Manifesto: it’s time to act!

Riceviamo e pubblichiamo:

 

MANIFESTO: IT’S TIME TO ACT!
Uno spazio necessario nella metropoli milanese.

Anni di ristrutturazione capitalistica e deregolamentazione selvaggia del mondo del lavoro ci hanno consegnato un presente segnato da forti disuguaglianze e privo dei meccanismi di tutela collettiva che avevano mitigato, per alcuni decenni in Europa, la violenza del modello economico e sociale in cui viviamo.

Contenere il costo del lavoro è diventato così l’imperativo di una società perennemente in crisi ma ossessionata dalla crescita economica.

Dagli anni ‘80 in poi la società si è trasformata in un laboratorio sociale ed economico: la privatizzazione e la liberalizzazione hanno aperto la strada alla finanziarizzazione dell’economia, la grande industria ad integrazione verticale ha iniziato a delocalizzare e a sub-appaltare il lavoro; il capitale ha consumato e svuotato lo Stato per poi liberarsene e abbracciare un cosmopolitismo libero da obblighi, diritti, leggi e fedele solo al suo cda.

Il lavoro ha così perso la sua centralità nella società.

Infine, l’automazione e la rivoluzione digitale hanno determinato un’ulteriore trasformazione delle professioni e il ritorno a forme di sfruttamento, che spingono ai margini una moltitudine di donne e uomini, privati delle condizioni materiali per poter condurre una vita degna, autodeterminata e libera dal bisogno.

Queste nuove professioni, oltre a caratterizzarsi per la totale assenza di tutele, costringono le lavoratrici e i lavoratori a vendersi in cambio di retribuzioni e diritti al ribasso, miserabili e non garantite. Un caporalato digitale che si nasconde dietro al proliferare di definizioni fuorvianti e tese a celare l’ipersfruttamento al quale viene sottoposta la nuova forza lavoro: la gig economy (in italiano “l’economia del lavoretto”) prova infatti a trasformare quella che dovrebbe essere riconosciuta come prestazione salariata in una sorta di hobby.

Così sfuggire al ricatto di disoccupazione e povertà si trasforma nell’arte di rinnegare noi stessi e le nostre competenze, reinventandoci finti lavoratori autonomi impiegati a tempo pieno nell’economia in demand e accettando impieghi a bassa qualifica.

La fine delle vecchie categorie professionali che creavano nuova ricchezza e nuovi mercati, si risolve infine nella possibilità, per le nuove piattaforme digitali di scaricare i costi della sicurezza sociale, precarizzare i rapporti lavorativi e sfuggire a responsabilità fiscali e legali.

Al netto di un immaginario che esalta l’autonomia e la flessibilità dell’individuo artefice del proprio destino, è l’azienda, o meglio l’algoritmo che governa la piattaforma, a stabilire quando lavorare, quanto lavorare e se si potrà lavorare.

Distribuiti lungo filiere produttive sparse per diversi continenti, messi al lavoro da tecnologie che ne misurano l’efficienza o da imprese che ne negano l’identità o la sfruttano a proprio vantaggio, i lavoratori e le lavoratrici del nuovo millennio si ritrovano così divisi da battaglie generazionali tra vecchi garantiti e nuovi precari, minacciati dalla sostituzione tecnologica in ogni settore produttivo ( logistica, grande distribuzione, vendita al dettaglio, industria pesante ma anche nel terziario), dai sindacati gialli, dalle violenze padronali e da connivenze sempre più intense, soprattutto nelle campagne e là dove si sfrutta il lavoratore migrante, tra istituzioni territoriali e reti criminali organizzate. O ancora, come nel caso dell’Ilva, dal connubio tra sfruttamento dell’ambiente e del lavoro.

Il tempo diventa in questo modo il vero motore del valore, del profitto che è possibile estrarre da ogni nostra attività. E se gli algoritmi che ci mettono al lavoro costruiscono prassi lavorative sempre più efficienti e sempre meno umane, utilizzando sensori per tracciare e monitorare i movimenti ( e i tempi) di fattorini, magazzinieri, autisti… Allo stesso tempo altro tempo viene messo a valore da un processo di estrazione meno visibile.

Il tempo libero e della riproduzione sociale, il tempo nostro, quello del non lavoro ma degli affetti, delle relazioni e dei nostri interessi viene infatti collocato lungo la catena del valore, diventa parte integrante della filiera produttiva, merce di scambio sui mercati finanziari globali. Attratti dalla possibilità di utilizzare gratuitamente piattaforme digitali con cui migliorare la qualità della nostra vita sociale, abbiamo ceduto ad aziende internazionali anche la nostra intimità, i nostri desideri e i nostri pensieri.

I big data sono il petrolio digitale di quest’epoca, l’ennesimo tentativo riuscito di mercificare ogni ambito della vita e di metterci al lavoro in ogni momento della giornata. Di renderci operai della nostra vita e di rendere la società stessa, una fabbrica sociale.

Se per alcuni “E’ più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” per molti è impossibile immaginare un’esistenza priva di lotte. Lotte che continuano a generarsi nonostante il costante tentativo di controllo e repressione. Lotte, nate per lo più dall’auto-organizzazione dei soggetti che le muovono, che necessitano di strumenti adeguati a contrastare le condizioni di moderno sfruttamento, di spazi dove recuperare il senso di comunanza per organizzare l’agire collettivo di chi condivide le stesse condizioni e privazioni.

La CAMERA DEL NON LAVORO, vuole dunque essere lo spazio fisico e mentale dove organizzare il rifiuto di vecchie e nuove forme di sfruttamento. Di reclamare salari che non ci sono riconosciuti, di liberare tempi che sono stati messi a valore.

Non lavoro perché non crediamo alla retorica moralista per cui la realizzazione, l’emancipazione e la libertà delle persone possa determinarsi grazie ad attività che generano, oggi più di ieri, precarietà estesa a tutti gli ambiti dell’esistenza, sfruttamento dei corpi e dei territori, povertà e morte.

Non lavoro perché crediamo nella possibilità che ci venga riconosciuto un reddito di base ed incondizionato, una ricchezza che ci è stata sottratta e che si accumula lungo le nostre relazioni e al di fuori dei luoghi del nostro lavoro.

Attivi o non attivi, tutti subiamo indifferentemente le scelte politiche ed economiche di un sistema che per sopravvivere e prosperare necessita di allargare le maglie dello sfruttamento direttamente e indirettamente.

L’assenza di politiche abitative in favore della speculazione edilizia, Il processo di privatizzazione della sanità, del trasporto pubblico sempre meno accessibile, e della scuola, nonostante assolva perfettamente al suo ruolo di asservire ed educare allo sfruttamento del lavoro gratuito, contribuiscono a precarizzare e impoverire ulteriormente le nostre vite.

Non lavoro, dunque, perché tendiamo a una ricomposizione sociale a partire dai bisogni di tutte le sfruttate e gli sfruttati, a partire dalla possibilità di autodeterminare il nostro tempo di lavoro e di non lavoro.

Vogliamo costruire una coalizione sociale che ricomponga precari di vecchia e nuova generazione, un nuovo soggetto antagonista capace di superare la parcellizzazione e l’isolamento dei lavoratori e la frammentazione costruita con politiche xenofobe e razziste.

Vogliamo agire il presente per contrastare le nuove forme di dominio sulle nostre vite interrogandoci e anticipando un futuro prossimo dove l’automatizzazione, amplificherà lo sfruttamento a tutti i livelli e a tutte le nuove professioni.

Vogliamo coagularci attorno alla richiesta di un reddito universale che tenga conto della ricchezza sociale che abbiamo prodotto e che ci viene continuamente sottratta, ogni giorno, da piattaforme digitali che, a dispetto dei proclami, non si operano per la collettività ma operano su questa e attraverso essa.

Vogliamo capire attraverso il lavoro d’inchiesta per strada, tra e con i lavoratori come poter agire.

Vogliamo dotarci di strumenti adeguati a reagire alle attuali e future condizioni imposte da un mercato del lavoro in continua ristrutturazione, per questo daremo vita anche ad uffici specifici dove sarà possibile trovare risposte ed organizzazione sul terreno del conflitto.

Vogliamo resistere attraverso la pratica solidale del mutuo aiuto, formando gli attivisti della CDNL e mettendo a disposizione della comunità i nostri saperi collettivi ed individuali oltre alle nostre conoscenze per sostenere chiunque non possa accedere gratuitamente ai servizi di cui necessità.( avvocati, commercialisti, vertenzialisti, patronato, medici legali) supportati dagli attivisti della camera del non lavoro.

Ma, soprattutto, vogliamo organizzare la rabbia, frutto di anni di subalternità, e il conflitto dentro e fuori il sistema produttivo che ha fagocitato l’intera società, coscienti e consapevoli che la lotta di classe esiste.

La CDNL sarà il luogo fisico dove organizzare la Vendetta precaria ma non solo…

CDNL – Camera del Non Lavoro

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