La sentenza sui rider non è che l’inizio

Dopo che la Cassazione ha riconosciuto i diritti di chi lavora al servizio di una piattaforma, l’avvocata che ha seguito la vertenza ragiona su rischi e prospettive delle lotte dei precari.

Il 24 gennaio 2020 viene pubblicata la sentenza conclusiva del processo contro l’azienda del food delivery Foodora, avviato nel 2016 da un gruppo di rider assistita dall’avvocata Giulia Druetta, da sempre in prima linea nella difesa di chi sconta una condizione di precarietà lavorativa. Il tutto nasce a seguito del loro licenziamento per aver organizzato uno sciopero in solidarietà ad alcune promoter dell’azienda, che nelle settimane precedenti avevano perso il loro lavoro per aver partecipato ad un’assemblea congiunta con alcuni fattorini della stessa azienda. Questo processo diventa l’occasione per chiedere maggiori tutele in un settore totalmente deregolamentato, approdando a una sentenza senza precedenti della Corte di cassazione che parla a tutti i precari di ogni settore lavorativo.

Questo lungo percorso inizia nella primavera del 2016. Come è nato questo processo?

Ad aprile 2016, l’azienda Foodora decide di modificare la tipologia della prestazione: dal pagamento su base oraria si passa al cottimo puro. A Torino, alcuni rider entrano in stato di agitazione – sono state le prime mobilitazioni in assoluto in ambito europeo – nella forma di sit-in, volantinaggi e lettere spedite alle aziende, che chiedono il miglioramento delle condizioni di sicurezza, l’annullamento del cottimo, l’aumento della paga, la regolamentazione della flessibilità con cui i datori di lavoro modificavano i turni. Con queste prime mobilitazioni – il cottimo, purtroppo, verrà mantenuto – comincia a farsi strada l’indignazione legata alle ripetute violazioni della privacy a fini ritorsivi: l’azienda si inserisce nella chat dei lavoratori, controlla i loro spostamenti attraverso l’applicazione, indaga sulle personalità di spicco delle proteste. Come se non bastasse, sono stati molti i casi di rider esclusi dai turni di lavoro per aver avuto comportamenti contrari alla direttiva dell’azienda, seguiti da messaggi di minaccia nella chat: «che sia da esempio per tutti». Arriviamo così all’evento più eclatante: a seguito di un’assemblea, tenutasi sempre a Torino, in cui si aggregano alcune lavoratrici addette alla promozione dell’azienda, due di loro vengono licenziate. È così che viene indetto il primo sciopero, a settembre dello stesso anno. Le ritorsioni sono immediate: vengono licenziati otto rider.

Quali sono state le modalità dei licenziamenti dei rider?

Inizialmente vengono estromessi dall’app con cui prenotare i turni e ricevere gli ordini. Si alza un polverone mediatico che obbliga l’azienda a reinserirli. Tuttavia, diventa per loro impossibile avere confermati dei turni per lavorare. È questa particolare forma di esclusione quella maggiormente adoperata per estromettere, in maniera indiretta, i rider meno produttivi e quelli più insubordinati. È a questo punto che, durante una serata in uno spazio occupato di Torino, incontro i protagonisti di questa vicenda. Le tappe processuali che ci hanno portato alla sentenza della cassazione sono tutte incentrate sull’illegittimità dei licenziamenti, la qualificazione del contratto (che tratta come autonoma una prestazione che in realtà è da ricondursi alla subordinazione), la sicurezza sul lavoro e, in particolare, la violazione della privacy e il monitoraggio a fini discriminatori e ritorsivi.

Che valore ha questa sentenza della corte di cassazione?

La sentenza, interpretando l’articolo 2, comma 1 del Jobs Act   dichiara che tutti i lavoratori, non solo i rider, organizzati dal committente e che svolgono la prestazione personalmente in maniera continuativa devono vedere applicato l’intero regime del lavoro subordinato. Dunque, dimostra che la contrattualizzazione autonoma è un espediente formale con cui le aziende risparmiano sul lavoro in termini di tutele e di salario, dato che la prestazione è a tutti gli effetti di tipo subordinato. Inoltre, i lavoratori si trovano in una posizione di forte svantaggio da quando è stato introdotto il Jobs Act di Renzi, in quanto, da un lato, l’onere della prova rimane a carico del lavoratore – che dovrebbe, per dimostrare la propria subordinazione o un licenziamento illegittimo, coinvolgere come testimoni eventuali colleghi, fortemente ricattabili, ed evidenziare casi di esercizio di potere disciplinare, dissimulati dietro i meccanismi «impersonali» delle applicazioni – dall’altro, il rischio di risarcire le spese legali del datore di lavoro nel caso in cui l’esito non sia favorevole – e, manco a dirlo, siamo nel caso di lavoro fortemente impoverito. Con questa sentenza, basta dimostrare esclusivamente che la prestazione sia continuativa, personale e organizzata dal datore di lavoro. In più – e in questo la Cassazione è stata dirompente e innovativa – se la prestazione rispecchia questi criteri, devono essere applicate le tutele del lavoro subordinato, anche in caso di licenziamento illegittimo, superando così il giudizio dato in appello, che aveva considerato l’etero-organizzazione come un terzo genere di inquadramento cui applicare solo una parte delle tutele del rapporto subordinato.

Più in generale, quali sono i principali ostacoli che il diritto del lavoro incontra nella tutela di lavoratori e lavoratrici afferenti al mondo delle piattaforme? Esiste un dibattito interno al mondo dell’avvocatura?

I maggiori ostacoli sono legati alla retorica del lavoretto, a tal punto radicata nel senso comune da incidere in modo determinante sui processi; all’inadeguatezza dei sindacati, non all’altezza dei problemi legati a queste nuove forme di lavoro; infine, a un potere politico che è stato troppo lento e debole nelle iniziative che poste in essere. Tali soggetti – ed è questo l’ostacolo più grande – scontano una totale inconsapevolezza sullo svolgimento del lavoro e su come le regole di organizzazione portino a uno sfruttamento molto intenso. Se non non si sa come funziona questo settore merceologico, non possono esistere delle norme per tutelarlo. Infatti, nessuna realtà istituzionale ha avviato delle ricerche esplorative sulle condizioni effettive. In questo discorso rientra anche il dibattito in ambito giuslavoristico. Purtroppo, allo stato attuale è molto superficiale e inconsapevole delle modalità in cui si svolge l’attività di lavoro e il sistema di allocamento delle consegne e dei turni: nessuno conosce le insidie del lavoro di piattaforma.

Alla fine dello scorso settembre, la nuova ministra del lavoro Nunzia Catalfo si è impegnata a metter mano a quanto approvato dal suo predecessore Di Maio nel decreto imprese dell’agosto 2019, limitato all’estensione dell’assicurazione Inail (prima i/le rider erano assicurati tramite agenzie in diretto contatto con le aziende), lasciando intatto il sistema del cottimo e, soprattutto, senza alcun avanzamento sulla qualifica del rapporto di lavoro. Poco o nulla è seguito dalle tante promesse fatte. Nello specifico, Catalfo ha promesso di omologare le tutele dei/lle rider «continuativi» ai parametri del lavoro dipendente, mentre a quelli/e «occasionali» saranno garantite tutele minime (divieto di cottimo e l’agganciamento della paga ai livelli dei Contratti collettivi). Che rischi potrebbe comportare l’istituzione di questa dualità?

L’idea di fondo è che i rider che lavorano tanto vanno trattati bene, mentre quelli che lavorano meno devono essere meno garantiti. Ma non si può mettere in strada persone senza tutele. Inoltre, coloro che non lavorano quanto vorrebbero, non lo fanno per volontà, ma per i meccanismi di cui prima. Ma soprattutto, perché  lavoratori occasionNali dovrebbero avere meno tutele dei continuativi? Il numero di ore lavorate non può essere il discrimine per avere accesso alle garanzie. Se si istituzionalizza questa doppia velocità, non si fa altro che incentivare l’uso indiscriminato delle assunzioni [visto che i contratti autonomi non costano nulla alle aziende, Ndr] – meccanismo molto utilizzato dalle aziende per disporre di un continuo ricambio – così da avere a disposizione tanti lavoratori in attività per poche ore in modo discontinuo, così obbligati a sottostare a condizioni peggiori. C’è una vera e propria inversione dell’importante idea «lavorare meno, lavorare tutti», che diventa un modo per cui si finisce a lavorare senza tutele. Il numero di ore lavorate non può essere una ragione per ridurre le tutele dei lavoratori, perché si arriva alla conclusione che tutti ne saranno privati, dato che le aziende possono tranquillamente assumere in maniera indiscriminata e distribuire il lavoro come meglio credono.

Come potrebbe essere vanificata questa sentenza?

Arriviamo a una questione politica molto importante, su cui è fondamentale porre attenzione. La sentenza dice che si applicano le tutele dei subordinati ai lavoratori etero-organizzati che lavorano personalmente e continuativamente. Nient’altro che un’interpretazione dell’articolo 2, comma 1, del Jobs Act. Tuttavia, nel comma 2 dello stesso articolo c’è una grande insidia: qualora vengano fatti degli accordi collettivi di categoria, non si applica l’articolo 1. Quindi, se qualcuno si azzarda a fare un contratto collettivo che sia al di sotto di quanto ottenuto con la sentenza, che inquadra i rider entro i parametri della subordinazione previsti per la logistica, finisce per tradire tutti i lavoratori che hanno lottato dal 2016 a oggi ottenendo tutele retributive, assicurative, previdenziali e in materia di licenziamento. Mi appello dunque a tutti i sindacati e alle organizzazioni dei rider a guardarsi bene dal fare qualsiasi accordo di palazzo senza le dovute attenzioni.

Infine, quali sono, a tuo dire, gli obiettivi ancora da perseguire?

Uno dei grandi problemi è che gli organi di stato più importanti, Inps e Inail su tutti, non si preoccupano di garantire i risarcimenti e non fanno indagini per capire se i lavoratori siano eterorganizzati o meno. Bisogna quindi pretendere che le aziende sottostiano a quanto prescrive la sentenza e che gli organi di Stato facciano pressioni e controlli a partire da ciò. Questa sentenza ha solo interpretato in maniera inequivocabile una legge dello Stato in vigore dal 2015. Gli organi di cui sopra avrebbero potuto interpretarla nello stesso modo, senza aspettare la Cassazione: qui non si tratta di scovare il piccolo evasore, ma di vere e proprie multinazionali riconoscibili e che operano, alla luce del sole, in maniera totalmente illegittima. Per quanto riguarda me e i fattorini che mi sono trovata a difendere, in queste settimane ci aspetta il processo «Foodora 2», questa volta contro l’azienda Glovo [che ha rilevato la prima a fine ottobre 2018, ndr.]. Si tratta di una causa collettiva che coinvolge 29 lavoratrici e lavoratori, con l’obiettivo di ottenere il trattamento subordinato. Un processo sì speculare a quello di cui abbiamo parlato finora, ma molto importante perché potremo saggiare la solidità di questa sentenza, puntando il dito contro un’azienda del food delivery che ultimamente si è distinta per casi gravi di sfruttamento e insensibilità verso le condizioni dei propri lavoratori. Staremo a vedere.

di Camillo Chiappino e Giulia Druetta

da Jacobin

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