A Milano l’accesso alla procedura d’asilo è ancora ultimo in coda
La scena davanti all’ufficio immigrazione di via Cagni 15 a Milano è la stessa ogni settimana. E il rischio è che ci si possa abituare. Centinaia di (aspiranti) richiedenti asilo si presentano tra venerdì e domenica. Compongono una fila per nazionalità e rimangono su un marciapiede transennato dalla Polizia fino al lunedì mattina. La loro speranza si concentra tutta dietro a una porticina scura di un metro per due: è da lì che si accede alla caserma Annarumma.
Dallo scorso dicembre le procedure di richiesta di protezione internazionale sono cambiate. Solo 120 persone a settimana possono entrare, tutte di lunedì. Chi ci riesce, prende un primo appuntamento per la domanda, che sarà depositata e gestita in un secondo momento. La cosa, però, può richiedere tanti mesi: troppi per poter iniziare una vita senza la paura costante di essere espulso. Le persone arrivano da Bangladesh, Egitto, Paesi del Sudamerica, anche Georgia. Hanno le età più diverse, da zero a cinquant’anni. Dopo migliaia di chilometri, spesso di rotta balcanica, si ritrovano in via Cagni disposti a perdere le poche forze rimaste pur di far valere un diritto: quello a una vita dignitosa in uno Stato che li protegga.
Reduci da vari respingimenti, in molti ormai sono attrezzati. Hanno coperte, cartoni appiattiti per potersi sedere, sacchi o zaini con viveri per qualche giorno, strati di vestiti addosso per affrontare il freddo. Stanno ad aspettare anche 24 ore, in un parco all’aperto a qualsiasi temperatura, pur di non perdere il turno. Un turno che però non esiste. “Sono una persona corretta. Abbiamo creato una lista di persone in ordine di arrivo ma a nessuno interessa”, spiega José, richiedente asilo peruviano. È a Milano da mesi, ha trovato un lavoretto e quando non può presentarsi manda il suo capo a fare la fila per lui. “È la quinta volta che vengo qui e non riesco a entrare. Non ci rispettano, è umiliante”, continua mostrando una dopo l’altra le quattro giacche che indossa per ripararsi dal freddo di una notte di febbraio. “Ora odio l’Egitto”, dice Khasib, partito dal Cairo sette mesi fa. “Odio il mio Paese perché se sei egiziano qui non entri. Non è giusto”. La domenica precedente, solo 25 su 300 connazionali erano riusciti a entrare in via Cagni. I cittadini egiziani, infatti, sono quelli a cui più spesso non è riconosciuto l’accesso alla procedura di asilo.
“Non so più che cosa fare. Sono una persona onesta, ho bisogno dei documenti per lavorare in modo regolare”, spiega Ana, di nazionalità georgiana, che prova a prendere un appuntamento all’ufficio immigrazione qui a Milano dallo scorso maggio. “Senza la richiesta di protezione non posso fare niente”.
In via Cagni funziona così da un anno e il clima continua a peggiorare ogni domenica, con cariche e scontri tra Forze dell’Ordine e persone in coda. “I disordini nascono perché la gente viene lasciata fuori per tantissime ore senza indicazioni – racconta un volontario di Mutuo Soccorso Milano -, molti non parlano neanche italiano. Spesso vengono spostati senza alcuna spiegazione da una parte all’altra, e non capiscono cosa stia succedendo. Restano fuori nonostante siano in fila da giorni, e questo genera nervosismo e caos”. I pochi che riescono ad accedere alla questura stanno in un tendone riscaldato, in attesa di formalizzare la loro domanda di protezione internazionale. Normalmente viene dato loro un appuntamento nella stessa settimana, tenendo conto del calendario dei mediatori e interpreti disponibili per l’identificazione. Nella data stabilita viene poi rilasciato un foglio anagrafico, che non riconosce particolari diritti se non l’inespellibilità, con cui si fissa un secondo appuntamento, quello per la compilazione del “Modello C3”. Il C3 è l’unico modulo che formalizza la domanda di protezione internazionale. Dopo aver completato la procedura, l’iter prevede l’emissione di un permesso temporaneo di sei mesi, un cedolino con foto, che va rinnovato fino al riconoscimento di qualche forma di protezione o al rigetto della domanda. Questa ricevuta permette anche l’iscrizione al Sistema sanitario nazionale e, dopo due mesi, di lavorare legalmente sul territorio.
Di fronte alle centinaia di persone che non riescono a entrare in questura, l’associazione Naga cerca di evitare che il loro diritto a presentare istanza di protezione internazionale sia negato. “Stiamo depositando in Tribunale diversi ricorsi perché siano rispettati i termini prescritti dalla normativa vigente, cioè di tre giorni dalla manifestazione della volontà di chiedere asilo, prorogabili di ulteriori dieci in casi eccezionali”, spiega una volontaria. “Entro il tredicesimo giorno, il richiedente ha diritto a un appuntamento per compilare la propria domanda, ma le tempistiche non vengono quasi mai rispettate”.
di Niccolò Palla e Sara Tirrito
Foto di Niccolò Palla e Sara Tirrito
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