanne fino a 11 anni di carcere, azioni giudiziarie caratterizzate anche dal ricorso a reati di tipo associativo.

In Italia, parte del movimento radicale aveva dato vita a un’importante campagna contro l’industria della pelliccia, AIP, che coniugava i metodi di SHAC e Chiudere Morini con un’attenzione a una critica più ampia all’industria della moda e al consumismo. Una repressione “soft” ha colpito questa campagna, che ambiva a passare a obiettivi via via più grandi e significativi per il mercato della pelliccia. La pratica del presidio davanti ai punti vendita, inizialmente tollerata, inizia ad essere oggetto di restrizioni e poi di divieti espliciti da parte delle questure.

Con la chiusura definitiva di Morini, l’ambito dell’animalismo radicale sceglie di puntare i riflettori su Green Hill, un’azienda analoga a Morini, ma dal carattere multinazionale. La campagna “Fermare Green Hill” riesce a mobilitare una quantità di persone e di consenso del tutto inedita, con cortei di migliaia di persone a Montichiari (la sede dell’azienda, nel bresciano) e a Milano, con evidenti ripercussioni politiche e mediatiche a livello nazionale. Non si sviluppa invece quella massa di azioni dirette che aveva caratterizzato le precedenti campagne, fatta eccezione per alcuni momenti particolarmente significativi, in cui lə attivistə hanno agito a volto scoperto, pubblicamente: l’occupazione del tetto della sede dell’azienda da parte del Coordinamento Fermare Green Hill e la liberazione spontanea di diversi beagle da parte di singolə manifestanti durante il corteo del 28 aprile 2012. Solo a questi episodi sono seguite azioni giudiziarie (lə manifestanti che liberarono i beagle vennero poi assoltə). La campagna ottiene un successo senza precedenti, con la chiusura dell’azienda e l’affidamento di tutti i cani ad associazioni animaliste.

Successivamente, viene colpito l’ambito della ricerca pubblica. Il 20 aprile 2013, cinque attivistə della campagna, al termine di un corteo, occupano i laboratori del Dipartimento di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano. Riescono a liberare 400 topi e un coniglio. L’Ateneo chiede condanne esemplari e avanza richieste di risarcimento danni ingenti. Alcuni attivisti subiranno a distanza di anni restrizioni della libertà personale.

Nell’impossibilità di redigere un elenco completo della repressione in corso, citiamo il caso del rifugio Cuori Liberi dove nel 2023  lə attivistə si sono barricate per impedire l’uccisione dei maiali ivi ospitati (i protocolli in caso di epidemie prevedono che vengano uccisi anche individui sani di una medesima struttura). Le forze dell’ordine manganellano con estrema violenza anche chi oppone semplice resistenza passiva. In Italia continua peraltro l’uso storico del foglio di via per reprimere il dissenso.

A Mantova, nel corso della campagna nofoodnoscience (che denuncia la sponsorizzazione da parte dell’industria zootecnica dei maggiori eventi culturali locali), vengono emanati fogli di via e/o multe  per l’esposizione di striscioni e altre azioni di contestazione (senza danneggiamenti materiali) che mirano a mettere in evidenza come l’intera cultura cittadina, lungi dall’essere neutra, sia di fatto in mano all’industria della carne e dei latticini.

La minaccia di sorveglianza speciale rappresenta un ulteriore arbitrario strumento di intimidazione, come riportano attivistə sicilianə e di altre regioni d’Italia.

Questa estate un gruppo antispecista ha manifestato senza preavviso ad Arborio, incatenandosi davanti a un cantiere che prevede l’apertura di un allevamento intensivo di 270mila galline. Nonostante le temperature altissime le forze dell’ordine hanno impedito il rifornimento di acqua e coperture: per questo e altri motivi due attiviste sono state portate al pronto soccorso. Tre attivistə hanno presentato una querela. Sono stati emanati fogli di via non solo da Arborio ma anche da Vercelli nonostante a Vercelli non siano stati commessi atti illegali.

La repressione è un fatto importante anche all’estero, per azioni cui partecipano anche compagnə italianə. Quest’anno in Francia molte attiviste a seguito di un blocco simultaneo di mattatoi sono state picchiate, offese con insulti razzisti, trascinate per molti metri con il seno scoperto, umiliate in celle di isolamento senza servizi base; sono state sequestrate auto e ogni effetto personale ritardando di molti giorni la possibilità di tornare in patria. Sono stati provocati deliberatamente ingenti danni economici allə attivistə. Una di loro, dopo lo sgombero è stata immobilizzata e costretta a guardare come gli animali venissero condotti dai camion verso il mattatoio.

Non ci stupisce che la repressione si intensifichi proprio laddove un movimento scelga di passare dal piano simbolico, culturale o di persuasione dell’opinione pubblica al piano di intervento sulle strutture materiali di dominio.

Ma la Resistenza non si ferma. E rincara.

Silvia Molè e Marco Reggio

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