Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (settima parte)
Il 25 Novembre è la giornata contro la violenza di genere e la violenza maschile sulle donne.
Come collettiva transfemminista queer partecipiamo e contribuiamo come ogni anno alle iniziative, azioni e mobilitazioni messe in campo dal Movimento di NUDM e del nodo milanese.
Quest’anno abbiamo deciso di fare un passo oltre e unire le nostre voci, raccontarci.
La pagina ospiterà riflessioni e racconti riguardo la violenza di genere e tutti i modi in cui si manifesta e le conseguenze che può avere, in modo diverso, su ognun* di noi.
Partiamo da noi perché non ci arroghiamo il diritto di parlare per altr* ma con l’auspicio che questo permetta a chi è sopravvissut* di sentirsi legittimat* a narrarsi.
Crediamo che la condivisione sia strumento per svelare la realtà sommersa delle violenze e trasformare la percezione spesso sminuente e minimizzante che si ha delle stesse.
Crediamo anche che siano strumento utile per creare alleanze ed empowerment.
Invitiamo chiunque voglia a partecipare, scrivendoci un messaggio alla pagina, perché tutte le storie possano avere spazio e la libertà di essere raccontate.
P.S. Questo è uno spazio safe e di rispetto.
Qualsiasi commento giudicante, stereotipo, pregiudizio, qualsiasi hater verrà bannat* senza pietà, perché con certa gente non si discute neanche.
Consigliamo nel caso di seguire gruppi come Maschile Plurale o di rivolgersi a Centri d’ ascolto per persone maltrattanti.
Da un anno circa a questa parte mio padre ha iniziato a violentare psicologicamente mia madre perché lei non lo ama più ed è stata sincera con lui.
Dalla mia camera la notte sento quello che mia madre e mio padre si dicono e ogni giorno mi rendo conto di quanto i suoi comportamenti mi facciano ribrezzo e soprattutto male.
“Anna con chi cazzo sei al telefono?”.
“So che stavi parlando con lui come sempre, fammi vedere il telefono”.
“Sei sempre al telefono con i tuoi colleghi”.
“Chissà con chi ti starai scrivendo quei cuori”.
“Non vieni neanche più a letto con me, stai tutta la sera a guardare la tele in sala”.
“Per colpa tua i miei figli mi odiano”.
“Non mi dai attenzioni”.
“Ah esci anche domani sera? E con chi scusa?”.
Oltre a queste frasi che penso di aver sentito tantissime volte in questo arco di tempo, mio padre ha seguito mia madre due volte dopo che era uscita per andare con le sue amiche a fare una cena.
L’ha spinta e l’ha insultata.
Controlla giornalmente se è online da un altro cellulare , per non fare vedere che è online anche lui, e lo fa anche mentre siamo in moto e in macchina mettendo a rischio la mia vita e quella dei miei fratelli.
È anche successo che lui si lamentasse del modo in cui lei era vestita per andare al lavoro.
Ha fatto credere a mia madre che la colpa è anche sua.
Mia madre si è autoconvinta che tutte le cose si fanno in due.
Adesso lei pensa di essere quella che deve andarsene di casa.
Ma che colpa ha mia madre?
Ha la colpa di non provare più qualcosa? Questa vi sembra una colpa?
No.
Nessun comportamento o nessun sentimento può giustificare la violenza.
Nessuno può credere di avere il diritto di trattare una donna in questo modo, di farla vivere in angoscia, di farla sentire rinchiusa, di farla sentire un oggetto da possedere.
Papà se ami mia madre lasciala vivere felice, vattene, non puoi possederla e no puoi continuare a comportarti così in casa, io voglio proteggere i miei fratelli, non voglio che loro crescano come te, non voglio che pensino che quello che fai sia giusto o legittimo, voglio che rispettino tutti e tutte in quanto persone, voglio che capiscano che questo NON È AMORE.
“Io posso farti male”.
Pensate di essere violat*, penetrat*, di essere malmenat*, offes*, minacciat*, di essere svilit*, di doversi rannicchiare per proteggersi da qualcun* che conoscete, da qualcun* a cui tenete, di sentire che qualcosa dentro voi è stato rotto da qualcun altr*, di percepire la vostra identità ridotta in frammenti dall’interno, di sentirsi velatamente sempre minacciat* e sempre un po’ in pericolo da quel momento in poi, di sentirsi sbagliat* e di sentirsi sporch*…
Perché è così che ci si sente, si sente di doversi vergognare, di doversi nascondere e di doverlo nascondere quasi fosse una propria colpa. Forse è perché ammetterlo vorrebbe dire screditare proprio la persona che normalmente, quotidianamente siamo portate non solo ad apprezzare e sostenere ma anche a difendere e quindi soffochiamo la nostra di voce così come controbatteremmo ad una critica mossa al nostro partner da una persona terza. Che follia, lo so ma è così.
E’ così finché non si smette di farlo ma è sempre troppo tardi, anche nei casi migliori dei traumi, dei segni rimarranno per sempre. Dei traumi che saranno crepe e costituiranno delle fragilità nelle persone che hanno subito violenza.
Ho pensato molto a se e come raccontare quella che per me è stata la situazione di violenza fisica più pesante e alla fine ho scritto questo:
Era tardo pomeriggio, una domenica, eravamo a casa sua da soli. Tra vari tira e molla stavamo insieme da qualche anno ormai. Io mi ero addormentata sul divano, quando mi svegliai mi resi conto che fosse arrabbiato, cominciammo a litigare e poi ho scoprii che mentre dormivo mi aveva preso il telefono e si era messo a leggere messaggi e conversazioni. Ho capito che sarebbe stata una brutta litigata perché motivazioni serie per arrabbiarsi si intrecciavano nei suoi discorsi con paranoie, film e costruzioni mentali. Vabbè, in una coppia a volte si litiga.
Non starò qui a raccontare i dettagli, potrei farlo ma ora come ora non mi va.
Sta di fatto che il giorno dopo ero a casa mia, ero da sola, era giorno e io osservavo i lividi, tastavo le braccia, l’incavo del collo, i fianchi e un po’ qua un po’ là sentivo dei punti sui quali passare la mano mi faceva male.
Quella mattina si è minimamente scusato, io gli ho detto una cosa tipo “tranquillo, non preoccuparti” come chi mi conosce sa che faccio spesso. “Tranquillo, non preoccuparti”, non preoccuparti, non voglio fargliela pesare pensavo. IO, IO mi stavo sobbarcando il peso di quello che era successo, e lo stavo facendo con il peso e con il suo, stavo prendendo quei pesi e li stavo nascondendo non solo a lui ma a me stessa e a tutti gli altri. Quando litigavamo poi con le mie amiche, amici, con mia mamma magari ne parlavo…di questo non si poteva parlare. IO DOVEVO NASCONDERLO, PROTEGGERLO, DIFENDERLO. Cosa avrebbero pensato gli altri, di lui ? Come se fosse una mia responsabilità.
Ho avuto ancora l’impressione, la sensazione che potesse rifarlo ? Sì
Il giorno dopo scrissi una nota, sul telefono, poi salvata anche in una remota cartella del computer, che non ha mai visto nessuno. Non so bene perché la scrissi, penso fosse un misto di sfogo di qualcosa che avrei voluto urlare ma che invece soffocavo in fondo alla gola e un desiderio che una traccia rimanesse, una testimonianza scritta, che non potesse essere cancellata dopo che i lividi sarebbero passati.
Quello che sto per aggiungere non vuole essere una giustificazione all’atto, vuole essere una contestualizzazione. Questa persona a sua volta era cresciuta in una situazione familiare di violenza domestica sia verbale, che psicologica, che fisica. Detto ciò qualcuno potrebbe pensare “eh essendo cresciuto così, il soggetto problematico è lui, il singolo” invece NO NO NO non è così. Lui e il padre prima di lui sono solo i prodotti di un sistema. Di un sistema in cui la donna è in una percentuale grande o piccola, un oggetto di qualcuno, del padre, del fratello più grande, del partner e quindi questo qualcun altro ha il potere di esercitare di diritto di possesso su di te, sulla tua identità , sulla tua persona. Può prenderti, sfogarsi su di te, perché tu sei una psicologa, sei un’infermiera, sei una bambola messa su una sedia zitta ad ascoltare ed eventualmente annuire, dando ragione quindi ovviamente, sei un sacco da boxe, sei una bambola gonfiabile.
Tutto ciò è disgustoso ma è così, non sempre, non con tutti ma SPESSO e con TANTI, TANTI, molti più di quanto un* pensi o voglia pensare per sentire questo problema distante da sé e dai propri amici, parenti.
“Il problema è il singolo” è la stessa cosa di dire “sono stata sfortunata io”.
Ma quando IO sono stata “sfortunata” ma lo è anche la mia migliore amica, una mia compagna delle superiori, la mia coinquilina, la mia amica dell’università, la SUA migliore amica, la madre del mio ex, la madre del mio migliore amico allora cos’è? Sfortuna? Io non credo.
Quando qualche anno fa leggevo “una donna su 3 in Italia ha subito violenza almeno una volta” e pur non mettendomi a contraddire i dati Istat se devo essere onesta ad una buona parte del mio cervello sembravano un po’ strani.
Poi però crescendo le “esperienze” aumentano, i rapporti che rimangono diventano più profondi e i discorsi che si possono affrontare più intimi…ed è così che un giorno, all’ennesima confessione di “sai mi è successa questa cosa cosa” ho pensato “BASTA non è possibile, non è lei che è stata sfortunata. Davvero, anche stavolta sembrava un ragazzo normale e invece poi senti che le ha detto, come l’ha svilita, come l’ha minacciata, cosa le ha fatto”.
E lì ho ripensato a quell’una su tre e ci ho creduto, perché se anche i ragazzi “normali” nell’intimità possono arrivare a dire/fare certe cose perché presi dall’ira, INCAPACI di gestire certi sentimenti, emozioni e con una mentalità (magari anche inconscia) tale per cui TU PUOI FARLE, DIRLE certe cose, TU PUOI perché tu sei qui e lei è lì, inferiore a te in quanto donna e quindi pensare di avere un qualche diritto SU di lei, allora il problema è sistemico perché i ragazzi “normali” sono il prodotto della società “normale” in cui viviamo.
E’ il sistema che li trasforma in questo, che vi trasforma in questo, così come un bambino non nasce razzista, non nasce nemmeno maschilista o machista o possessivo o con l’idea patriarcale, quando vengono al mondo l* bambin* sono pur*, è il sistema a rovinarli.
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (prima parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (seconda parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (terza parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (quarta parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (quinta parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (sesta parte)
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