Putin regala a Erdogan 100 km di Siria, cacciati i curdi

Accordo turco-russo a Sochi: il ràis incassa un quarto di zona cuscinetto e il ritiro curdo. Damasco lo accusa di furto, ma Mosca negozia. Ospedali fuori uso e mezzo milione di persone senza acqua: il Rojava è al collasso.

A poche ore dalla scadenza dell’ultimatum turco alle unità di difesa curde e alle Forze democratiche siriane, mentre il presidente Erdogan incontrava Putin nel palazzo presidenziale di Sochi, nel Rojava proseguiva la conta delle vittime. «Oltre 500mila persone sono da più di una settimana senza acqua – scrive in una nota la Mezzaluna rossa curda – Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco abbiamo documentato l’uccisione di 21 civili e il ferimento di 27. Senza contare quelli che sono sotto le macerie degli edifici bombardati, i rapiti e i giustiziati dagli alleati della Turchia. Nove i soccorritori uccisi finora».

Con l’avvicinarsi della deadline turca (le 22 di ieri, ora locale), le comunità provavano ad organizzarsi, coprendo con il nylon i centri di Derik e Tel Temer per impedire ai droni di colpire. In giornata 500 soldati governativi siriani hanno attraversato Tel Temer sull’autostrada M4 per mettere in sicurezza l’arteria.

Ma il fuoco non cessa: secondo l’agenzia curda Anf, che riportava voci da Serekaniye (Ras al-Ain), cecchini islamisti sui tetti della città ormai occupata dalle milizie filo-turche hanno sparato sui passanti, ferendone due.

L’operazione «Fonte di pace» non è mai stata sospesa e ha provocato, in questi cinque giorni di falsa tregua, un ulteriore collasso della capacità dell’amministrazione autonoma di fornire sostegno alla gente: «Non ci sono rifugi, non c’è abbastanza cibo né medicine – continua la Mezzaluna – Non siamo più in grado di assicurare i servizi essenziali. Cinque ospedali sono fuori uso, quelli di Kobane e Tel Temer sono vuoti e non possiamo più rifornire Manbij e Kobane di medicine. Dopo il ritiro delle organizzazioni umanitarie, il numero delle vittime è cresciuto in modo drammatico».

Nelle stesse ore sul Mar Nero i due alleati-rivali, il turco Erdogan e il russo Putin, discutevano di Siria. Un vertice dirimente, anticipato prima dalla notizia (apparsa sul russo Kommersant) dell’arrivo nell’ex base aerea Usa di Tabqa, a Raqqa, di elicotteri militari di Mosca, e poi dalle dichiarazioni del ràis: Ankara riprenderà l’offensiva «con maggiore determinazione» se i combattenti curdi non si ritireranno dalla frontiera.

Alla fine dell’incontro-fiume (sette ore), mentre uscivano le foto dei due seduti in poltrona con in mano una mappa della Siria, ecco l’annuncio: c’è l’accordo. Integrità territoriale della Siria, zona cuscinetto di 32 km da Tal Abyad a Ras al Ain, ingresso (dalle 12 di oggi) di truppe russe e siriane a est e ovest della safe zone per garantire l’uscita delle forze curde entro 150 ore, ritiro delle Ypg/Ypj da Manbij e Tel Rifat e pattugliamento congiunto russo-turco.

Erdogan sorride : salva la faccia, caccia le forze curde e ottiene il controllo di almeno un quarto della safe zone desiderata, 100 km dove «sarà mantenuto l’attuale status quo». Già nel pomeriggio il capo delle Forze democratiche siriane, Mazlum Abdi, in una lettera al vicepresidente Pence aveva confermato «il ritiro di tutte le forze Ypg» dalla safe zone.

Chi non se ne va sono le truppe governative siriane, arrivate su richiesta curda. Ieri il presidente Assad è stato chiaro in merito al territorio oggi in mano alla Turchia (secondo il ràis, 2.200 km quadrati e 160 villaggi), per essere smentito dall’accordo con Putin: «Erdogan è un ladro, ruba la nostra terra – ha detto in una visita ai soldati a Idlib, la provincia nord-ovest dove è in corso da aprile uno scontro indiretto tra Damasco e Ankara – Ha rubato fabbriche, grano, carburante e oggi ruba terra. Ci stiamo preparando a sostenere ogni gruppo che porterà avanti resistenza popolare contro l’aggressione turca. Non è una decisione politica, ma un dovere costituzionale».

Dall’altro lato della frontiera, a parlare era il governo di Baghdad. Le truppe americane ritirate dalla Siria del nord ed entrate in Iraq, si legge in una nota governativa, «non hanno il permesso di restare». Un messaggio in aperta contraddizione con quello del Pentagono secondo cui i mille marines (che lunedì si sono presi sassi e pomodori marci della gente di Qamishlo, capitale del Rojava) si sarebbero fermati in Iraq per proseguire – non si sa bene come – la campagna anti-Isis.

di Chiara Cruciati

da il Manifesto del 23 ottobre 2019

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