Turchia verso il voto e verso dove?
L’esito delle urne di domenica 16 Aprile è quanto mai incerto. La sondaggistica turca dopo che per giorni e giorni dava per favorito il no, a ridosso del voto è arrivata ad attribuire qualche chance anche al sì. Quale che sia il risultato, saranno comunque pochissimi i punti percentuali di scarto. E in entrambi i casi, che vinca il sì o il no, per la Turchia non si prospetta comunque una periodo sereno.
La vittoria del sì è il sogno accarezzato a lungo dal Presidente Erdogan, le cui gigantografie nel corso della campagna hanno invaso le città e che a ridosso del voto sta girando freneticamente per tutto il Paese per convincere gli indecisi, una frangia a cui appartengono soprattutto gli elettori dei due partiti sostenitori della riforma, il suo AKP e gli ultranazionalisti del MHP.
La Turchia più forte, più sicura e più democratica descritta dal materiale propagandistico distribuito dai sostenitori del sì, sarebbe una repubblica presidenziale dove una forte concentrazione del potere renderebbe i processi decisionali più veloci e più efficaci.
Nei 18 articoli sui quali i cittadini turchi sono chiamati a esprimersi dopo che il parlamento li ha già approvati, fra le altre cose si abolisce la figura del primo ministro a favore di quella del capo dello stato, che detiene il potere esecutivo, diventando così anche il capo del governo. Il nuovo super presidente può nominare ministri e sciogliere il parlamento e ha anche parte di potere legislativo in quanto può emanare decreti legge. Inoltre aumenta l’ingerenza del governo anche sul potere giudiziario, in quanto la riforma attribuisce il potere di nominare 12 dei 17 membri del consiglio superiore della magistratura al presidente della repubblica o ai membri del suo partito, a cui tra l’altro viene lasciata la possibilità di rimanere iscritto.
Si tratta indiscutibilmente di un sistema con un uomo solo al comando, sulle cui azioni, come denunciano i sostenitori del no, mancherà il necessario sistema di controllo: la riforma infatti abolisce la possibilità di interrogazioni parlamentari scritte e stabilisce che solo con l’approvazione dei due terzi del parlamento si possa far partire un’azione giuridica nei confronti del presidente.
La vittoria del no scongiurerebbe la messa a sistema di una modalità antidemocratica di esercizio del potere di cui il presidente Erdogan ha già dato esempio negli ultimi anni e in particolare nei mesi successivi al fallito golpe del 15 Luglio. E impedirebbe a una controversa figura come la sua di rimanere alla guida del Paese per almeno un altro decennio, collocandolo nella storia al fianco del fondatore della patria Ataturk.
Se vincesse il no prenderebbe fiato quella parte di Turchia moderna e democratica che, nonostante la repressione, continua a esistere e ha portato avanti una campagna di opposizione non senza rischi. Se vincesse il no forse la Turchia tornerebbe a guardare a occidente e viceversa, interrompendo un processo di isolamento rabbioso e isterico in cui Erdoğan, ma anche con le responsabilità della stessa Europa, l’ha infilata. Se vincesse il no si aprirebbe la strada a scenari politici diversi da quello che in sostanza sarebbe un regime di stampo mediorientale.
Ma anche se vincesse il no, l’obbiettivo della pacificazione di un paese lacerato dai conflitti interni ed esterni, e in cui gli spazi di libertà si sono progressivamente ridotti, è ancora molto lontano. L’attuale stato di emergenza assicura al presidente Erdogan un’agibilità in qualche modo comparabile a quella introdotta dalla riforma. Questo unito alle debolezze, alle contraddizioni e alle divisioni delle opposizioni non arriva a creare il necessario contrappeso a una volontà di esercizio del potere ad ogni costo che risulta più che evidente.
Serena Tarabini
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