[DallaRete] Israele – In 40mila contro Netanyahu, ma Bibi va avanti per la sua strada

tel-avivProtesta molto partecipata a Tel Aviv contro l’attuale leadership, accusata di parlare di minacce esterne e non dei reali problemi del paese. Ma il premier non si scompone e chiude al dialogo con i palestinesi. 

Gerusalemme, 9 marzo 2015, Nena News – Per gli organizzatori erano 40mila gli israeliani in piazza sabato scorso per “il cambiamento”: “Bibi, hai fallito. Vattene a casa”, gridavano gli slogan e i cartelli. Dopo due mandati (o quasi) di Benjamin Netanyahu, una parte dell’opinione pubblica chiede di cambiare i vertici del paese. Gli attuali, dicono i manifestanti a Tel Aviv, non sono in grado di affrontare la crisi economica e sociale di Israele, con la testa solo le fantomatiche minacce iraniane e islamiste.

Ad organizzare la manifestazione di sabato è stata la One Million Hands, campagna che punta ad un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi e ad un cambio nelle priorità del governo, verso i bisogni economici e sociali della popolazione israeliana. I 40mila di Tel Aviv si sono ritrovati in piazza Rabin: “Questa è una manifestazione dei cittadini israeliani che chiedono un cambio di politica, un accordo di pace – ha detto all’Afp uno degli organizzatori, Dror Ben Ami – L’attuale governo ha fallito sui fronti economico e sociale e non ha migliorato la sicurezza. Il paese è a pezzi”.

“Abbiamo un leader che combatte solo per una campagna, quella della sua stessa sopravvivenza – ha detto dal palco Meir Dagan, ex capo del Mossad, i servizi segreti israeliani – Da sei anni, Netanyahu è primo ministro. Sono sei anni che Israele è fermo al palo. Non ha realizzato un solo cambiamento nella regione né creato un futuro migliore”.

Alla manifestazione di ieri il Likud si è limitato a reagire definendola una mossa elettorale degli avversari (“La protesta è orchestrata dalla sinistra e finanziata da milioni di dollari arrivato dall’estero”, si legge in una nota del partito), senza rispondere in alcun modo alle accuse di aver trascinato il paese in una crisi economica e sociale sempre più pervasiva. Alle elezioni manca poco più di una settimana, il 17 Marzo è vicino. E se gli ultimi sondaggi danno il partito del premier in risalita, qualche seggio in più del Fronte Sionista dei laburisti e della Livni, non si tratterà certo di un plebiscito.

Probabilmente Netanyahu sarà costretto ad allearsi con partiti minori e stavolta potrebbe ritornare all’ovile e optare per i vecchi alleati ultraortodossi, dopo le difficoltà incontrate a tenere insieme l’ultima coalizione di governo: nel 2013, dopo il voto, il Likud optò per i nuovi due partiti nazionalisti nati poco prima, Casa Ebraica del colono Bennett e Yesh Atid dell’anchorman Lapid. Si mangiò subito le mani.

Eppure i 40mila di Tel Aviv, come i Palestinesi dei Territori Occupati e quelli cittadini israeliani, sanno che ben poco cambierà. Qualsiasi sia la coalizione che uscirà dalle urne è difficile immaginare un cambio di rotta sulla questione della pace. Netanyahu con molta probabilità sarà di nuovo premier e in questi giorni ha ricordato a tutti qual è la sua visione di Medio Oriente: più sicurezza per bilanciare la minaccia iraniana e lo spauracchio dell’Isis per calpestare ancora una volta i diritti nazionali del popolo palestinese.

Di nuovo ieri Netanyahu ha ripetuto che non cederà un centimetro di territorio vista l’attuale situazione mediorientale: “Il primo ministro ha detto che nessun territorio sarà ceduto nelle mani di estremisti islamici e organizzazioni terroristiche, non ci saranno concessioni né ritiri. È semplicemente irrilevante”, dice il Likud in una dichiarazione ufficiale. Il messaggio è chiaro e diretto non solo alla leadership palestinese, accostata all’Isis e che comunque ha ben poca voce in capitolo, ma anche all’alleato statunitense: il nuovo governo non intende muovere un passo verso il dialogo. Per sottolineare tale posizione, Netanyahu ha anche negato un suo discorso del 2009 in cui parlava dell’impegno israeliano alla soluzione a due Stati.

Che a Netanyahu e alla precedente leadership non sia mai interessato molto del processo di pace non è una novità. Oggi la migliore scusa è la minaccia islamista, seppur l’Isis non abbia mai detto una parola su Israele. Così la campagna elettorale israeliana diventa becera, barbara: parlamentari che si fingono prigioniere di un fantomatico islamista palestinese, lo stesso premier che pubblica video per generare la paura del califfato, il ministro degli Esteri Lieberman che (dopo aver proposto la pena di morte per i palestinesi che attentano alla sicurezza di Israele) ora parla di tagliare loro la testa.

Insomma, all’attuale leadership interessano poco le reali condizioni della popolazione israeliana, interessati solo ad innalzare a dismisura il livello della paura del nemico esterno. C’è da vedere se gli israeliani, chi andrà a votare, comprenderà la trappola in cui il paese è stato trascinato negli ultimi dieci anni. Non sarà certo l’Iran o l’Isis a dissolvere Israele; basteranno le politiche divisive e diseguali della destra israeliana a spaccare il paese.

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