Venti contrari sul fronte sionista
Possibili scenari dopo le dimissioni del falco Liebermann.
La triste catena di eventi che ha preso avvio nella notte di domenica 11 novembre con l’incursione sotto copertura delle forze speciali israeliane nel sud della Striscia di Gaza (nonostante fosse in auge una tregua formale tra le due parti), che è costata la vita a sette palestinesi e a un militare israeliano e alla quale ha fatto seguito l’ennesimo catastrofico scambio di razzi e bombe tra Hamas e l’esercito israeliano, si è conclusa in modo inaspettato.
In una conferenza stampa, a latere della riunione d’emergenza del gabinetto convocata ieri sera da Natanyahu che ha stabilito un nuovo “cessate il fuoco” anche grazie all’ennesima mediazione da parte dell’Egitto, il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha rassegnato le sue dimissioni, portando con sé tutto il suo partito – l’ipernazionalista Yisrael Beiteinu di cui Lieberman è stato uno dei fondatori – che è così uscito dalla coalizione di maggioranza. Non solo, l’ex Ministro – colui che aveva cantato vittoria lo scorso 9 novembre quando il Primo Ministro israeliano aveva dato la sua benedizione al progetto di legge da lui proposto che prevedeva in sostanza una deregolamentazione dell’applicazione della pena di morte per i detenuti accusati per omicidio – si è sbattuto la porta alle spalle chiedendo a Netanyahu nuove elezioni.
L’inquietante pensiero che sfiora le menti è che Liebeman, nell’affermare che la decisione presa dal Governo di stabilire un’ulteriore tregua (come se le tregue accettate da Israele, ultima delle quali quella che l’incursione militare di domenica ha violato, non siano di norma puntualmente disattese) è una forma di “resa al terrorismo”, si stia spianando il terreno per presentarsi come oppositore di destra di Netanyahu. Una possibilità peraltro già paventata nel 2014, in seguito ad alcune divergenze tra i due sul tema del conflitto con Gaza, dal momento che Lieberman chiedeva un’azione “definitiva e forte” contro i fondamentalisti islamici di Hamas.
Ora, ci si chiede, come reagirà il premier israeliano a questa gara di radicalità, a questo braccio di ferro tra nazionalisti antiarabi, proprio lui che ha costruito la sua figura politica sulla difesa del Popolo eletto, dello Stato di Israele e sulla lotta al terrorismo? Due possibili scenari, a una prima analisi, si aprono ai nostri occhi.
La prima catastrofica opzione è quella di un’ulteriore radicalizzazione del Governo, spinta dal rifiuto da parte del Primo Ministro a essere additato come moderato e amante degli arabi. D’altra parte, ciò significherebbe sostanzialmente fare un passo indietro e riconoscere validità alle accuse di Lieberman, anche se viene da pensare che, se quest’ultimo è arrivato al punto di rassegnare le proprie dimissioni, la strada che sta intraprendendo la maggioranza va forse in altra direzione. Inoltre, siamo sicuri che il partito di Netanyahu, Likud, reggerebbe il confronto con Yisrael Beiteinu (letteralmente “Israele, casa nostra”), partito che alle elezioni del 2009 è stato il terzo maggior partito israeliano, conquistando quindici seggi e diventando il reale partito guida del sionismo laico anti-islamico più radicale’
E qui si apre la seconda ipotetica prospettiva. Con il primario obiettivo si screditare le posizioni di Lieberman e di mantenere il potere, il Primo Ministro potrebbe puntare sull’appoggio, mai cercato prima, dei moderati, cominciando una campagna basata sullo slogan “basta violenza per il popolo israeliano”. Quello che potrebbe succedere, dunque, è che la volontà di mantenere la sua posizione spinga Netanyahu a cavalcare il malcontento di una popolazione che sempre più si sente costretta dall’ingerenza del proprio Stato, che la obbliga al giuramento di fedeltà, a prestare servizio militare nei check-point della Cisgiordania sparando a vista su persone indifese – pena, un anno di carcere – e a vivere in un sostanziale auto-isolamento e nella costante paura di un attacco terroristico. Una popolazione che si dimostra essere anche potenzialmente progressista, con grandi potenzialità intellettuali (fatto tesoro anche di una tradizione di effettiva ricchezza culturale) e che fino a ora aveva sostanzialmente accettato lo status quo anche perché riconoscente a un welfare state che gli garantiva uno stile di vita decisamente al di sopra delle proprie possibilità e degli standard di tutto il resto del mondo. Fino a ora, nonostante tutto, gli israeliani si sentivano prima di tutto protetti e coccolati nella loro Terra Promessa, ma forse le cose stanno cambiando e un politico furbo forse sarà in grado di capirlo.
Non facciamoci illusioni, che Netanyahu possa contemplare un simile cambio di rotta è ovviamente solo un meschino stratagemma per mantenere la sua poltrona e una pura manovra utilitaristica, ma nondimeno si tratterebbe di un passo avanti nel riconoscere che la politica israeliana attuale non è forse più sostenibile a livello interno prima che internazionale e di un primo nodo di svolta di una situazione che ormai appare cristallizzata e senza via d’uscita.
S_M
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