In corteo per un reddito garantito, come minimo: “Questo è il primo passo”

La manifestazione Trasversale, coraggioso, innovativo: alla ricerca di una nuova prassi. In diecimila a Roma alla manifestazione indetta da 140 realtà hanno aperto uno spazio nel mefitico dibattito italiano sul Workfare e contro la guerra ai poveri, ai giovani e ai precari. Gli auspici, e le necessità, contro il «Decreto lavoro» del governo Meloni. E tornano le nuove parole: «Convergenza delle lotte» «Autodeterminazione», «Salario, casa e Welfare».

I carrelli della spesa in apertura del corteo che riportano gli aumenti stratosferici causati dall’inflazione: patate: +18,5%; carne: 10,8%; burro: +33%. La tenda degli studenti che protestano contro il caro-affitti e la destinazione di 660 milioni di euro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) alle imprese che costruiscono residenze universitarie e privatizzare il diritto allo studio. Il divano, simbolo ironico dei beneficiari del «reddito di
cittadinanza» mangiapane a tradimento, inventato dai Cinque Stelle (al tempo c’era Di Maio) e poi usato dalle destre per una campagna di odio di classe allo stato puro che dura da quattro anni. Chi guadagna 500 euro al giorno insulta chi ottiene a stento 500 euro al mese solo per qualche periodo deve anche stare zitto. «Nemico è chi affama, non chi ha fame» abbiamo letto su uno striscione. Il commento più adeguato a questo spettacolo osceno.

Sono i tre simboli usati nella manifestazione organizzata ieri a Roma dalla campagna «Ci vuole un reddito», garantito come minimo, sostenuto da più di 140 associazioni, sindacati e movimenti. Sono serviti a rappresentare la multidimensionalità delle povertà, non solo economica ma esistenziale culturale e politica, in un paese dove il governo dell’estrema destra postfascista e leghista ha peggiorato i limiti del «reddito di cittadinanza» mantenendo i suoi inadeguati criteri di accesso nel nuovo «assegno di inclusione» e rendendo quasi inaccessibile il «supporto per la formazione e il lavoro» per i poveri definiti «occupabili». è quanto è stato deciso nel «Decreto lavoro» varato in maniera provocatoria dal consiglio dei ministri del primo maggio, insieme alla liberalizzazione dei contratti a termini e al potenziamento dei voucher.

Contrario a questa decisione che pro-ciclica che aggrava le povertà e aumenta le precarietà, il corteo si è mosso tra le strade nel quartiere Esquilino in un clima tropicale ed è terminato sotto una bomba d’acqua nel giardino di piazza Vittorio. Hanno partecipato almeno diecimila persone, dato non scontato nel clima di frammentazione identitaria e impotenza organizzata in cui viviamo. Un corteo coraggioso in primo luogo per la trasversalità non scontata e tutta da sperimentare dei promotori (dai sindacati di base Cobas, Adl Cobas, Cub e Clap) alla Cgil (7 federazioni nazionali) ai centri sociali e movimenti, il mutuo soccorso (Nonna Roma o Fuori mercato) alle associazioni per i diritti, ottenendo l’adesione dei partiti delle sinistre (Sinistra Italiana e Unione Popolare), del Pd e dei Cinque Stelle. Il prossimo appuntamento, probabilmente, sarà a inizio luglio quando il «Decreto lavoro» sarà convertito in legge.

Raccontato a malapena dalla stampa dominante che trova più interessante il frame dei «divanisti» o caricaturare gli screzi tra le opposizioni (bastava guardare i siti ieri sera: nulla, o quasi in home page) la campagna «Ci vuole un reddito» è riuscito a portare sul proprio terreno i Cinque Stelle che hanno imposto il modello populista e neoliberale del «reddito». E il Pd, protagonista della precarizzazione della società . Dal palco la timida adesione della manifestazione è stata intesa come «un mea culpa. Vogliamo vedere i fatti a cominciare dalle proposte che presenteranno opponendosi al decreto di Meloni».

Il discorso non è limitabile alle prossime scadenze. È una prospettiva. Il corteo è stato coraggioso anche perché ha coalizzato più di un centinaio di esperienze diverse sulla proposta di un «reddito garantito» incondizionato (cioè slegato da obblighi di formazione e lavori servili, il Workfare). Non solo un sussidio, ma un diritto all’esistenza riconosciuto sia ai 5,6 milioni di «poveri assoluti», sia a una platea potenziale di 15 milioni di poveri «relativi», precari e lavoratori intermittenti residenti, indipendentemente dalla cittadinanza. Esclusi dal «reddito di cittadinanza» istituito da Cinque Stelle e Lega e modificato dal governo Meloni a partire da settembre, e comunque dal 2024.

Coraggioso, infine, il corteo è stato perché ha trasformato un’intuizione teorica in una pratica politica all’altezza della congiuntura: il reddito «garantito» non va opposto al salario minimo né al lavoro com’è stato fatto , e non è diverso né dal diritto alla casa, né alla riforma della tassazione o alla critica dell’economia capitalistica in senso ecologista. Anzi, è un elemento fondamentale per articolare ciò che i nuovi movimenti transfemministi come «Non una di meno», e il collettivo di fabbrica della Gkn, presenti alla manifestazione: alleanze politiche non identitarie in cui diritti sociali, civili, ambientali sono inseparabili e opposte alle gerarchie di classe, sesso e razza. Questo è un ponte gettato sulle convergenze tra le lotte in corso. Una nuova logica politica, sperimentata altrove. E che prova a farsi strada in Italia. Questa è l’idea di fondo detta dal palco: «Non vogliamo rappresentare i “percettori” del reddito di cittadinanza. ma partecipare con loro, prendendo ciascuno la parola e agendo insieme». «Questo è il primo passo» è stata l’espressione più ricorrente. Un auspicio, una necessità.

di Roberto Ciccarelli

da il Manifesto del 28 maggio 2023

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